… est alia ecclesia sancti Christiani vocabulo in Palena: San Cristanziano e Palena, secc. XI – XIV.

di Antonio Alfredo Varrasso*

È, questo di Palena, il mio terzo appuntamento con Cristanziano. Parlai di Lui lo scorso 10 ottobre 2020, in Maltignano, alle porte di Ascoli Piceno, ove è il patrono cittadino. Il 12 maggio di quest’anno fui in Agnone, altra ‘capitale’ del suo culto, dove pure è il patrono, alla vigilia della sua festa, che cade il 13 maggio; data in cui era pure celebrato in Ascoli Piceno, luogo dal quale ha preso avvio la mia riflessione storiografica, qualche anno fa.

Il titolo che mi è sembrato appropriato al nostro incontro odierno si compone di due parti e cerca di spiegare, introduttivamente, la fase palenese della sua storia.

La prima parte concerne una espressione che denuncia l’esistenza, a Palena, di una chiesa dedicata a san Cristanziano; espressione tratta dal testo di un documento, il più antico fin qui reperito circa il culto del santo e datato 17 maggio 1085, nel ‘comitato teatino’. Il testo integrale è in Appendice al presente. La seconda parte del titolo annuncia il problema del rapporto, nel tempo, che si è instaurato tra la figura del santo, la sua chiesa e l’insediamento storico e demico di Palena, almeno sino al Trecento inoltrato, anche se è ragionevole pensare che esso si perpetuò ancora oltre.

Nell’area della ‘villa’ di san Cristanziano, infatti, dal 1537, sorse un convento francescano osservante, dedicato a sant’Antonio di Padova. Questa nuova istituzione religiosa e culturale avrà in qualche modo fatta propria una più puntuale cultura del territorio. Resta da verificare, allora, fin quanto e come si perpetua la storia, o il ricordo di san Cristanziano nella vita stessa della comunità francescana. Ma, in questo senso, è tutta la struttura insediativa di Palena, dal sec. XI in poi, ad essere chiamata in causa, evidenziando opportunamente il peso di una eredità antica e tardo antica per nulla trascurabile. E’ l’intero comprensorio aventinese – alto sangrino che va valorizzato.

Se a Palena abbiamo la più antica menzione del santo fin qui accertata, egli è presente anche, come sembra, ad Archiano, antico feudo atessano, presso Tornareccio (Chieti), quale dipendenza del monastero cistercense di san Vito al Trigno. Lo troviamo ancora a Roccascalegna (Chieti) , tra i beni del minore monastero di san Pancrazio, dalle origini farfensi e già dipendenza, come sottolinea Cimini, di Santo Stefano in Lucana (Tornareccio) e lo abbiamo ancora a San Martino sulla Marrucina (Chieti), ove è pure il patrono cittadino ancora oggi. Da questo punto di vista è giusto affermare che quello di Cristanziano appare un risvolto storico e agiografico tutto teatino, ossia dell’antico Comitato Teatino.

Ma il nostro paesaggio storico e devozionale si allarga ancora all’alto Molise, principalmente ad Agnone (Isernia), nell’alto Molise, quasi a diretto contatto con l’area sangrina, senza dimenticare il dato storico-politico dell’appartenenza di Agnone, per più secoli, all’Abruzzo Citra. Qui Cristanziano è il ‘patronus civitatis’, recuperato a questo ruolo identitario sicuramente in piena età moderna e sulla base di una effettiva presenza culturale e cultuale, a me sembra, ben più antica e che probabilmente trae le sue motivazioni storiche, come cercherò di mostrare, proprio attraverso un significativo contatto con Palena. Non solo! Possiamo ritenere Palena un punto di irradiazione cultuale, specialmente in età normanna (secc. XI – XII), che proietta Cristanziano in piena area Pennese, tra le possidenze del monastero di San Clemente a Casauria, come ci mostra il contenuto di uno splendido documento, sostanzialmente ancora inedito, del cartulario casauriense, datato al 1171 e, quindi, prodotto a circa un secolo di distanza dalla più antica menzione della chiesa palenese che ho ricordato. Anche il testo integrale di questo documento è in Appendice al presente.

 

Il problema agiografico di Cristanziano in Ascoli Piceno

Un santo a nome Cristanziano risulta essere venerato, come accennavo, in Ascoli Piceno . E’ ancora presto, a mio avviso, per sostenere che si tratti del Cristanziano che rinveniamo a Palena, anche se non sono pochi gli aspetti della vicenda, soprattutto della fase basso medievale e moderna della storia del culto, che operano per una siffatta identificazione.

A metà Settecento nella Città picena l’erudito ecclesiastico ascolano, Francesco Antonio Marcucci (1717-1798) si dedicò a ricostruire la storia di quel Cristanziano e, appositamente richiesto, ne scrisse all’allora vescovo di Trivento, Giuseppe Pitocco ( dal 1756 al 1771). Il testo, sostanzialmente inedito, di questo componimento lo do trascritto in Appendice al presente. Le notizie ascolane del santo, allo stato attuale degli studi, non sono più antiche della seconda metà del sec. XIV, quando il suo nome compare nella redazione latina degli Statuti cittadini (a. 1377), rinvenuta in un manoscritto cinquecentesco; che costituiscono una replica ed un approfondimento di quelli duecenteschi, andati perduti.

In quelli trecenteschi si ha che la festa del 13 maggio, dedicata a Cristanziano e celebrata, particolarmente, nella chiesa cittadina di san Vittore, era di particolare rilevanza, soprattutto per il concorso civile, tanto da coinvolgere l’intero corpo municipale cittadino – il Magistrato – Perciò, non a caso, Cola dell’Amatrice (1480-1547), nel 1514, realizzò una splendida raffigurazione, detta ‘Tavola di San Vittore’, in cui, tra altri santi ed in posizione direi eminente, compare san Cristanziano in un esplicito atteggiamento intercessorio a favore della Città verso la Madonna, che troneggia al centro della raffigurazione. Questa pregevolissima opera d’arte si può ammirare oggi presso la Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno.

Ma, senza voler entrare adesso nella pur complessa problematica ascolana e pure nel problema delle fonti a cui ricorse lo stesso Cola dell’Amatrice, è a dire che Cristanziano è ritenuto essere stato uno dei cinque discepoli coadiutori del proto vescovo ascolano Emidio, assieme a Euplo, Germano, Valentino e Benedetto, complessivamente considerati.

I primi tre vengono, diciamo così, accertati negli antichi atti emidiani dei secc. XI e XIV, mentre Cristanziano e Benedetto costituiscono, se posso dire, delle addizioni, non diremmo posteriori, ma quantomeno collaterali alla tradizione dei primi tre ‘soci’ di Emidio. Altre qualifiche fondamentali di Cristanziano, stando al racconto ascolano così traditoci, sono quelle di un diacono martire, vissuto ai primi del secolo IV e che ha seguito la sorte, anch’essa martiriale, del suo più illustre Pastore.

Su un dato, però, in particolare, il predetto Marcucci ha insistito e cioè sul fatto che Egli era ascolano, cittadino e di stirpe nobile! Il racconto elaborato in Ascoli Piceno rappresenta, a questo punto, un collegamento cultuale tra l’area marchigiana meridionale e, attraverso Agnone, quella alto molisana.

 

Infatti, qui il culto di Cristanziano si sarebbe attivato, come nel caso di quello verso Emidio (al quale, forse già a fine secolo XIII si dedicò una chiesa cittadina importante), a seguito di intensi rapporti commerciali tra le due Città; si sarebbe perciò introdotto per via adottiva, potremmo dire.

Vale, perciò, rilevare che, proprio a metà Settecento, Ascoli Piceno, in forza di queste riscoperte ‘salvifiche’ e di antichi legami, che sono tutte settecentesche, prendeva atto del fatto che il patronato cittadino di Cristanziano in Agnone effettivamente concorreva a rafforzarne l’identità ascolana! A fine secolo, infatti, il Clero secolare e regolare di Ascoli Piceno adiva la Sacra Congregazione dei Riti al fine del riconoscimento dell’Ufficio liturgico di Cristanziano e Benetto!

Lo stesso Marcucci aveva operato in questa direzione, intervenendo personalmente nella stessa Maltignano, alle porte della Città e feudo del Capitolo Cattedrale Ascolano, nel giorno della sua festa, nel 1754, polemizzando apertamente con i detrattori del culto, che non dovevano mancare e della sua autenticità storica.

Ora, la ricostruzione ascolana ignora del tutto il dato di Palena del secolo XI ed a ben vedere lo ignora anche Agnone! Per chiudere su questo necessario passaggio nella problematica ascolana, dico che essa evidenzia fortemente, tra le altre cose, un più che precario assetto delle fonti a cui si riferisce il Marcucci nella sua ricostruzione.

Tra queste spicca il molto citato scrittore, di cui però conosciamo ben poco, vale a dire tale Lino Diacono, che avrebbe ridotta in epitome una Storia della Chiesa ascolana, opera del vescovo locale, Trasmondo, vissuto nella seconda metà del sec. XII. Ma né la Storia di Trasmondo, né la sua epitome ci sono pervenute! Allo stato si tratta, perciò, di dati non verificabili.

Lo stesso pronunciamento sulla storia del nome Cristanziano, che il Marcucci comunica al vescovo di Trivento, è piuttosto l’effetto di un abbandono paraetimologico di breve momento. Per lo scrittore ascolano, infatti, quello di Cristanziano è il nome che gli si era conferito all’atto del battesimo cristiano; a Lui esimio esponente di una famiglia dei gentili, della nobile prosapia dei Bassi.

E ciò quasi a volerlo contraddistinguere, nel vasto novero dei neofiti cristiani cittadini – ricorre anche qui una sorta di mito fondativo – quale il più antico di tutti, nel senso del primo tra di essi cittadini ad aver abbracciato la fede cattolica. Non un’anzianità anagrafica, quindi, ma religiosa e culturale!

