Nel nostro Paese appena il 18% delle posizioni regolate da un contratto da dirigente sono occupate da donne, una percentuale che negli ultimi dieci anni è cresciuta di appena lo 0,3%, rimanendo quindi sostanzialmente invariata. A ciò si aggiunge il fatto che è proprio nei ruoli manageriali che emergono le maggiori differenze di retribuzione di genere. L’Italia ha progredito verso la parità di genere a un ritmo più sostenuto rispetto a molti Stati membri ma è ancora al 14esimo posto e se si osserva la velocità di progressione degli indicatori, bisogna constatare che di questo passo occorreranno più di 60 anni per conseguire la piena parità di genere. A lanciare l’allarme è uno studio sulle politiche di uguaglianza di genere sulla leadership femminile, realizzato dall’Osservatorio mercato del Lavoro e competenze manageriali di 4.Manager. Anche le recenti innovazioni normative mostrano luci ed ombre. L’analisi sugli effetti della legge Golfo-Mosca sulla parità? di genere nei CdA delle società quotate e delle controllate pubbliche, dimostra che la norma è stata ampiamente applicata e ha determinato un notevole incremento del numero di donne che siedono nei board. Tuttavia, solo una esigua minoranza di imprese ha affidato a donne le posizioni apicali all’interno del Cda – ad o presidente – o ruoli ad elevata responsabilità e remunerazione. Tra il 1977 e il 2018, in Italia il tasso di occupazione femminile è aumentato di 16 punti percentuali (dal 33,5 al 49,5). Guardando poi al tasso di occupazione equivalente a tempo pieno, troviamo l’Italia all’ultimo posto della graduatoria europea con un punteggio pari a 31, contro il 59 della Svezia e il 41 della media europea. In Italia permangono problematiche locali e culturali. Nel 2018 aveva un’occupazione solo il 32% delle donne meridionali contro il 60% delle donne del Nord. Esiste inoltre un fenomeno di “segregazione”, nell’istruzione e nel lavoro, che rende più complessa per le donne la possibilità di cambiare ambito lavorativo. L’Eurobarometro rileva che la promozione dell’uguaglianza di genere è fondamentale soltanto per circa un quarto degli italiani, rispetto al 54% a livello europeo, all’84% degli svedesi e al 72% degli spagnoli. Lo studio evidenzia inoltre diverse dimensioni legate al gap retributivo relative ad esempio all’impatto della maternità, dove la perdita reddituale delle donne occupate è del 35% nei due anni che seguono il parto e del 10% negli anni successivi, e alla minore presenza femminile nei settori a maggiore remunerazione, (tecnologia, ingegneria, finanza, ecc.). Anche i dati sulla digitalizzazione nel mondo del lavoro penalizzano le donne italiane e collocano il Paese in fondo alla classifica europea: Nel 2019 soltanto il 10% delle donne ha effettuato una formazione per migliorare le proprie competenze digitali, contro il 18% della media Ue. La percentuale di italiani con competenze digitali che vanno oltre quelle di base è del 19% per le donne e 25% per gli uomini (Ue 31% per le donne e 36% per gli uomini). La pandemia ha aperto uno scenario di grandissimi rischi ma anche di opportunità. Tra i primi, quello della fuoriuscita dal mercato del lavoro che per le donne è di 1,8 volte maggiore rispetto alla controparte maschile, anche a causa della difficoltà di conciliare i carichi lavorativi e familiari. Tra le seconde quello della possibilità di dare un forte impulso alla valorizzazione dei talenti femminili.
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