di Alessandro D’Ascanio*
Archiviate le elezioni regionali del 10 marzo, forse anche in virtù dell’esito proprio dell’area urbana di Pescara – che ha visto il ripristino di condizioni di contendibilità del primato tra i due schieramenti – l’attenzione dell’opinione pubblica cittadina si volge repentinamente verso le elezioni amministrative dell’8-9 giugno, in occasione delle quali il capoluogo adriatico sceglierà il suo nuovo Sindaco.
Naturalmente, il tenore del dibattito pubblico è dato dall’incredibile e strenuo tentativo del Sindaco uscente di porre in atto una sorta di resipiscenza attiva rispetto ad alcune incredibili scelte che parrebbero aver compromesso il rapporto di consenso con parti considerevoli dell’elettorato, in una dinamica di tattica elettorale non infrequente nelle competizioni amministrative, per quanto piuttosto paradossale in questo specifico caso, con venature quasi comiche oserei dire.
Ma che ne è del dibattito sulla Nuova Pescara in queste fasi di esordio della campagna elettorale? La prospettiva della nascita della città nuova pare essersi eclissata dietro lo scaldarsi delle polemiche legate ai temi contingenti più sentiti dall’elettorato.
Ad una disamina più attenta, del resto, tutta la discussione sul tema animatasi negli ultimi anni pare aver assunto una dimensione piuttosto asfittica e corporativa, monca e imperniata su tre assi veramente incapaci di suscitare l’interesse dei cittadini:
1. gli aspetti procedurali del processo di fusione, con il trionfo travettistico degli aspetti giuridico-formali certo necessari, ma variamente condizionati da micro-rivendicazioni del ceto politico (i gettoni per le sedute di commissione !?!), dalla costruzione farraginosa e ipocrita di uffici comuni ideati per perpetuare a livello dirigenziale pratiche dilatorie e ostruzionistiche non più degne di pubblica espressione, dalla lotta tardo campanilistica per la conformazione del sistema dei Municipi, concepiti dai refrattari come enclave resistenziali di un micro-potere percepito come vitale, tutto ciò, naturalmente, al netto del rispetto esteriore delle tappe segnate dalla legge regionale;
2. le schermaglie di fazione politica, con il gioco di società volto ad individuare i favorevoli e i contrari alla città nuova a partire dalla mappa dei partiti, delle correnti, del quartiere di provenienza, con tanto di retroscena su presunte strategie sotterranee volte al sabotaggio del progetto, addirittura giocate come carta vincente propagandistica in occasione della campagna elettorale per le regionali;
3. un vago interrogarsi accademico sui confini della città nuova volto ad individuare il lato mancante, il territorio da aggiungere, la forma ottimale in una ridda di ipotesi geografiche, urbanistiche, territoriali del tutto astratte e fuori tempo massimo.
In ogni caso, un dibattito tutto schiacciato sul presente incapace di collocare il fatto nuovo dell’unificazione su un orizzonte temporale di più profonda ampiezza capace di collegare passato, presente e futuro di una dinamica di storia urbana da leggere, da comprendere, per il tramite di progressive approssimazioni. Al più, una stanca esaltazione delle sorti magnifiche e progressive di una Pescara destinata a crescere, a ingrandirsi in virtù di un suo dinamismo, certo autentico e importante per il destino dell’intero Abruzzo, ma non necessariamente inscritto nel suo destino.
Nessuna riflessione politica sulle tare genetiche dell’identità pescarese, messe in evidenza dai lavori storiografici di Raffele Colapietra, Enzo Fimiani e Luigi Ponziani:
1. la pseudo modernizzazione fascista degli anni successivi alla fondazione, con la miscelazione imposta dall’alto dei miti della velocità, della motorizzazione e del nuovismo forzosamente coniugati con il permanere di tradizioni culturali e di assetti sociali tradizionali, in un contesto politico di mancata partecipazione popolare alle scelte di fondo della comunità destinato a segnare il futuro della medesima;
2. l’accentuazione retorica dell’architettura celebrativa mussoliniana presentata quale marchio di distinzione di regime e l’imposizione di un’inconsistente e sostanzialmente inventata identità dannunziana riesumata dalla destra nuova (vecchia) maniera;
3. il ruolo preponderante del mercato e della speculazione privata nel disegno dell’ordito urbano con la compromissione, nelle varie fasi della sua storia, dell’ipotesi di costruzione di una città dei servizi e della compatibilità ambientale;
4. i limiti del suo modello produttivo, tutto centrato su commerci e servizi;
5. le difficoltà di rapporto con i territori della sua provincia, costruita dal regime fascista in connessione la nascita della città, con un ritaglio territoriale più motivato da ragioni di opportunità politica contingente che da un disegno organico di costruzione di un’entità amministrativa.
E dunque, la lunga campagna elettorale che va aprendosi in questi giorni non potrebbe forse rappresentare l’occasione per una più compiuta riflessione sul futuro di Pescara alla luce del suo passato? Alla luce delle questioni di fondo che hanno caratterizzato la sua storia? Una riflessione capace di mettere a nudo tali questioni partendo dall’assunto per il quale la città altro non è se non una sineddoche della società, la sua proiezione sul territorio e che la dimensione spaziale evidenzia i poteri dominanti nella stessa.
In altre parole, il dibattito sulla nascita della Nuova Pescara acquisterà senso e interesse solo se saprà declinare le forme di un rinnovato potere pubblico democratico sui destini della forma urbana della sua società in grado di garantire a individui, gruppi e classi subalterne il godimento di quel “diritto alla città” (Henri Lefebvre) non riducibile alla garanzia dei servizi, ma da inverare nel quadro di una rinnovata partecipazione politica diffusa.