di Alessandro D’Ascanio*
La vicenda del tentativo di “contenimento faunistico” dei 469 cervi posto in atto dall’Assessore regionale abruzzese all’Agricoltura ha innescato, con immancabile puntualità, il più trito cliché del conflitto ambientale: agricoltori frustrati dagli innegabili danni causati dagli animali selvatici ai campi, convinti sostenitori del cosiddetto “prelievo”, contro i custodi organizzati dell’ortodossia ambientalista denuncianti il barbaro sacrificio … i primi sostenuti dalle brigate locali dei cacciatori rivendicanti quote di “ciccia” e da una media opinione pubblica fatta soprattutto di automobilisti atterriti dagli “attraversamenti”, i secondi sostenuti da un circuito mediatico più generale animato da testimonial sospinti dal candido e angelicato proposito della difesa pregiudiziale del “creato” (cattolici “francescani) o della “dea natura” (ambientalisti di varia ispirazione ex beat contestatrice).
Il tutto corredato da strampalate idee di istituzione fulminea di nuove aree faunistiche nelle quali “detenere” quote dei cervi “condannati a morte”, in una riedizione tardiva e semplicistica di modelli vetusti e sorpassati di conservazione della fauna, senza tenere nella debita considerazione aspetti di natura amministrativa, gestionale, etologica e veterinaria e, soprattutto, senza interpellare preventivamente uomini e donne impegnati da decenni nella intelligente conduzione dei servizi veterinari delle aree protette.
Ora, a prescindere dal caso specifico di cronaca e dai suoi prossimi scioglimenti, a partire dal groviglio consueto di contrasti ingenerato dallo stesso, potremmo forse articolare alcune sintetiche riflessioni sul profilo ideologico del dibattito corrente sull’ambiente nella nostra regione, e magari non solo in essa.
Un dibattito fondato su una stanca, e altamente retorica, contrapposizione di estremi ideologici che si riverbera poi sulla qualità delle proposte formulate in materia e sulle politiche pubbliche perseguite, in un circolo vizioso che né protegge, né valorizza l’ambiente.
La cultura politica ambientalista prevalente è ancora caratterizzata da una concezione massimalista e astratta della difesa della natura; da miti, riti e prassi che privilegiano la denuncia rispetto alla proposta, il contrasto e non l’interlocuzione serrata, l’arroccamento conservatore e non la critica dialettica delle compatibilità da perseguire. Sotto tale lente deformata, la difesa “eroica” di un filare sghembo e dannoso di alberi in contesto urbano viene equiparata alla lotta per la salvezza dei mari; in un mescolamento di temi alti e nobili, di giuste battaglie e fanatiche impuntature che mettono all’angolo il buon senso, il senso stesso della misura, il realismo del governo possibile.
Viceversa, l’agire politico prevalente nella destra, anche di governo, tende alla provocazione anti-green per partito preso, all’esibizione muscolare a vantaggio della pletora di tutte le corporazioni annidate nella società, strizzando l’occhio alla brama di licenza di chi vede nello stato il nemico del “primato degli affari propri” in campo ambientale e non solo.
In questo scenario agonale, e autoreferenziale, si staglia l’assenza di un pensiero ambientalista maturo connotato a sinistra, capace di elaborare una visione critica, razionale e riformatrice del rapporto tra uomo e contesto naturale in grado, per tornare al tema iniziale, di sussumere la vicenda del “contenimento faunistico” dei cervi nel quadro dei mutamenti ecologici in atto e nella geografia territoriale della Regione delineando, nella misura del possibile, alternative all’abbattimento che non siano micro-zoo ingestibili, puntando su soluzioni di riduzione del danno agricolo progressive, in un arco temporale medio, senza demonizzare, quale extrema ratio, finanche forme non esibite di riduzione del numero dei capi, ma quale misura residuale, se non eccezionale.
Del resto, ad un’analisi appena più profonda e generale, i movimenti ambientalisti europei, sotto il profilo ideologico e in misura maggiore nella loro fase di “stato nascente”, non di rado si sono caratterizzati per una sorta di singolare miscuglio di posizioni conservatrici e radicali con la conseguenza, sul piano del reclutamento e della militanza attiva, di una mera giustapposizione di “delusi del marxismo e nostalgici del ruralismo di destra” foriera di un’azione collettiva segnata non solo da ambiguità di spinte e moventi, ma anche piuttosto rapsodica nell’individuazione di obiettivi concreti da perseguire nell’ambito dei rispettivi sistemi politici nazionali, ma anche regionali.