Il problema onomastico

Il problema della storia del nome del santo, però, sappiamo che, per altre vie, si pone ben diversamente. Ricordo solo che nello Statuto quattrocentesco del castello di Portella, nel contado ascolano; documento ancora inedito, si ha l’elenco delle festività da osservarsi scrupolosamente dagli abitanti e tra quelle v’è il ‘die sancti Cristantiani’ ; segno di una relativamente recente formazione del nome. Che ritroviamo nel Martirologio Geronimiano, sia pure in forme leggermente diverse.

 

Qui, infatti, in questa così complessa compilazione, che recepisce fonti più antiche, le quali potremmo far risalire al sec. IV, si distinguono almeno tre forme del nome Cristanziano: CRISSANTIANI; CRISENTIANI; CRISANTIANI (quest’ultimo nel codice wissemburgense del medesimo Geronimiano, databile al sec. VIII).

Nel documento che concerne Palena (sec. XI) Egli è detto CHRISTIANI e, ancora nel 1251, sempre a Palena, come dirò meglio, abbiamo SANCTI CRISTANTIANI ed un insediamento, una villa, o casale, con lo stesso nome.

Per non dire, poi, delle decime ecclesiastiche teatine e valvensi. Nel 1323 tra le chiese palenesi censite vi è quella SANCTI CRISCINTIANI e, alla stessa data, in Archiano, abbiamo la chiesa SANCTI CHRISTINTIANI.

Quasi analogo il caso di Roccascalegna, come accennavo, dove esiste la chiesa SANCTI CRISCENTIANI e, da ultimo, il dato di San Martino sulla Marruccina, in cui è situata la chiesa SANCTI CRISCINTIANI.

Il documento casauriense del 1171 parla esplicitamente di ‘tenementum’, in senso di territorio, con il nome del santo, nonché di una chiesa SANCTI CRISTINTIANI.

Ora, benché Hippolyte Delehaye abbia opportunamente rilevato che il nome di Cristanziano nel Geronimiano nacque per difettosa, anzi errata lettura di quello di Crisogono di Aquileia, vale a dire per sdoppiamento del nome stesso, introducendo una nuova e fittizia figura agiografica, è un fatto che attorno a quel nome si sia sviluppato un culto, le cui radici vorremmo con più sicurezza riconnettere proprio alla diffusione dei martirologi e, nel caso, attraverso un veicolo fondamentale, cioè quello del mondo monastico altomedievale.

In questo senso pensiamo ulteriormente ad un altro luogo importante, ben distante dalle aree di cui ci occupiamo e cioè la diocesi di Lodi, ove Cristanziano è onorato a Torretta, in un oratorio a lui dedicato nella parrocchia di San Gualtero , stando a documenti del secolo XVI.

Queste non casuali oscillazioni onomastiche hanno poi favorito, per esempio nell’Ughelli, qualche equivoco, laddove in qualche caso il santo è stato identificato persino come ‘Costantino’! Se ne lagnarono gli Ascolani stessi, ad inizio Ottocento, presso la Sacra Congregazione dei Riti, correggendo prontamente l’errore.

Ma pensiamo anche al fatto problematico rappresentato dalla tradizione scrittoria, che ha sommato errori ad errori, nel corso del tempo ed ha reso difficoltosa l’identificazione di un determinato luogo di culto a Lui dedicato.

Il documento borrelliano del 15 maggio 1065.

 

Entriamo, dunque, nel vivo della nostra documentazione. Con un atto di donazione ‘pro anima’, datato nel territorio teatino, il 15 maggio 1065, redatto dal giudice e notaio Conone, Borrello, figlio di Borrello, unitamente a suo figlio, chiamato pure Borrello, dona all’episcopio di ‘san Tommaso Apostolo e di san Giustino confessore’, che si trova nella città di Chieti e per esso al vescovo Attone, i seguenti beni, tutti situati nel territorio teatino: la chiesa-monastero di santa Maria “allo letto”, sita ‘in vocabulo de Domo’ , con tutte le sue dipendenze; il ‘castellum’ “de lo letto” , con tutti i suoi edifici, ivi compresa la sua chiesa castrense e le sue pertinenze, i mulini, entro i confini di 1500 moggi di terra, che vengono descritti.

Dona, inoltre, le chiese di san Pietro e di san Martino di Taranta; la prima con 12 moggi di terra, la seconda con i possedimenti che ricevette dai figli di tale Tedaldo, per 60 moggi di terre e, infine, la chiesa di san Christiano “ vocabulo de Palena” con 400 moggi di terra, ovunque confinati da altre terre che appartengono allo stesso donatore.

Di questo interessante documento non conosciamo l’originale. Esso ci è pervenuto per pubblicazione che ne ha fatto l’Ughelli, nel tomo 6° dell’Italia Sacra, nelle due edizioni della stessa, del 1659 e del 1720. Tra le due edizioni non si trovano differenze di sorta.

La trasmissione del documento e la trasposizione editoriale dello stesso, però, ci pongono qualche problema. Gli atti ancora oggi esistenti nell’archivio storico arcivescovile di Chieti, a suo tempo riordinati e sommariamente regestati, nel 1926 e nel 1929, da mons. Balducci, per ciò che concerne quelli del Capitolo teatino iniziano dall’anno 1027, mentre per quelli attinenti la Curia vescovile hanno inizio dall’anno 1006 e, tuttavia, il nostro documento, manca in ambedue le serie.

Pertinenti al vescovo Attone rimangono conservati due docc. Del 1059 e 1067, cioè la famosa bolla corografica di Niccolò II e una donazione di Attone, figlio del conte teatino, Trasmondo, al vescovo stesso. Come si vedrà, questa omonimia tra donatore e vescovo non è proprio casuale!

L’Ughelli, si badi, riferisce in extenso la bolla papale. Accenna soltanto alla donazione del 1067, mentre ci da in forma integrale, per fortuna, il documento del 1065. Chi, dunque, ha trasmesso questi documenti, anche in copia, ha certamente operata una valutazione degli stessi, a cui l’Ughelli sembra essersi attenuto.

Diversi studiosi, anche recenti, come Enzensberger e Feller, hanno fatto uso di questo documento, ma non sempre considerandolo nella sua interezza e trascurando proprio il dato che a noi interessa, cioè quello della chiesa di san Cristanziano di Palena.

La donazione, intanto, ci espone direttamente la sua significazione giuridica, che è tipica dei tempi. E’ una ‘donazione pia’, cioè una tradizione di beni immobili, di cui si presuppone il possesso, non saprei fino a che punto legittimo, ma sicuramente un possesso di fatto e, al momento, incontrastato; una donazione che si effettua a favore di un ente religioso ed a scopi religiosi, o spirituali, se volete e che ha per contraccambio del donatore un ritorno di notevole valore: la salvezza dell’anima! Chiaro che il donatario riceve i beni donati per un utilizzo certamente materiale, ma sempre a fini spirituali, quali sono quelli che per statuto rappresenta l’episcopio!

 

E la salvezza dell’anima non concerne solo quella del donatore, ma pure del suo entourage familiare, come recita il documento stesso.

Si tratta, in fin dei conti, di una elargizione ‘volontaria’, la quale valorizza fortemente l’intenzione di chi la opera, secondo fini, però, che possono celare ben altri contraccambi e, magari, di tipo politico, familiare e, nel caso, anche dinastico.

Qui, a mio avviso, proprio per le relazioni che intercorrono tra donatore e donatario, siamo di fronte ad una donazione di tal fatta, strumentale cioè e diversamente finalizzata rispetto alle intenzioni conclamate, perché indirizzata ad una conservazione dei beni stessi, così solennemente ceduti, che risultano, evidentemente, precariamente detenuti al momento.

Tutti i beni donati vengono collocati nel comitato teatino, a cui presiede l’autorità del conte dinastico, espressione in questo caso della famiglia importante degli Attonidi, legata a quella dei conti dei Marsi per stretta parentela ed a cui, a bene vedere, appartiene lo stesso vescovo teatino, Attone.

Ma anche lo stesso Borrello è legato, non solo per discendenza, ma per più recenti parentele contratte con loro, ai conti dei Marsi. Lo vedremo meglio.

Il documento, inoltre, recupera in una funzione corografica nell’ambito dello stesso territorio teatino, il toponimo, o quello che è divenuto tale, di “domo” – “in domo”.

Che risulta ancora in uso nel secolo successivo ed oltre. Ciò evoca un antichissimo assetto territoriale, che potremmo rimandare alla colonizzazione di Iuvanum, il centro antico che in età italica e romana costituì il punto direzionale di tutta l’area.

Ancora nel 1141, per esempio, nei documenti di San Salvatore a Majella sentiamo parlare di “Gisso de domo”. Il che prelude alla reiterazione diffusa del toponimo nel più famoso Catalogo dei baroni, nella descrizione dell’assetto feudale normanno di tutta la zona.

Nel nostro caso, però, il problema territoriale, del suo assetto economico e politico ha delle implicazioni non trascurabili di tipo giurisdizionale ecclesiastico, perché, salvo, forse parzialmente, il caso dei beni in territorio “de letto”, che indicherei nell’area dell’attuale Lettopalena, quelle strutture ecclesiastiche donate al vescovo di Chieti ricadono in area diocesana di Valva.

Santa Maria ‘de letto’, già identificata con quella poi detta di Monteplanizio, la cui fondazione comitale teatina risalirebbe al 1020, più avanti nel corso del tempo costituirà, con lo stesso castello di Letto e sua chiesa castrense, un territorio giurisdizionale esente dalle autorità vescovili.

Ma già qui, in questi frangenti si può avvertire una esenzione potenziale in atto. Tuttavia non dovevano mancare aspetti controversi, in quest’area, negli assetti diocesani teatini e valvensi, tanto che talune bolle pontificie, rimesse ai rispettivi vescovati, appaiono per diverso tempo tra lo loro stesse contraddittorie.

