Su “Arte e Arte”. Una noterella sociologica

 

Non dirò intorno allo stile, alle tecniche, ai materiali e ai linguaggi con cui Gelsomina Rasetta ha allestito questo suo progetto “Arte e Arte”: non ne ho la competenza. Dirò invece perché questa mostra, che riflette (e invita a riflettere) sulla realtà e sulla storia delle donne (inclusa la loro fase serotina), si offre anche ad un commento in chiave sociologica. Il motivo, ovviamente, non poggia sul tema proposto su cui ricca e plurale è la letteratura sociologica, ma sul suo allestimento che dà spazio a stoffe, trine, merletti, bauli, insomma a segni d’altri tempi. Sono questi oggetti che, chiamando in causa la “memoria”, offrono l’occasione per alcune considerazioni sul cambiamento della vita quotidiana e del mondo sociale nella società planetaria e, nel contempo, giustificano l’intrusione di una nota come questa in una proposta di tutt’altro segno.

Fatta tale debita premessa, preciso subito che in questa esplorazione del e sul quotidiano femminile la memoria si fa strumento per accostare il ruolo generativo del tempo: ossia quell’aspetto della temporalità che consente di riconoscersi in ceppi di pensieri, mappe valoriali, emozioni, storie; avvicinare quei luoghi dell’io senza i quali non c’è storia, non c’è coscienza, non c’è emozione; e, non da ultimo, risvegliare sentimenti di pietas per persone, oggetti, eventi che (pur se indistinti e ininfluenti) rappresentano, comunque, uno spazio da proteggere se non si vuole smarrire la percezione di essere parte di un tutto.

L’esito di tale operazione non è, ovviamente, quello di celebrare e meno che meno di solennizzare il passato che non pochi errori ha collezionato soprattutto nell’universo femminile, quanto allertare sugli effetti che seguono (o possono seguire) all’impoverimento della dimensione mnestica, senza la quale si rischia o di avvitarsi in se stessi chiudendosi al rapporto con la temporalità, oppure navigare a vista nel mare della complessità sociale e, così, replicare errori e guasti del passato. Non per caso, infatti, se produce inquietudine il comportamento di chi si muove all’interno dei propri tic e delle proprie abitudini nella ripetizione passiva di schemi comportamentali tramandati (la logica tolemaica è l’antitesi dello sviluppo e di qualsivoglia espressione di crescita personale, sociale e civile), altrettanto inquietante è il comportamento di chi fa sua la logica della neofilia: ossia la ricerca del sempre nuovo e diverso che fa annegare in un indistinto, infecondo Io sociale, incapace di misurarsi con l’imprevedibilità della storia e del mondo screziato dell’oggi. Dalla supponente ignoranza dei primi e dalla sconclusionata arroganza dei secondi bisogna, dunque, imparare a guardarsi: gli uni perché si chiudono al divenire della storia, gli altri perché rischiano di compromettere lo stesso significato dell’impresa sociale, strattonandola con segnaletiche e sensi di marcia numerosi quanto plurali; ed entrambi perché ignorano che solo l’equilibrio e la misura possono garantire rapporti e intese comuni, condivise, propositive.

Nel contesto di questa mostra si dà, quindi, rilievo al linguaggio costruttivo del tempo, alla sua versione positiva, “in apertura”, che aggiunge e ordina, allaccia il prima al dopo, l’antecedente al successivo. Tuttavia, queste forme del pensare insieme e in continuità utili a sorreggere nella definizione di sé e nella tutela della stessa società, che rischia di collassare come progetto e come idea se si paralizza nel presente e nell’identico e non ri-pensa e non ri-guarda i luoghi da cui proviene, non sembrano godere di particolare udienza negli scenari contemporanei. In questi, ad essere praticato è, piuttosto, il presente assoluto, disincantato, scarnificato: l’adessità (come si dice con uno sgraziato neologismo) che espunge dal proprio orizzonte ciò che attiene al passato, orienta in direzione di sistematici, costanti, rinnovabili percorsi comportamentali, disegna panorami sociali del tutto inediti. Di qui le tante espressioni di antropocentrismo disinvolto, arrogante, vorace, irriflessivo, semplificatore che affollano il nostro quotidiano e abituano all’indifferenza, all’incuria, al disimpegno, alla spregiudicata cancellazione dell’eredità del passato. Insomma, nel linguaggio e nella pratica comuni, la memoria, quale serbatoio da cui attingere per interpretare, gestire, correggere la realtà sta perdendo progressivamente uso e funzione.