L’interpretazione per lungo tempo prevalente intorno alla loro origine è stata tuttavia quella che ne ha collocato la nascita nell’ambito del generale rivolgimento della società occidentale degli anni sessanta/settanta alimentato dalla protesta antiautoritaria, in primo luogo giovanile e studentesca, vista come ondata “post-materialista nella società post-industriale” caratterizzata, oltre che dalla rivendicazione di un ambiente di vita sano, da antimilitarismo, rispetto delle minoranze, diritti dell’uomo, lotta al razzismo ed emancipazione delle donne.
In estrema sintesi, a seguito all’avvenuta soddisfazione, su larga scala, dei prioritari bisogni materiali conseguenti al benessere diffuso nella società industriale del secondo dopoguerra, si sarebbe attivata nei segmenti sociali giovanili dei paesi occidentali, una “rivoluzione silenziosa” che si prefiggeva obiettivi non immediatamente riconducibili alle storiche rivendicazioni del movimento operaio: autorealizzazione individuale, difesa dell’ambiente inteso quale condizione necessaria per il benessere della persona, soddisfazione di esigenze umane non strettamente materiali associate a stili di vita non convenzionali di natura tendenzialmente libertaria portando a compimento quella profonda trasformazione sociale definita da Alessandro Pizzorno come “mobilitazione individualistica dell’Europa”.
Secondo Roland Inglehart, uno dei maggiori studiosi di tale fenomeno politico, nelle società contemporanee esisterebbe pertanto una naturale gerarchia di bisogni in base alla quale le esigenze di ordine più elevato sarebbero concepibili, da parte degli individui, solo a seguito dell’avvenuta soddisfazione di quelle di livello fondamentale quali la sopravvivenza fisica (reddito vitale, abitazione, alimentazione di base) per cui, seguendo una logica di utilità marginale decrescente, i guadagni economici diverrebbero relativamente meno importanti, in particolare per quei segmenti di società che non abbiano mai sperimentato serie privazioni economiche.
La tematica ambientalista emergerebbe come risultante della politicizzazione di una nuova frattura prodottasi nel contesto occidentale tra materialismo e post-materialismo, alimentata da ceti ascesi in virtù delle trasformazioni economiche della società industriale, a seguito del progressivo declino della classe operaia, della crescita dei servizi e del terziario, delle innovazioni tecnologiche, dei processi di globalizzazione e, dunque, interessati al soddisfacimento di nuove esigenze, rivendicate peraltro mediante forme organizzative e un agire politico assai lontani dalla prassi dei partiti di massa novecenteschi. Gli anni sessanta, in misura particolare, si configurerebbero come momento storico di radicale mutamento del modo di concepire la società e la politica, con un conferimento di valore nei confronti dell’ambiente del tutto inedito e rilevante.
Tale interpretazione post-materialista dell’origine dell’ambientalismo politico è stata radicalmente contestata da Joan Martinez Alier che ha trovato del tutto infondato il presunto processo di smaterializzazione delle società opulente, semmai sempre più caratterizzate, a suo dire, dall’insorgenza di veri e propri “conflitti di distribuzione ecologica” a partire dal presupposto che la natura non debba essere considerata come mera cornice esteriore di uno stile di vita, ma come necessario spazio del lavoro e dell’esistenza quotidiana, il cui tasso di salubrità sarebbe da porre in stretta relazione con le primarie esigenze dell’uomo. Lungi dal rappresentare un appannaggio esclusivo di gruppi sociali soddisfatti, la difesa dell’ambiente avrebbe coinvolto in realtà, nel corso della seconda metà del Novecento, segmenti della società del tutto subalterni con il risultato dell’animazione di un “ambientalismo dei poveri” e di un “ambientalismo operaio” capaci di sussumere il diritto ad un sano ambiente di vita nell’ambito della più complessiva strategia rivendicativa del movimento operaio
Alla base dell’interpretazione di Alier si pone una rielaborazione della nota teoria di Stein Rokkan sulla formazione dei sistemi di partito europei fondata sulle fratture sociali messa in atto ponendo attenzione sulle contraddizioni fra sviluppo dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, più in generale della logica del mercato, da una parte e tutela dell’ambiente dall’altra. Più precisamente, la vecchia frattura città/campagna, originata dalla rivoluzione industriale, assume la forma dell’opposizione piuttosto secca fra natura e mercato, pur in quadro di difficile definizione dei gruppi sociali protagonisti di tale conflitto e dei relativi soggetti politici in grado di strutturarsi sulla base del contrasto sorto.
Ora, sulla base di tale sommaria ricostruzione dell’origine delle posizioni green, sarebbe importante l’emergere di una posizione di ambientalismo cosciente della realtà economica dell’Abruzzo, dei suoi equilibri ecologici, della dialettica tra natura e mondo umano caratterizzante le sue aree protette, delle sue contraddizioni sociali per superare l’artificiosa disputa tra la difesa di Bamby e l’esaltazione di Terminator.
* Sindaco di Roccamorice (Pe)