 

La chiesa di san Pietro a Taranta è difficile seguirla nella documentazione. Non è presente negli elenchi delle decime papali relative a Taranta. Da un discutibile, ma non per questo meno interessante documento, rinvenuto e pubblicato da mons. Celidionio, databile al 1208, sappiamo che san Martino di Taranta apparteneva a Santa Maria de Lecto, nella diocesi valvense! Ma , potremmo leggere, rivendicata dalla stessa chiesa-monastero.

Ed eccoci a san Cristanziano, “vocabulo in Palena” con i suoi 400 moggi di terra, tutti confinati da altri terreni in possesso dei Borrello.

Vani sono stati fin qui gli sforzi per risalire all’origine della chiesa; per rilevarne l’origine, supponendola, appunto, di tipo monastico. E’ più che verosimile che, al pari di molte altre della zona, la ‘nostra’ chiesa palenese sia sorta per iniziativa laica e privata e come tale, forse, confluita tra i beni di un qualche monastero.

Anche questo genere di fondazioni, cioè della chiesa propria e privata, risentono fortemente nelle loro titolazioni di un orientamento agiografico ispirato dal movimento monastico. In questo senso un punto di riferimento significativo potrebbe essere stato rappresentato dal grande nucleo monastico di San Vincenzo al Volturno, che in Santa Maria de Palena possedeva in zona una dipendenza importante, già documentata nel 994 attraverso una bolla di Martino II: “monasterium sanctae Mariae in Palene, territorio domo”.

Questo nucleo monastico minore, senza confonderlo, a mio avviso, con l’omonimo “de letto”, avrebbe rappresentato il nucleo organizzativo più attivo della colonizzazione monastica, le cui prime notizie risalirebbero al sec. IX. Ma il rapporto con i Volturnensi andrebbe ulteriormente indagato attraverso l’incontro-scontro del monastero stesso con i Borrelli, che lo saccheggiarono e che si appropriarono di molte terre monastiche, tra le altre, proprio lungo il Sangro.

Alla luce della vicenda successiva, sicuramente, la quasi sconosciuta chiesa del secolo XI pare destinata ad una importante affermazione territoriale, tanto da diventare eponima, per esempio, di un comprensorio nelle pertinenze del castrum Palenae, il casale, appunto, san Cristanziano. Il che ci porta, sia pur brevemente, a considerare la complessiva struttura territoriale del castrum. Nonostante il suo indubbio accentramento urbanistico, a seguito dell’incastellamento dei secc. XI-XII, non sembra aver cancellato la pregressa struttura insediativa sparsa e aperta del territorio di riferimento castrense.

La sussistenza stessa di un relativamente articolato sistema parrocchiale e della cura di anime, che coinvolge anche san Cristanziano, a me appare la manifestazione tangibile del particolare sistema insediativo, nutrito di nuclei aperti.

Che in un certo senso emerge dagli stessi eventi più recenti del 1383, quando, non senza vivi contrasti, è lecito pensarlo, si procedette all’erezione di un’unica parrocchia cittadina, attraverso la promozione a Matrice della chiesa di Sant’Antonino, a richiesta del feudatario del tempo, come si disse, il conte Giovanni di Manoppello.

 

Questo radicamento territoriale di san Cristanziano è ben illustrato nel 1251, quando i fratelli Simone e Oderisio, figli di Ruggero, concedettero a titolo di pegno alla ‘domina’ Adriana, figlia di Gualterio di Palena, il casale sancti Cristantiani ,nonché una vicenna in Biczano, detta di Giovanni Grisone e una vigna, come accennai, detta di ‘san Cristanziano’. Non solo! I concedenti danno pure un mulino ‘a capite pontis Palenae’ e una valchiera, che è alle sorgenti dell’Aventino.

Di questo documento ci è pervenuto l’originale, il che ci ha permesso di rivederne il regesto già formulato, ma in modo incompleto ed errato. E lo era nella individuazione dei concedenti stessi (che in realtà nel documento sono concessionari di un prenstito) e nella indicazione di ‘sancti Cristantiani’, dato invece per san Crinziano.

I fratelli che prendono in prestito 50 once d’oro dalla ‘domina’ Adriana, verosimilmente loro parente, sono due e non tre e ambedue figli di Ruggero, come si è detto.

Siamo, con ogni probabilità, a contatto qui con la famiglia cospicua dei “de Palena”, di cui al documento casauriense del 1171, vale a dire coloro che, a mio giudizio, rappresentano gli “imprenditori del culto” di Cristanziano nelle terre pennesi di Casauria nel secolo XII.

***

Tornando, adesso, agli attori del documento del 1065, cominciamo con l’osservare che già l’Enzensberger, non senza la scorta di Cesare Rivera, aveva identificato Borrello, figlio di Borrello, con Borrello II, a sua volta padre di Borrello III, pure menzionato nel documento. Borrello II, quindi, sarebbe figlio di Oderisio “detto Borrello” e di sua moglie Ruta.

Il nostro personaggio gode di diverse menzioni dal 1065, appunto, al 1083. Egli, stando al Rivera, è signore di Agnone e di altre Terre. Sua moglie è Gervisa, figlia di Oderisio, conte dei Marsi e, perciò, sorella dello stesso vescovo Attone di Chieti! Questi, ancora nel 1069, compare come teste in una donazione a San Pietro Avellana, che però interessa direttamente Montecassino, in quanto il monastero avellanita diviene dipendenza di quest’ultimo.

Il vescovo Attone (+ 1071), traslato a Chieti proprio dalla Marsica, è anche fratello del più giovane Trasmondo, abate di Casauria e poi anche vescovo di Valva, rimossovi da Gregorio VII e di Oderisio, che fu abate di Montecassino dopo il grande Desiderio, (1087-1105). Sono tutti figli di Oderisio II dei Marsi e fratelli di Gervisa, moglie di Borrello II, ancora vivente nel 1083. V’è dunque una relazione importante tra i due. Il vescovo Attone e Borrello II sono cognati!

Non meno significativa è poi la relazione tra Borrello II e lo stesso conte teatino in carica nel 1065, Trasmondo, terzo di tal nome secondo la genealogia formulata dal Feller, che fu conte dal 1032 al 1085. Il padre di Trasmondo III è Attone IV (1017-1034), che venne nominato conte teatino per diretto intervento di Enrico II (re dal 1014, morto nel 1024). Questo Trasmondo ebbe almeno due fratelli: Alberico e Attone V. Imprigionato dal padre, quest’ultimo, dopo il 1059, venne quindi assassinato dal fratello Trasmondo, come ci racconta Amato di Montecassino. La vedova di Attone V venne fatta risposare e, di seguito, uccisa con i figli ad opera, appunto, del cognato.  Nel 1056 risulta Trasmondo III conte teatino ed è colui che in seguito affronta i Normanni nella battaglia di Ortona ( 1075, o 1076) in cui soccombette con gravi perdite e che gli costò anche l’alienazione di molti beni patrimoniali per via di un forte riscatto che dovette pagare. Pare che non avesse figli da sua moglie Maria.

 

Ora la moglie del fratello assassinato e poi anch’essa uccisa, come detto, era Gaitelgrima, anch’essa figlia di Oderisio II dei Marsi e, quindi, sorella del vescovo Attone, perciò anch’essa cognata di Borrello II, marito di sua sorella Gervisa! Lo stesso Oderisio II dei Marsi sembra aver sposato una donna degli Attonidi e da qui il nome di Trasmondo e Attone ai suoi figli. Secondo il Feller, sulla scorta del Muller, la figlia di Attone III (+991) e di Bona, sua moglie, è la moglie di Oderisio II, ma non se ne conosce il nome, afferma il Feller. Il Muller a questo riguardo, però, parla di due mogli: Gilla e Litelda .

Come si vede, tra Borrello II, Attone vescovo e Trasmondo III , conte di Chieti nel 1065, esistono sostanziali e stretti rapporti di parentela, a cui corrisponderebbero, poi, rapporti non sempre pacifici e sereni, per via dell’uccisione di Gaitelgrima e dei suoi figli. Il contesto del documento del 1065, a questo punto, si arricchisce e direi si illumina di questi particolari non secondari, anche se allo stato della documentazione non è sempre agevole darne una scansione cronologica più precisa e circostanziata. Tuttavia si intende meglio, adesso, il senso della donazione pia all’episcopio teatino e direi che essa appare, tra l’altro, il mezzo più efficace, in quel momento, di mettere, come dicevo, al sicuro e tra i ‘sacri’ possedimenti del vescovato, i beni che in realtà costituiscono per Borrello II recenti e dubbie acquisizioni di conquista; spoliazioni ottenute con la forza lungo il Sangro.

La storiografia, specialmente del Rivera, ha evidenziato l’occupazione di queste Terre tra il 1059 e il 1064, nel contesto dei primi sommovimenti locali a seguito della originaria penetrazione dei Normanni, nel caso di Goffredo d’Altavilla. Di un tale subbuglio avrebbero approfittato i Borrello per spingersi a nord del Sangro e penetrare nel Comitato Teatino. Tra le prime occupazioni quelle di Gamberale, Civitaluparella, Pizzoferrato, per proseguire verso la Valle Peligna. In continuità i Borrello conquistarono Montenerodomo, Torricella Peligna, Palena, Lettopalena, Taranta e Lama dei Peligni. Ma un originario tentativo di penetrazione a nord del Sangro i Borrello lo sostennero già nel 1011, quando riuscirono ad occupare beni del monastero del Volturno, detenuti dai figli di Anserio e particolarmente Alfedena, divenuta testa di ponte per ulteriori spedizioni. Peraltro il Rivera equivoca un poco circa questi beni donati e così fanno i suoi epigoni: San Martino non è un castello, ma una chiesa di Taranta, come ben afferma il documento di donazione. Si tratta, perciò, per i beni donati all’episcopio teatino, di acquisizioni recenti e dalla prospettiva politica e stabilizzativa molto incerta, né è un caso che essi, in ogni caso, sono confinati da terreni oramai di proprietà dei Borrello.  In questo documento, inoltre, per due volte si fa menzione, in forme diverse tra loro, del destinatario dei beni donati. Ci si riferisce da subito all’episcopio, come si diceva, di ‘san Tommaso Apostolo e san Giustino confessore’. Di seguito si parla semplicemente dell’episcopio di ‘san Tommaso Apostolo’ senza alcuna aggiunta.

