L’essenza del nemico e il fine della guerra

di Alessandro D’Ascanio*

I dilemmi etici, il senso di angoscia e le analisi impressionistiche di queste lunghe settimane di ritorno alla realtà bellica sul suolo europeo riportano alla memoria riferimenti, letture e chiavi interpretative che, dallo specifico del contesto ucraino, si allargano al tema primordiale della guerra, della sua origine e del suo significato per la fondazione concettuale della politica internazionale, in particolare rispetto al tema del nemico, della sua natura e del modus agendi nei suoi confronti.
Al netto della palmare concatenazione causale immediata degli eventi, del dibattito lunare sulla responsabilità fattuale della conflagrazione, dell’imprescindibile sostegno militare europeo all’Ucraina in prima risposta all’offensiva russa, del carattere provocatorio e clownesco di un “filoputinismo” deteriore e acritico che persiste sottotraccia in ambienti variegati dello spettro politico italiano, resta il tema, ineludibile, dell’essenza del nemico e del fine della guerra.
In altre parole, il “male russo” deriva dall’irredimibile perversione individuale di Putin o dalla scaltra faccia tosta di Lavrov? Oppure dal carattere autocratico della “democratura” consolidatasi negli anni a Mosca? O ancora dalla conformazione del sistema internazionale nel quadrante est europeo denso di nodi non sciolti a partire dal post-1989?
E il fine di questa guerra è la difesa del diritto all’indipendenza dell’Ucraina? O, viceversa, il cambio di regime politico in Russia? O un mutamento dei rapporti di forza internazionali su scala globale?
Ed è possibile ragionare su tali distinzioni senza essere tacciati di lesa maestà dell’Occidente?
Una disamina datata, ma affascinante per la linearità dello spettro delle sue argomentazioni, resta quella di Kennet Waltz, L’uomo, lo Stato e la Guerra, volume pubblicato nel 1959 in pieno tempo di guerra fredda (trad. it. Giuffrè, 1998) che, attraverso l’espediente argomentativo delle “tre immagini” della politica internazionale (individuale, statuale, del sistema internazionale), presenta al lettore una rassegna di posizioni emerse nella storia del pensiero politico sull’origine della guerra.
E’ chiaro come, ad esempio nell’affermazione estemporanea, ma sincera di Biden in visita alle truppe al fronte (nell’inscenare un rituale tipico della potenza in guerra peraltro) nella quale egli dichiara l’impossibilità di far “restare al governo quest’uomo” emerge il riflesso condizionato di una posizione antica della retorica democratica per la quale popoli buoni sono traviati da leader diabolici la cui rimozione comporterebbe un immediato riallineamanento pacifico delle parti in lotta.
Ma non torneremmo allora all’esportazione violenta della democrazia? E il “gigante sofferente” russo, certo messo a nudo in tutti i propri limiti militari e di tenuta economica da questa sua drammatica sortita bellica, certo stordito e violento nella sua transizione dí status internazionale sarebbe oggettivamente limitabile al ruolo di “potenza regionale” a cavallo tra Europa ed Asia contenuto da una schiera armata dalla Scandinavia alla Turchia in funzione di minaccia deterrente e schiacciato nella sfera d’influenza del nuovo dominus asiatico cinese?
In altre, forse semplicistiche, parole, la Russia sarebbe riducibile sic et simpliciter a paese sconfitto? In barba agli esiti del secondo conflitto mondiale, della storia complessa e contraddittoria del modello sovietico nel corso del Novecento, della travagliata ricostruzione di un’identità russa dopo il crollo dell’Urss?

O, al di là dei residui di sue “pulsioni imperiali”, essa resterebbe un fattore nodale degli equilibri mondiali in senso oggettivo come già metteva in evidenza Antonio Gramsci in una serie di articoli sull’Ordine Nuovo in riferimento alla “regione dei mari interni” (cfr. Giuseppe Vacca, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Granisci, Einaudi, 2017).
Torna in risalto, forse, l’incompiutezza dell’Europa nel definire un quadro di relazioni stabili e integrate con la Russia più debole di sempre (quella del post-1989), il fallimento del tentativo riformatore di Gorbaciov e il nodo delle guerre jugoslave, in particolare la guerra del Kossovo del 1999 certo originata, nell’immediato, dalla violenza etnica di Milosevic, ma utilizzata da Clinton per escludere la Russia dal governo effettivo degli equilibri mondiali (anche con avvertimento alla Cina mediante una bomba forse non casuale sull’ambasciata cinese a Belgrado).
Non basteranno l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato e lo storico riarmo tedesco a dare una forma compiuta e pacifica al rapporto Europa-Russia né, tanto meno, la futuribile e auspicabile integrazione militare europea in un esercito comune.
Non si uscirà dalla necessità di un negoziato di pace con la Russia, per quanto complesso esso possa presentarsi, e l’Italia, in virtù della sua ricca e articolata tradizione di “interlocuzione internazionale” con l’altro da sé, avrebbe dovuto e potuto recitare un ruolo più attivo e coraggioso al di là di “oltranzismi atlantici” di maniera non propriamente in linea con il suo recente passato repubblicano.

*storico, sindaco di Roccamorice, Consigliere Provincia di Pescara

Di Redazione Notizie D'Abruzzo

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