di Francesco Piccinino Camboni
L’Italia è Repubblica
Era il 2 giugno 1946 quando gli italiani, reduci da una guerra e da una dittatura, furono chiamati al Referendum per scegliere tra monarchia e repubblica. Lo fecero con dignità, con speranza e con un forte senso di responsabilità. Da quella scelta è nata la Repubblica Italiana, fondata sul principio che la sovranità appartiene al popolo. Un popolo che, per essere davvero sovrano, deve partecipare. Ma cosa resta oggi di quello spirito? Cosa resta di quella fiducia negli strumenti democratici? La partecipazione è ancora sentita come un dovere civile o si è trasformata in un gesto opzionale? Non basta più celebrare il 2 giugno tra bandiere e parate, ma serve guardare oltre. Se nel 1946 milioni di cittadini fecero la fila per scegliere il futuro dell’Italia, oggi troppe volte le urne restano desolatamente vuote.
Diritto o dovere: cosa fanno gli altri Paesi
Un breve viaggio tra i sistemi elettorali di altri Paesi può aiutarci a rimettere in prospettiva il nostro rapporto con il voto. In Australia, ad esempio, recarsi al seggio è obbligatorio dal 1924: chi non lo fa, viene multato per 20 dollari australiani. In Belgio, le multe sono più alte e progressive: si parte da 40 euro per la prima infrazione fino a 200 euro per le successive. In casi di reiterata astensione, si può arrivare persino a perdere il diritto di voto. In Argentina, il voto è obbligatorio dai 18 ai 70 anni: chi non paga la sanzione prevista (fino a 500 pesos), si vede preclusa la possibilità di partecipare a concorsi pubblici, ottenere benefici statali o perfino il rilascio dei documenti d’identità.
La questione non si limita solo all’obbligo. Ci sono Paesi che hanno puntato sull’accessibilità. L’Estonia, ad esempio, permette il voto online (i-voting) dal 2005. Chiunque può votare da casa, in pochi clic, senza code né burocrazie. Anche in Svizzera e Finlandia, la partecipazione assume un volto diverso, nei referendum non è previsto alcun quorum: conta la volontà di chi vota, punto. Un principio tanto semplice quanto rivoluzionario, se confrontato con il sistema italiano.
Quanti votano davvero? Verso una democrazia dimezzata
Alle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, l’affluenza complessiva è stata del 50,74%*. Praticamente la metà della popolazione non ha votato. Un dato che non può essere letto solo in termini numerici: quella metà silenziosa ha lasciato agli altri la scelta su temi cruciali che toccheranno la vita di tutti. Ma è legittimo che la direzione di un’intera società venga definita da una minoranza attiva, mentre la maggioranza resta alla finestra?
Questa domanda ci pone di fronte ad un problema di rappresentanza. Se vota solo metà del corpo elettorale, quel Parlamento (europeo, nazionale o locale che sia) rappresenta davvero il popolo nella sua interezza? O finisce per rappresentare solo una fetta, per quanto legittimata dal regolamento? La democrazia vive di consenso, ma anche di partecipazione. Quando questa viene meno, si apre una zona grigia in cui il sistema resta formalmente valido, ma perde spessore e sopratutto, diventa fragile.
Nel caso dei referendum, il meccanismo del quorum rischia di rovesciare il principio democratico: basta che metà più uno resti a casa per annullare l’esito, anche se chi ha votato si è espresso con chiarezza. È davvero giusto che l’inerzia di molti possa annullare la volontà di chi ha scelto di partecipare?
La crisi di fiducia nella politica è un alibi?
Viviamo nell’epoca dell’informazione continua, eppure ci informiamo sempre meno. Abbiamo accesso a ogni tipo di contenuto, ma sembriamo anestetizzati dalla quantità. Votare dovrebbe essere il momento in cui la consapevolezza si trasforma in azione, invece oggi, il voto è percepito come un peso, una perdita di tempo, o peggio: come un’illusione.
È facile giustificare l’astensione con la delusione verso la classe politica. Eppure, se la politica non ci rappresenta più, è proprio allora che bisognerebbe fare sentire la propria voce. Non votare, in questo senso, è un gesto che non cambia nulla.
Siamo ancora in grado di dare valore a un pezzo di carta che, infilato in un’urna, decide leggi, diritti, rappresentanze? O ci siamo abituati a un sistema dove votano sempre meno, e comandano sempre gli stessi? Forse, alla base, c’è anche un’errata concezione del voto: come se fosse un favore concesso ai candidati, anziché un potere che esercitiamo per noi stessi.
Ripartire dall’educazione
La democrazia non muore solo con un colpo di Stato, ma può anche spegnersi lentamente, quando le persone smettono di credere che il loro voto conti.
Per invertire la rotta non bastano riforme tecniche ma serve un lavoro culturale. Serve tornare a spiegare, a scuola e fuori, cosa significa votare. Come funzionano le istituzioni. Qual è il valore di un referendum. Quali diritti e doveri comporta la cittadinanza.
Il 2 giugno 1946, milioni di italiani lo capirono. Lo fecero senza sapere se davvero il loro voto avrebbe cambiato le cose, ma votarono lo stesso.
Oggi è il caso di ricordare, che nel nostro ordinamento costituzionale, la sovranità appartiene al popolo: e ogni volta che votiamo, non facciamo altro che esercitare quel potere. Siamo noi i sovrani, e il voto è lo strumento con cui rendiamo concreta la nostra voce nella storia.
*Fonte: sito ufficiale Parlamento Europeo https://results.elections.europa.eu/it/affluenza/