Dall’esame dei documenti vescovili teatini pervenuteci tra il 1086 e 1173 almeno l’episcopio risulta esclusivamente dedicato all’Apostolo Tommaso, come ha rilevato Michele Spadaccini. Solo nel 1113 capita che in un documento torni la doppia titolazione, ma si tratta di un documento molto sospetto da questo punto di vista, come sembra essere anche il nostro, che però lo Spadaccini non considera nella sua ricognizione. La nostra donazione pia, pertanto, anticiperebbe sensibilmente la doppia titolazione dell’episcopio e la cosa ha tutto il sapore ed il colore di una interpolazione tardiva, che, in ogni caso, come sembra, non ne inficia il significato storico. Una analoga osservazione va formulata sulla datazione cronica del nostro documento, che avrebbe dovuto riportare, a rigore, gl’anni del sovrano regnante, venendo prodotto il documento in terre teatine e perciò formalmente dell’impero. Enrico III era morto nel 1056, ma si dovrà attendere il 1084, allorché Enrico IV assunse la corona imperiale. Tra il 1061 e 1073, poi, è pontefice romano Alessandro II. Siamo dunque alle avvisaglie, se posso dire, della vivissima contrapposizione tra Papato e Impero che caratterizzerà, come noto, i rapporti tra Enrico IV e Gregorio VII. Rimaniamo, perciò, in un periodo di stallo in area abruzzese meridionale, di incertezze e lotte intestine e che favorirà enormemente l’iniziativa politica e militare dei Normanni di lì a poco.

 

Quella datazione, allora, “ anno incarnationis dominicae 1065, die 15 mensis maii, indictione tertia” è segno dei tempi, laddove sostanzialmente manca l’impero nello scenario politico territoriale!

Si tratta di una contingenza in cui Borrello II, come ha sottolineato il Feller, contribuisce alla distruzione del confine meridionale del comitato teatino.

Già nel 1059 si era avuta una campagna militare normanna, diretta da Goffredo di Capitanata, fratello del Guiscardo, la quale raggiunse Gissi e la stessa Guglionisi, tra l’altro, venne espugnata.

Si registra anche la notizia, del 1060, per la quale sarebbe stato attaccato il monastero di S.Stefano ‘in rivo maris’(Casalbordino) e per quanto non sembri, apparentemente, messa in discussione, tra il 1062 e 1063, l’autorità dell’impero in area abruzzese, è più che verosimile che, proprio a metà anni ’60, una occupazione normanna di castelli nel contado di Termoli e anche al nord del Trigno, accentui l’isolamento dell’area dal resto della regione.

Il Rivera descrive questo clima come quello di progressive usurpazioni territoriali, tra cui quelle di Borrello II nell’area del Sangro-Aventino: Palena, Taranta, Lettopalena sembrano acquisizioni territoriali dei Borrello proprio di questi anni, in un momento di seria difficoltà per lo stesso conte teatino nel controllo territoriale.

Non sfugge, pertanto, da questo punto di vista, anche la valenza politica della donazione del 1065. Essa si colloca in piano attendista degli eventi e punta a consolidare le nuove possidenze tra le mani, come si diceva, credute sicure, dell’episcopato teatino.

Da lì ad un decennio si sviluppa, in un siffatto contesto, l’iniziativa militare più incisiva dello stesso Roberto di Loritello.

La battaglia di Ortona, come accennavo, tra il 1075 – 1076, così come riferisce ancora Amato di Montecassino nella ‘Storia dei Normanni’, non è solo la fine militare del conte Trasmondo III, o una sua grave battuta d’arresto, ma rappresenta la svolta del suo declino politico.

A questo scontro, e se ne comprenderanno le ragioni, non intervennero i ‘parenti’ Conti dei Marsi, per quanto anch’essi alle prese con sedizioni interne e, soprattutto, con i tentativi di penetrazione dei Normanni.

Comincia, perciò, a concretizzarsi una fase diremmo di collateralismo e, poi, di vera integrazione della feudalità indigena nel quadro politico sempre più concreto ed effettivo dei Normanni.

 

Ed i Borrello sono attivissimi in questo, come conferma il loro intervento, nel 1067, nella Marsica stessa, a sostegno di Oderisio II, loro parente, schieratosi contro suo fratello Berardo e, quindi, in stretta alleanza con il normanno Riccardo di Capua.

Nel 1069 Borrello II e Gervisa abitano a Pettorano (Perrenano). Il loro figlio Guglielmo è stabilmente insediato ad Agnone e, insieme, gratificano il monastero dI San Pietro Avellava, come ho accennato, con una donazione a cui partecipa il vescovo Attone di Chieti; quel monastero che – sottolinea Leone di Ostia nella Cronaca Cassinese – “44 anni prima suo padre aveva fondato”.

Parliamo di donazione e conferma di donazione, come anche accadde nel 1077. Guaterio Borrello, figlio di Borrello II, nel 1083 in un ulteriore documento si definisce “ dominator omnium Anglonensium partium” .

Possiamo dire che siamo all’apogeo dei Borrello. E per questo basti ricordare che essi arrivarono ad allearsi con lo stesso Roberto il Guiscardo (+1085).

***

Come si è detto i beni donati nel 1065 ricadono tutti, essenzialmente, in area vescovile valvense, pur essendo collocati in comitato teatino.

A Valva, in queste circostanze è vescovo il monaco casauriense Domenico (1053-1073), abate di San Clemente a Casauria.

L’iniziativa potremmo dire familistica di Borrello II rappresenta anche questo importante risvolto, che è certamente indizio di una realtà controversa, da tempo, di carattere più complesso.

Anche Santa Maria “de letto”, a mio avviso – (per quanto, con Lettopalena, e nella prima metà dell’Ottocento verrà unita all’arcidiocesi di Chieti) – in questo periodo è perlomeno contesa tra Chieti e Valva.

A quest’ultima appartengono Palena e Taranta. Le prime bolle corografiche per Valva di Leone IX (1052) e di Niccolò II (1059) danno unicamente i confini fisici giurisdizionali della diocesi. Una bolla, discussa, di Pasquale II (1112) menziona Santa Maria di Sangro , ma non distintamente le chiese che sono a Palena.

E tuttavia lo stesso Pasquale II, nel 1115, a Guglielmo vescovo di Chieti riconosce il possesso di Santa Maria de Letto , che a quel presule sembra essere stata riconfermata dallo stesso Roberto di Loritello.

Che fosse in atto un determinato riassetto interdiocesano tra Chieti e Valva lo si può cogliere attraverso i documenti di Lucio III (1183) e Clemente III (1188). Nel primo dei due atti è ancora assegnata a Valva Santa Maria de Letto.

 

Qui i possedimenti vengono enumerati, tra cui Sant’Antonino, Santa Croce e la chiesa “Sancti Christantiani”, unitamente a San Cataldo, San Tommaso e San Giovanni, tutte chiese di Palena.

Nella seconda bolla, di cui esiste l’originale, con le altre chiese di Palena assegnate a Valva, abbiamo anche quella “Sancti Christanziani”, ribadendo visi l’appartenenza valvense di Santa Maria de Lecto.

Ma Alessandro III, già nel 1173, oltre dieci anni prima, ricordiamolo, aveva confermata quest’ultima chiesa ad Andrea, vescovo di Chieti.

Ciò che avviene ancora con Innocenzo III, nel 1208, al vescovo teatino Bartolomeo. Ed è questo lo stesso pontefice che, stando al documento del 1208, pubblicato dal Celidonio, ci da un quadro quantomeno controverso della situazione reale.

Questo documento, a mio avviso non sufficientemente valutato, ovvero ritenuto unilaterale, se non apocrifo, tenta ad accreditare una giurisdizione monastica di Santa Maria de Letto nell’area contermine.

Nel riconoscere la chiesa-monastero come collocata in diocesi di Valva e ciò in contraddizione, come detto, con la bolla innocenziata a Chieti, gli si attribuiscono le dipendenze di San Cristanziano (sancti Crsitiani) e San Giovanni di Palena; San Biagio di Forca (Palena); San Giacomo, San Martino e San Vittorino di Taranta; San Nicola di Letto; San Giovanni di Portella; San Silvestro, San Pancrazio di Lama; l’Ospedale di San Giovanni di Prata; San Venanzio di Torricella e San Benedetto di Pizzo Superiore.

Il documento lascia intendere, anche se non esplicitamente, che Santa Maria fosse una chiesa esente ed a tal fine sarebbe stato prodotto, ma certamente senza risultati.

Se si tiene conto che solo nel secolo XVI essa venne effettivamente dichiarata ‘nullius’, con giurisdizione su Lettopalena, noi potremmo vedere in queste ‘rivendicazioni’ più antiche le radici storiche di una controversia dalla lunga durata e che condizionò effettivamente lo stesso assetto delle chiese di Palena.

Non per nulla il Celidonio alluse, in questo caso, a beghe monastiche!

Ma tutto ciò per sottolineare ancora come il nostro documento del 1065 indirettamente rilevi una situazione di forte frizione nell’area “de domo” , anche dal punto di vista della giurisdizione vescovile!

Lo stesso vescovo Attone di Chieti aveva una qualche esperienza, possiamo dire, in materia, quando iniziò la sua carriera ecclesiastica ed episcopale, occupando per alcuni anni, dal 1050 al 1056, l’effimera diocesi creatagli, incentrata su Santa Maria di Carsoli, e voluta da suo padre, Oderisio II, per smembramento della vasta diocesi dei Marsi.

 

Potremmo allora scorgere nella vicenda di Santa Maria de Lecto , con la donazione del 1065 dei Borrello, il tentativo di disarticolare, attraverso la determinazione di un nuovo centro di potere ecclesiastico nell’area aventino-sangrina, l’assetto interdiocesano teatino-valvense, in un momento particolarmente critico, tra l’altro, per la tenuta stessa del confine comitale meridionale.