È da tale assetto sociale e culturale che prendono linfa le ideologie precarie costantemente sostituibili; i modelli di socialità provvisori, superficiali, mercantili che inducono a fluttuare disinvoltamente nell’astrazione del dovunque e in nessun luogo; i profili sociali impazienti, frettolosi, invariabilmente infastiditi da ciò che allude a stabilità e radicamento. In tale clima la produzione e la ri-produzione sociale -quali tappe di apprendimento di un patrimonio culturale stabile, cumulativo, sovra-individuale- vengono sospinte ineluttabilmente in spazi sempre più ridotti e sempre meno frequentati.

Una maniera per uscire dall’imbroglio di questo preoccupante scenario sociale potrebbe essere quello di riscoprire il significato di parole traballanti e desuete, quali quelle che esplicitamente richiama o a cui implicitamente allude la ricerca artistica di Gelsomina Rasetta. Mi riferisco qui a parole come etica, rispetto, attenzione, cura, solidarietà. Parole che lungi dall’essere un’astrazione sono, invece, la chiave d’accesso per produrre incontri nel segno della disponibilità, del dialogo, della partecipazione. Parole che suggeriscono la inderogabilità di costruire assetti sociali più equanimi, virtuosi, rispettosi. Parole, perciò, che rinviano all’esercizio della responsabilità, ma qualificata dall’aggettivo “morale”. Ovvero quel tipo di responsabilità che fa leva sull’impegno etico dei soggetti piuttosto che su un sistema di regole vincolanti che pretendono di garantire universalmente la spiegazione e la valutazione delle scelte.

Potrebbe essere questa una maniera sia per contestare l’impianto di una realtà sociale che dà udienza all’analfabetismo etico, all’autismo sociale, a rapporti tra persone assenti; sia per contrastare le scelte standardizzate e le logiche classificatorie che tendono a murare singoli e gruppi in categorie unilaterali, intrappolando gli uni e gli altri nei binari dei pregiudizi, degli stereotipi, delle ovvietà culturali. O meglio: potrebbe essere questo un modo per educarsi all’uso di gesti generatori di socialità (soprattutto lì dove non ne esiste traccia); a non abbassare lo sguardo di fronte alle cause che provocano le disuguaglianze, le ingiustizie, le sofferenze indebite; a promuovere l’autonomia del giudizio sempre più ingabbiata nelle quinte dell’apparenza, nei travestimenti, nelle regole della messinscena.

Sono questi i temi –mondani, espliciti, lineari- che a mio parere suggerisce questo progetto di Gelsomina Rasetta, da cui la sua tesi (che spero di non aver travisato): segnalare, per rammendarli, i vistosi strappi che la nostra società mostra nella dimensione della sensibilità collettiva, nella pratica sociale, nel vivere civile. Fra questi il disimpegno verso lo spazio della memoria (che occupa una posizione non ancillare in tale quadro) richiede accurati interventi di riparazione perché, per dirla con Franco Cassano, «un essere senza memoria, senza ferite e senza nostalgia somiglia poco ad un uomo» (Modernizzare stanca, il Mulino, Bologna, 2001). p.79 ).

 

(Eide Spedicato Iengo)

 

 

Di Redazione Notizie D'Abruzzo

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