San Cristanziano, come si vede, con le altre chiese della zona, sembra pienamente coinvolta in questa vicenda ed è anche per questo che possiamo individuare in Borrello II e nel cognato, Attone, i soggetti più particolarmente interessati alla promozione del culto del santo, con i risvolti che conosciamo, in tal senso, nella vicina diocesi tridentina, cioè ad Agnone.

Il documento casauriense del 23 novembre 1171

Ad un secolo circa dagli eventi del maggio 1065, un documento casauriense, datato 23 novembre 1171, ci ripropone emblematicamente il problema del culto di san Cristanziano, anche questa volta mediato, o scaturente dalla più particolare vicenda di Palena e dei Palenesi.

In questo caso si tratta di una vera e propria investitura feudale, ispirata ad una prassi giuridica oramai consolidata nel regno normanno di Sicilia. L’abate del monastero di San Clemente ‘in Piscaria’, il cardinale diacono Leonate, conviene con il nobile Mallerio, figlio del defunto Mainerio ‘de Palena, ad un contratto particolare di gestione del territorio monastico.

Ad istanza e preghiere di Mallerio e suoi compagni e con il consenso dei monaci del suo monastero, l’abate gli concede un tenimento, che è chiamato ‘di San Cristanziano’: sancti Cristintiani, che si trova nel territorio pennese, oltre il fiume Cigno, nella pertinenza di Alanno e glielo assegna in possesso e perché gli sia di giusto guadagno, rimanendo per questa concessione ‘a servizio’ dell’abate e suoi successori e con promessa di fedeltà alla chiesa monastica.

Detto tenimento rimarrà sempre nella disponibilità del monastero concedente.

Di tutto ciò che sarà il frutto dell’uso del tenimento, in generi e animali, il concessionario corrisponderà il decimo al monastero. Nel giorno di San Michele Arcangelo di maggio il concessionario offrirà un pranzo ai monaci.

Inoltre, al cappellano della chiesa di san Cristanziano (Sancti Cristintiani), che è situata in detto tenimento, il concessionario presterà ogni anno vitto e vestiario.

In ogni caso la nomina ed il controllo di detto cappellano spettano e spetteranno al monastero.

 

Qualora fosse necessario al monastero, per la difesa delle sue terre e per il servizio nei suoi castelli, che sono vicini al monastero stesso, il concessionario metterà a disposizione due cavalieri ben armati ed equipaggiati. Circa i castelli del monastero che, invece, sono più lontani, in Aprutium (Teramano) ed altrove, egli presterà all’occorrenza analogo servizio, come fanno gli altri uomini del monastero.

L’abate, dunque, in virtù di tale concessione, riceve da Mallerio beni per il valore di ottanta i bisantei ad utilità del monastero, con la promessa di essere fedeli alla chiesa abbaziale ed ai suoi successori e con l’impegno a garantire il tenimento anche agli eredi e successori di esso Mallerio, alle stesse condizioni predette.

Qualora il concessionario non avesse eredi diretti il contratto avrà fine, ovvero risoluzione senza alcun indennizzo al concessionario.

E’ una concessione feudale al fine di ricevere un servizio! Possiamo quindi dire che Mallerio così diventa un suffeudatario dell’abate Leonate.

Questo documento è il quint’ultimo dei 2207 atti enunciati nel cartulario di San Clemente a Casauria e non è facile poterne seguire gli sviluppi pratici. La situazione che esso descrive, giuridica, fisica e religiosa, è abbastanza chiara.

I rapporti tra concessionario e concedente appaiono evidentemente più antichi della concessione stessa e consolidati. L’abate Leonate, in quei frangenti, è impegnato nella sontuosa riedificazione della sua abbazia, mentre i ‘de Palena’, probabilmente prima della concessione in questione, hanno avuto il tempo di costruire la piccola chiesa di San Cristanziano, al centro di quel territorio, certamente già frequentato, non diversamente descritto se non con il nome del santo medesimo titolare della chiesa.

I ‘de Palena’, che proprio nel cognomen tradiscono l’origine palenese, a questo punto, possono essere ritenuti, per usare una felice espressione di Peter Brown, i veri ‘imprenditori’ del culto di san Cristanziano.

Anche perché essi – come dirò – sono in chiari, diretti e stretti rapporti con i Borrello della loro generazione, proprio in Agnone, ove operano quali riconosciuti e, direi, autorizzati collaboratori del sovrano stesso, Ruggero II, già un ventennio prima il loro intervento a Casauria.

Irrinunciabile è, a questo punto, uno sguardo alla loro consistenza feudale, così come rappresentata del Catalogo dei baroni. Ove compaiono quali ‘figli di Manerio di Palena’, feudatari tanto per concessione dei conti di Manoppello, quanto per diretta investitura del sovrano stesso.

Nel primo caso detengono i feudi di Montegranarum, Prata, Civitella Messer Raimondo, Pacentro, Roccam Umberti, tra Pacentro e Campo di Giove, Rocca Caramanico.

 

Dal re essi hanno Palena, che è un feudo di tre militi!, quindi di una certa consistenza, Lama dei Peligni, Taranta, Piczum e, ancora, in Valva, Forca Palena, Rocca dé Pizzi, che si trovano in ‘Terra Burrellensi’.

Il valoroso commentatore del Catalogo dei baroni, Errico Cuozzo, ha indicato al 1130 una loro prima menzione documentaria.

Per Mallerio, nello specifico, che Cuozzo individua già nel 1136, oltre al documento casauriense che esaminiamo, dato erroneamente, però, al 1161, ne parlano altri scritti del 1170 e 1201.

Nel 1170 Mallerio è attivo a Pacentro, perché dona la chiesa di sant’Angelo, sita nel vado, o passo del monte Placunti – ben noto tra l’altro ai casauriensi – alla chiesa cattedrale di Sulmona. Ma sappiamo anche che, in Sulmona stessa, operava intensamente lo stesso abate Leonate proprio in quei frangenti.

I fratelli di Mallerio, individuati singolarmente dal Cuozzo, sono Berardo, Ugo, Roberto, Ruggero, o Rogerius, Guglielmo, Oderisio: tutti figli di Manerio.

Pensa il Cuozzo che il padre di Manerio, perciò nonno paterno di Mallerio, sia da identificare con Berardo di Oderisio, già abitante nel castello di Corniano, presso Pacentro. Vi sono perciò valide ragioni per ritenere i de Palena discendenti da un ramo dei conti di Valva, come sembra sostenere lo stesso Cesare Rivera.

Due atti del 1140 e 1144 ci propongono i Borrello e i de Palena in stretta collaborazione.

Il secondo documento è, per altro, molto significativo per la stessa storia di Agnone. Qui si tratta di una causa celebrata a Trivento, il 3 dicembre 1144, dedicata alla vertenza per l’assetto proprietario e feudale della chiesa di san Marco di Agnone.

Dal conte Ugo di Molise, assistito dai baroni Mainerio di Palena e Matteo di Pettorano, si stabilì che la metà di detta chiesa spettasse al monastero di san Pietro Avellana, per effetto di una originaria donazione dei Borrello.

Vittoriosi nella controversia, i monaci avellaniti si rivolsero al vescovo eletto e probabilmente non ancora in carica, di Trivento, Roberto e reclamarono, sulla base della ottenuta sentenza, il riconoscimento del diritto di proprietà della metà di detta chiesa, la quale gli era pervenuta attraverso l’eremo di san Nicola di Vallesurda, a cui appunto Gualterio Borrello aveva fatto donazione.

Ma quest’ultimo documento non lo troviamo tra le carte ‘avellanite’ di Montecassino e si ritiene esistente in copia in Pietrabbondante.

 

Alla restituzione della metà della chiesa di san Marco agli avellaniti, tra gli altri, si trovò Guglielmo Borrello, nipote del suddetto Gualterio e signore di Agnone.

A questo punto, appena riavutala, i monaci dell’Avellana cedettero nuovamente detta metà di san Marco a Mainerio de Palena, Matteo di Pettorano e Guglielmo Borrello, i quali solennemente si facevano garanti dei diritti di proprietà di san Pietro Avellana su di essa. Potremmo, schematizzando, affermare che questi tre baroni divennero, a loro volta, suffeudatari di san Pietro Avellana! Dietro cui, però, stava Montecassino!

Il problema, allora, non concerneva la natura feudale del bene, ma del suo assetto proprietario e, conseguentemente gestionale.

Quei diritti furono evidentemente e palesemente contestati da chi riteneva esserne il titolare. E titolare, si dirà, di una realtà cospicua economicamente!

Dalla documentazione si può evincere che il contraddittore degli avellaniti fosse Gualterio Bodone, che era, a sua volta, suffeudatario di Gualterio Borrello!

Perciò i monaci di san Pietro, riconosciuti legittimi assegnatari della metà di san Marco di Agnone, non fecero altro che riassegnarla, sicuramente in servitium, ad altri concessionari fidati, in mani più sicure!

Allo stesso tempo, così come avvenuto presso il vescovo eletto di Trivento, l’archigeronta (arciprete) di san Marco, tale Ruggero, che evidentemente era addetto alla cura di anime in san Marco stessa, prestò da parte sua giuramento di fedeltà al monastero di san Pietro Avellana per ciò che concerneva la metà della chiesa, oramai affidata a nuovi concessionari.

Emerge, sia pure a tratti, la natura di questo insediamento religioso in Agnone, che era certamente addetto alla cura delle anime e, perciò, all’inquadramento religioso dei fedeli; gravata, oserei dire, di diritti feudali cospicui, dati dalla sua stessa capacità economica e patrimoniale di notevole rilievo che aveva assunto.

Con ciò emerge, sia pure indirettamente, la vicenda della sua fondazione quale chiesa propria e privata, che ha tutte le caratteristiche, a questo punto, di chiesa castrense e parrocchiale.

La presenza, poi, ben accertata, del clero secolare nella gestione diremmo sacramentale della cura d’anime indica emblematicamente l’effettiva, ma non scontata, giurisdizione vescovile su e in san Marco.

Cosa significasse tutto questo nella vicenda devozionale e religiosa locale, come nella promozione dei culti dei santi, a me appare molto significativo.

 

Con ogni probabilità nella ‘leggenda’ della fondazione borrelliana di san Marco, importato direttamente da Venezia – questione su cui bisognerà tornare – è da leggervi proprio questo e cioè che l’effettiva origine della chiesa è quella di una chiesa propria e privata, assurta a livello parrocchiale come conseguenza dell’incastellamento tra XI e XII secolo.

Di più! Alla sua affermazione istituzionale concorsero diversi fattori, primi dei quali i diritti di ‘patronato’ delle origini fondative, con tutto il retaggio culturale che ciò poteva comportare.

La vicenda, però, si riaprì ben 25 anni dopo questi eventi, allorché lo stesso Mainerio de Palena, nel 1169, venne coinvolto da Riccardo conte di Molise a dare esecuzione ad un più antico mandato del re Ruggero II, oramai defunto, che stabiliva la secolarizzazione delle chiese agnonesi di san Nicola di Vallesorda e di san Lorenzo, evidentemente oggetto di interessi rinnovati del predetto Gualterio Bodone, suffeudatario di Guglielmo Borrello. Il problema, quindi, a ben vedere, è più ampio e complesso.

Sappiamo che Mainerio è già defunto nel 1171. Probabilmente è questo del 1169 l’ultimo documento che lo da vivente.

Mainerio de Palena ed Oddone di Pettorano vennero, perciò, espressamente incaricati all’affare, perfino nella delimitazione dei beni fondiari delle chiese predette e quelli afferenti ai casali detenuti , appunto, dai budonisiis, come vennero chiamati i suffeudatari del Borrello.

Accanto all’indubbio ruolo ‘strategico’ in materia feudale delle chiese agnonesi, certamente di origine laica e privata, preme rilevare che i de Palena in questo contesto ci si presentano nella veste di veri e propri funzionari regi, titolari di un mandato politico. Sono, perciò, persone affidabili e colte, preparate giuridicamente e attivissime sul piano sociale.

Conoscemmo già Borrello II e sua moglie Gervisa. Tra i figli di questi, oltre a san Randuisio, monaco cassinese, si collocano Borrello III e Gualterio, detto espressamente ‘signore di Agnone’, dal quale discendono Borrello IV e Oddone I, signore di Pettorano.

Da questi due si sviluppano, rispettivamente, i rami di Guglielmo di Agnone e dei fratelli Matteo e Oddone II di Pettorano.

Questi ultimi tre sono pertanto cugini ed è con essi che si stabilisce l’intenso rapporto con Manerio di Palena.

Starei per dire che, in quanto discendenti dai conti di Valva, i de Palena stessi siano parenti dei Borrelli, ma allo stato delle ricerche non è possibile per adesso dimostrarlo.

Appena dopo, nel 1171, quando forse Mainerio de Palena è morto da un anno, abbiamo san Cristanziano nelle terre pennesi di San Clemente a Casauria.

 

***

Sono nella storia di questi rapporti le tracce di un percorso cultuale e culturale che Cristanziano ha compiuto e che probabilmente trova una sostanziale soluzione di continuità con l’estinzione genealogica dei suoi vettori, rimanendone a Palena una testimonianza essenziale ed in altri luoghi del Teatino.

Qui, a Palena, ho già ricordato il passaggio ed il paesaggio sociale del 1251, con il casale di san Cristanziano, ove effettivamente possiamo conoscere – lo ripeto – le più recenti propaggini dei ‘de Palena’.

Il dato storico successivo di inizio Trecento circa le chiese di Palena ci viene confermato da un bel documento del 1356, pubblicato pure dal Celidonio e che concerne una visita pastorale del vescovo valvense, frà Francesco de Silanis.

Nella chiesa sancti Cristiani, che ha cura di anime ed è perciò parrocchiale, officiano don Tommaso, don Bartolomeo e il diacono Mutio.

Sant’Egidio è in restauro, forse per gli esiti, ancora, del sisma del 1349. San Bartolomeo è chiesa rurale e attiva; sant’Antonino, che è pure parrocchia, di lì a qualche decennio diverrà la Matrice, come dissi.

E’ diretta da don Berardo. San Tommaso è altra chiesa rurale, presieduta da Ceccarello di Butio Sortini.

L’articolazione del culto di san Cristanziano è ancora attestata attraverso un mandato papale del 10 marzo 1358, in Archiano, presso Tornareccio, feudo particolare di Atessa, ove ha sede, appunto, la chiesa dedicata al santo.

Questa identificazione di Archiano, inoltre, sembrerebbe sostenuta dalle precedenti indicazioni delle decime papali, dove a possedervi la medesima chiesa è detto il monastero di san Vito al Trigno.

L’altro piccolo monastero di Roccascalegna, dedicato a san Pancrazio, a sua volta dipendeva, come pure si è detto, dal più noto di san Giovanni in Venere, ma probabilmente il possesso della chiesa sancti Criscentiani gli deriva per altra via.

Resterebbe da evidenziare il caso di San Martino sulla Marrucina, in cui è la chiesa sancti Criscintiani e dove il santo assurge a livello di patrono cittadino, probabilmente in età moderna, mentre l’insediamento religioso è certamente più antico.

Qui il richiamo alla figura ascolana di Cristanziano è più netto ed esplicito, perché, tra l’altro, lo si designa, come in Ascoli Piceno, quale diacono e martire.

 

***

Tratti biografici come questi ultimi del santo la ricerca da me condotta fin qui non ha potuto evidenziare a Palena.

Questa rappresenta un caso molto significativo per la lunga durata dell’esistenza della chiesa a lui dedicata, la quale, penso, sussistette ancora per tutto il Quattrocento , se non oltre.

La costruzione del convento degli Osservanti proprio nel sito dell’antica chiesa cristanzianea, o nelle sue immediate vicinanze, in ogni caso nel contesto del medesimo casale, avrà certamente tenuto conto dell’illustre preesistenza.

Di certo il terremoto del novembre 1706, che semidistrusse il convento, per essere riedificato ex novo, avrà determinato anche nella comunità dei religiosi che vi stanziavano la fine naturale di un ricordo, che per l’innanzi dovette essere ben vivo. E tuttavia la storia di Cristanziano non termina qui. In età moderna in Agnone ed in Ascoli Piceno si continua a parlare di lui. In che termini?

In Ascoli Piceno Cristanziano assume le vesti di figura prettamente civica e urbana, per quanto il suo patrocinio sia destinato all’esterno, al contado cittadino, in funzione di protettore contro le grandini e, si badi, contro le discordie civili!

In Agnone si riscopre la sua valenza patronale, verosimilmente ai primi del Seicento, ma in una sostanziale alienazione della sua biografia agiografica.

Vi assume dunque, io dico processualmente, le sembianze di un vescovo, sulla scorta di una miracolosa apparizione al popolo.

Ed è questo il fenomeno che spinge ancora le due Città, memori di collegamenti più antichi, ad un nuovo scambio informativo sulla figura del santo in pieno Settecento.

Incessanti rielaborazioni, come si vede, della figura agiografica, di cui ancora si ignorano, sostanzialmente, le origini; rielaborazioni che tradiscono uno reale stato di necessità culturale e devozionale.

Ed é anche questo che rende viva ed interessante, come fatto culturale, perché proprio della vita sociale delle due Comunità, la discussione su di Lui.

In fondo, parlando di Lui, si tesse la tela infinita della storia cittadina; la si rinnova e proietta nel futuro! Ed è anche questo il destino dei santi, reali o supposti che fossero!

Il suo rapporto con Palena, concludendo, mi pare debba essere valorizzato sul piano culturale anche perché esso è alle radici stesse della vicenda altomedievale dell’intero insediamento e poi pure sul piano storico agiografico, perché l’affermazione della figura salvifica, soprattutto in area teatina, è espressione di scelte elitarie significative, come quelle dei Borrello e dei de Palena, nel più vasto orizzonte abruzzese-molisano e piceno, in cui, storicamente, possiamo registrare il culto di Cristanziano.

 

Antonio Alfredo Varrasso

APPENDICE DOCUMENTARIA

Donazione pia.

Comitato Teatino, 15 maggio 1065

Borrello, figlio di Borrello, unitamente a suo figlio, chiamato pure Borrello, dona all’Episcopio di San Tommaso Apostolo della Città di Chieti e per esso al vescovo Attone, per la redenzione della sua anima e quella dei suoi parenti, diversi beni, siti nel Comitato Teatino: la chiesa-monastero di Santa Maria de Letto, con tutte le sue pertinenze; il castello de Letto, con le sue pertinenze e chiesa castrense, con 1500 moggi di terra ; la chiesa di San Pietro a Taranta, con 12 moggi di terre; la chiesa di San Martino di Taranta, con 60 moggi di terra; la chiesa di San Cristanziano a Palena, con 400 moggi di terra. L’atto è redatto dal notaio Conone.

In Italia sacra sive de episcopis Italiae et insularum adjacentium Tomus Sextus (…) Auctore Ferdinando Ughello. Editio secunda aucta et emendata cura et studio Nicolai Coleti (…), Venetiis, 1720, coll. 678-679.

 

In nomine Domini Anno Incarnationis Dominicae 1065, die 15 mensis Maii, Ind. 3. Ego Borellus Borelli, et Borellus infans filius supradicti Borelli, bona et spontanea voluntate cogitavimus diem mortis, et aeterni judicii, et speravimus, atque desideravimus habere Dei Omnipotentis misericordiam pro mercede, et redemptione animarum nostrarum , et pro remptione animae genitoris, et genitricis nostrae, cum Dominus dignatus sit dicere, Venite benedicti Patris mei, percipite regnum, quod vobis paratum est ab origine mundi; declaravimus etiam sicut in edicto Longobardorum continet pagina, quia Dominus Liutprandus Rex in suo Capitulare instituit, ut si quis Longobardus de rebus suis in Ecclesia, aut in locis Sanctorum donare aliquid voluerit, in omnibus habeat potestatem, et quantumcunque donaverit, firmum et stabile permanere debeat, quia in locis Sanctorum, nec thinx, nec lanechilt impedire debet, eo quod pro anima sua fecerit, et Dominus Carolus Imperator in suo Capitulare sic affixit, ut si quis Longobardus de rebus suis pro anima sua chartulam donationis cuilibet facere voluerit, absolute faciat unusquisque de rebus suis quod velit, et noverit, et quia nullum aliud melius est inter virtutes elecmosyna, quam de propriis rebus in Sanctis Ecclesiis aliquid tribuere, modo vero ea vide licet ratione nos supradicti Borellus, et Borellus aliquantulum de rebus nostris pro anima nostra, et parentum nostrorum donavimus in Episcopio S.Thomae Apostoli et Justini Confessoris tibi Actoni Episcopi quod situm est in civitate Teatina, ubi nunc praesenti tempore Acto Episcopus regnum tenere videtur, hoc est de re nostra, quae nobis ad conquisitum nostrum obvenit, et ita res in Comitatu Teatino in vocabulo de Domo, ubi Sancta Maria allo letto vocatur, idest integra Ecclesia S.Mariae cum ipso Monasterio cum cellis, casis, intrinsecus et extrinsecus cum dotibus et libris et oratoriis suis, vel ornamentis Ecclesiarum, sicut ad supradictum Monasterium pertinet: et insuper concedimus in Episcopio S.Thomae ipsum Castellum de lo letto , et omne aedificium, et firmamentum ejus, et cum introitu et exitu suo, et cum ipsa Ecclesia quae in eodem Castello est dedicata cum cellis et dotibus, et libris, et oratoriis, seu ornamentis, cum casis et rebus consuetis, ita ut qualiter nobis dare debent, taliter vobis persolvant cum ipsorum datis, quae nobis debent, et cum omnibus pertinentiis, vel subiacentiis suis, et cum molendinis, et locis molendinorum, et sicut omnes iste res de ipso Castello infra fines modiorum mille quingentorum de terra habent fines à capite fine Casa Longa, et fine Pesco Dodati Joannis Boni, pede fine Albertano de uno latere fine fossato sicco, ab altero latere, fine terra, quae supradicto Borello remansit et concedimus nos supradictis in ipso supradicto Episcopio Ecclesiam Beati Petri vocabulo ad ipsa Taranta cum cellis, et dotibus, et libris, et Oratoriis suis, vel ornamentis Ecclesiarum, et cum ipsa pertinentia, quomodo ad eandem Ecclesiam pertinet, et sunt ipsae supradictae res infra fine modiorum 12 à capite et pede et ex omni parte est terra Borelli, et alia Ecclesia S.Martini, quae ibidem est dedicata cum cellis et doti bus, et libris, vel ornamentis Ecclesiarum, et cum ipsis pertinentiis, quas filii Tedaldi in eadem Ecclesia antea delegarunt, et est ipsa pertinentia infra fines modiorum sexaginta, à capite cujus et pede, et ex omni parte est terra Borelli, est alia Ecclesia Sancti Christiani vocabulo in Palena cum cellis et dotibus, et libris, et Oratoriis, vel ornamentis Ecclesiarum, et cum pertinentia sua, quae est infra fines modiorum 400 à capite et ex omni parte est terra Borelli. Infra ista praenominatos fines cum supradicto monasterio, et Castellia, et in supradictis Ecclesiis, et cum vineis, vineaticis, campis, silvis, pratis, pascuis, salettis, olivetis, pomis et arboribus fructiferis, et infructiferis, et in aquis, aquarumque cursibus, et usibus aquarum et cum omnibus et in omnibus quantum supra se, vel infra se habent in integrum per hanc cartulam donamus, et concedimus pro anima nostra, et parentum nostrorum, et exinde nullam in supradictis rebus facimus nobis reservationem, vel heredibus nostris, seu ad quemlibet nomine, sed in integrum qualiter praelegitur sic concedimus, haec omnia in Episcopio S. Thomae Apostoli, et tibi Actoni Episcopo posterisque et successoribus tuis ad habendum, et possidendum, ut inde faciatis sicut de aliis rebus vestris facere debetis, absque alicuius contradictione, vel calumnia. Si quis vero hujus rei minorationem, aut invasionem, seu disturbationem facere temptaverit, tam nos, quam nostri heredes, seu quilibet homo, sciat se in tremendo justi Judicis examine rationem esse redditurum, et pro hac causa in Sanctorum Patrum maledictionem incorrendo, et cum Juda traditore, qui ab Apostolorum agminem segregatus est, damnandum in stagnum ignis, et sulphuris ardentis. Hoc etiam repromittimus vobis Actoni Episcopo, posterisque, et successoribus tuis atque obligamus tam nos, quam heredes nostros ex omnibus supradictis rebus, quas pro anima nostra et parentum nostrorum in Episcopio S. Thomae tradidimus, si exinde aliquid retollere, vel minuere, seu foras eiicere praesumpserimus, aut si hanc chartulam concessionis irrumpere, vel falsare tentaverimus, vel si vosbis et successoribus tuis à nobis, seu à nostris haeredibus defensata non fuerit, cujus exinte nostrum culpa claruerit, componat vobis, vel successori bus tuis, vel in supradicto Episcopio poenam auri optimi libras quingentas. Et cartula jsta concessionis, et donationis in supradicta ratione a modo et sempre firma et stabilis permaneat. Quam vero cartulam supradicto Borrello, et Borrello, ut superius scripsi ego Cono Judex et Notarius Indictione supradicta, et die mensis supradicti. Acta in Teate feliciter.

 

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Scriptum convenientiae.

23 novembre 1171 (*), San Clemente a Casauria (?)

L’abate di San Clemente ‘in Piscaria’ il monaco e cardinale Leonate, concede al nobile Mallerio, figlio del defunto Mainerio di Palena ed ai suoi compagni, per la durata della sua vita e, eventualmente, ai suoi eredi, il tenimento detto di San Cristanziano, che è sito nel territorio pennese, nelle pertinenze del castello di Alanno, di là dal fiume Cigno, affinché ne faccia uso e giusto guadagno e, tra le altre condizioni, affinché esso concessionario presti assistenza militare all’abate nella custodia dei castelli abbaziali, vicini e lontani. Inoltre l’abate prescrive che il cappellano addetto alla chiesa di San Cristanziano, che è stata eretta in detto territorio, sia di nomina abbaziale e sia sottomesso al controllo del monastero.

In Liber instrumentorum seu chronicorum monasterii casauriensis – (Codex Parisinus Latinus n. 5411 della Biblioteca Nazionale di Parigi), carte 271verso -272recto: “Scriptum de tenemento sancti Cristintiani factum Mallerio de Palena”

In nomine domini nostri ihesu christi. Anno ab incarnazione domini .m. c. lxi. Indictione . v . die . xxiij . mensin novembris . Regnante domino nostro Wilielmo glorioso Rege Sicilie, ducatus Apulie et Principatus Capue, anno regni eius quinto. Scriptum convenientie seu recordationis qualiter nos Leonas Sancte Romane Ecclesie diaconus cardinali set monasterii sancti Clementis in Piscaria humilis abbas. Composuimus atque convenimus tecum nobilis vir Mallerio fili quondam illustrissimi viri Mainerii de Palena. Nos liquide instantia precum tua rum et amico rum tuorum nostrorum fidelium consensu et voluntate omnium etiam fratrum nostrorum videlicet, concedimus tibi quoddam tenementum quod dicitur sancti Cristantiani in territorio pinnensi ultra fluvium qui dicitur Cignus, in pertinentia de Alanne, ad habendum scilicet tenendum et iuste lucrandum ad servitium nostrum et successorum nostrorum et fidelitatem ecclesie, non enim ad vendendum nec cambiandum nec quolibet modo nostri monasterii dominazione alienandum. Tali liquide tenore ut omnium frugum et fructum quos de predicto tenimento recolligere poteris, nutriminis etiam omnium animalium tuorum videlicet iumentorum, boum, ovium atque porcorum lanarumque et casei decimas nostro monasterio pro arbitrio nostrorum hominum omni tempore persolvere debeas. Insuper singulis annis in festo sancti Angeli de majo de consuetudine prandium nostri monasterii fratribus facias. Cappellano etiam qui ecclesiam sancti Cristantiani quam ad manum et ordinationem nostram et successorum nostrorum reservavimus rectus est per unumquemque annum quattuor modia frumenti totidemque vini et unam cannapinam quattuor sextariorum semini sed unum bisanteum de moneta pro victu et vestito suo liberaliter persolvas. Cum autem ecclesie et nobis seu successoribus nostris oportunum fuerit ad defensionem terre et servitium nostrum in castellis qui iusta monasterium sunt duos milites armis sed equis bone preparatos. In Aprutio sive castellis nostris que fuerint longius unum ad servitium nostrum quantocius dirigas. Sumptus et redditus tam quam et ceteri nomine nostri a nobis accipientibus. Nos liquide ideo tibi suprascripte Mallerij tribuimus quia recepimus a te de tuis rebus octoginta bisanteos ad opus et utilitatem nostri monasterii et insuper iurasti veram fidelitatem ecclesie sancti Clementi sed nobis et successori bus nostris canonice intrantibus sicut domino. Videlicet quod non eris in facto neque in consilio qualiter capiamur mala captione aut perdamus vitam aut membra et consilium nostrum quod celandum fuerit, celabis et de ipso tenimento a nobis tibi concesso fideliter in omnibus te habebis erga ecclesiam beati Clementi et nos et successores nostros abbates te vero ex hac vita decedente heres tuus unus tantum ex omnibus heredibus tuis, qui tibi tuo testamento et concessione nostra seu succesorum nostrorum in superscripto tenemento successerit hanc supradicta fidelitatem iurabit atque portabit et omnes predictos tenores atque conditiones servitiorum et decimationum studebit, sicut tu ipse,donec adiuxerit omnimodis per solvere. Illo autem moriente aut si forte sine filio aut filia te obire contigerit hec cartula vacua sit et totum supradictum tenimentum ex integro cum habitatione et omnibus edificiis ibi factis sine aliqua alicuius contradictione ad ius et proprietatem ecclesie sancti Clementis revertatur. Quod si nos aut successores nostri hanc convenientiam infringere aut tibi retollere aut minuare ante predictum terminum vel fine supradictis conditionibus temptaverimus, unam libram optimi auri tibi aut heredi tuo nos componere obligamus et hac cartula firma et stabilis usque ad supradictum terminum permaneat.  Quod si tu vel heres tuus in supradicto tenimento suprascripto iure successerit omnes supradictos tenores atque conditiones non servaveritis aut hanc convenientiam inter nos factam irrumpere temptaveritis tantundem auri nostro monasterio componatis et hac cartula vacua sit. Quod ego et nostri monasterii fratres propriis manibus roborando subscripsimus. Et hoc totum factum est sine fraude et malo ingenio utriusque partis salva in omnibus fidelitate atque precepto domni nostri Wilielmi gloriosissimi regis. + Ego Leonas sanctae Romanae Ecclesiae diaconus cardinalis et abbas monasterii sancti Clementis in piscaria subscripsi. + Ego frater Johannis berardi monasterii sancti Clementis indignus prepositus subscripsi. + Ego frater Robertus prior monasterii sancti Clementis indignus decanus. + Ego frater Moyses peccator monachus sbscripsi. + Ego frater Robertus de bussi subscripsi. +Ego frater Oderisius licet indignus monachus subscripsi. + Ego frater Berardus eiusdem monasterii mansionarius subscripsi. Et ceteri fratres per ordinem consenserunt”.

(*). Il documento in questione viene erroneamente datato nel codice casauriense al 23 novembre 1161, mentre l’anno effettivo è il 1171, come si avverte nel vol. IV dell’edizione critica del codice stesso, opera di A.Pratesi-P.Cherubini, ( Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Roma , 2019.

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‘Ristretto’ della Vita di San Cristanziano, diacono e martire ascolano. Testo di Francesco Antonio Marcucci (1758).

 

Diamo qui una prima trascrizione del componimento manoscritto marcucciano dedicato a San Cristanziano, avvertendo che di esso si va preparando una edizione critica di prossima pubblicazione.

“Alcune notizie intorno alla Vita del Glorioso Martire S.Cristanziano. Francesco Antonio Marcucci. Ascoli 29 aprile 1758. Dedicato a Mons Giuseppe Pitocco, napoletano, Vescovo di Trivento nel 1757, morto a Napoli 1771” . Copia, verosimilmente ottocentesca, in Archivio della Parrocchia di San Marco di Agnone

(*)(*) E’ questa una evidente aggiunta del copista, posta a titolo del testo che segue. Il quale manifesta , ogni tanto, diverse incertezze trascrittorie, che in questa sede non si possono risolvere, se non con il confronto con il testo originale, fin qui impossibile. Mi sono limitato, per il momento, ad intervenire sulla punteggiatura e, in qualche caso, ad esplicitare alcune parole, forse fraintese dal copista stesso.

1°. L’antichissima Città di Ascoli, la quale cinque e poi secoli vanta di origine prima di Roma e che al dir di Lucio Claro e di Pier Leone Casella fu una volta Capo nobilissimo e madre di tutto il Piceno e la dominante metropoli, dopo Roma, delle Città dell’Adriatico, di Ravenna e di tutti lidi della Grecia, fino a Reggio appartenenti a questa Città, come scrive il Martire S.Valentino. Ascoli, ripeto, la cuna diede a Cristanziano e la patria ne fu di lui fortunata. Nacque egli circa l’anno di nostra salute 280 da Genitori nell’Idolatria del Gentilismo involti. Passò nulla manco fra quelle tenebre la gioventù con qualche lode, perciocché d’ingegno altrettanto docile di cuore era e conservava buona volontà nel giovare. Su di Lui pertanto, volgendo l’odio in pietoso suo sguardo, incominciò ad illustrargli alquanto la mente, tanché tra la caligine ambrosa del Gentilismo qualche raggio di verità poté vedere.

2°. Trovandosi Cristanziano sull’anno 27 di sua età in circa spedito in Ascoli dal Pontefice S. Marcello per primo Vescovo ed Apostolo S.Emidio, si fece l’ingresso nell’anno 306 del Mondo Redento. E siccome all’entrare del Santo muggivano orribilmente i demoni, tremò la terra, la Città tutta da fondamenti ed insieme così essi Templi Profani di Ancaria, di Esculapio, del Sole, di Venere, della Fortuna e di altri diciassette templi dell’Idolatria caddero a precipizio tra il fiero sbigottimento universale dé Cittadini, ebbe anche Cristanziano a morire di spavento. Indi, occorso anche Egli ad udire le voci prodigiose del S.Pastore novello, che con zelo ed energia meravigliosa si insinuava nei cuori, per piantare la vera infallibile fede di Gesù Cristo, punto indugiare non volle a gittarsi à piedi di Emidio, onde implorare da Lui le acque sacrosante del Battesimo.

3°. Istruito e battezzato che fu dal Santo, non dopo ciò col nome di Cristanziano intitolato il trovammo. Non già che questo il proprio nome fosse (che sinora l’ignora), ma fugli bensì dato in Ascoli dagli antichi Cristiani, per dinotare che, tra cittadini dal S.Pastore battezzati, egli era stato il primo e più antico cristiano. In quella guisa che in Licia, non sapendosi dà primi Cristiani il proprio nome di quel Santo Martire, che in una visione portò Gesù Cristo sulle spalle, lo chiamarono esso Cristoforo ed in Roma col cognome Edutto intitolarono quell’altro Santo Martire e di cui il proprio cognome ignoravasi, per dinotare che fu aggiunto ed unito al martirio del S.Prete Felice e per finirla, in Avila, quella S. donna di Cristo, che, nel sostenere un duro martirio, fu invero mirabile S. Cristea la dissero. I quali titoli in poi in luogo del proprio e vero nome subentrando, furono di quei Santi, che li ebbero per distintivi, mentre, scolti tali vocaboli, vennero sempre mai onorati e registrati né cataloghi furono e nelle Tabelle.

4°. Rinato dunque Cristanziano al Cielo col Santo Battesimo, deciderla non si potrebbe se più grande l’ammirazione fosse di lui nell’osservare in Emidio, unita al gran potere de prodigii , una santità molto eroica, oppure la meraviglia di Emidio nello scoprir profeticamente in Cristanziano la singolare scelta, che ne aveva fatto Iddio pel suo onor divino. Il punto fu che il Santo Vescovo tardar molto non volle ad ordinarlo Diacono ed ascriverlo tra i suoi Compagni, onde se (S.) Euplo e S. Valentino Martiri furono del Santo Pastore, insieme con S.Germano Martire, i tre fidi primi discepoli da Treviri con seco venuti. E se S.Benedetto Martire dé primi che furono (a) Roma con Lui divenisse sequace, Cristanziano fu ancora il primo che in Ascoli di S.Emidio si dichiarasse compagno e zelante suo ministro.

5°. Quindi, allorché per la fiera persecuzione di Plinio (? – Polimio nds) Proconsole e Prefetto in Ascoli per l’Impero Romano, ed Emidio allontanarsi per alquanto di tempo venne fuori dalla Città, seguì Cristanziano fedelmente il suo pastore ed insieme con Lui e con gli altri compagni nelle città convicine andò divulgando il Vangelo e moltissime anime al Cielo rigenerando col S. Battesimo ed allora fu che replicate volte muggire spaventevoli tuoni, a sua richiesta, udissi ed ai suoi cenni si viddero le grandini e le tempeste, secondando Iddio del suo servo i voleri.

6°. Cristanziano fece ritorno di fedele ministro, servendolo in tutte le opere grandi che egli vi fece, né giammai abbandonar lo volle sino al martirio che il prelodato Vescovo, per ordine del barbaro Prefetto, ai 5 di agosto di quell’anno istesso, per amor di Gesù Cristo, con rassegnazione ed intrepidezza sostenne. Pianse tutta la Città (nella maggior parte già convertita) la perdita dell’amante suo Pastore. Ma molto più Cristanziano, sopramodo orfano senza il suo Genitore, ne restò da dolor grave trafitto. Deh perché, con flebil voce esclamava il Santo Levita; perché non sono stato ancor io degno, o mio caro Maestro, di unir col tuo il mio sangue e far di due una vittima sola al Dio di Abramo!? Allorché, poi, fu, con sommo stupore, veduto da tutti quel portentoso miracolo, che subito reciso il capo suo venerando, Emidio fece: di sollevare cioè da se stesso tutto il sagro busto da terra, raccogliere quel capo così troncato fra le sue mani ed indi, per lo spazio di trecento passi, dal luogo del martirio a quello del suo primo sepolcro, prodigiosamente portarlo; allorché, dissi, tutto ciò fu con somma meraviglia osservato, esclamando tutta la innumerevole accorsa di gente, chi per tenerezza di cuore, chi per forte spavento. (….) di Emidio, a turba furiosamente accorsero alla Pretoriana residenza, per trucidare il tiranno se vi fosse trovato, (….) eseguito il Prefetturale Palazzo stupì ed esclamò Cristanziano pur egli è vero; ma servendosi di tale prodigio portentoso più per abbattere l’Idolatria che gl’Idolatri, unito con glia altri suoi condiscepoli Euplo, Valentino, Germano, Benedetto, divenuto tutto zelo, tutto cuore, tutta lingua per l’onor del vero Dio, non può esprimersi quanta conversione Egli fece, quanto più stabilì in Città la vera fede e quanto vero culto di Gesù Cristo rese amplicato ed esteso.

7°. L’anno primo pur anco correva da che Emidio, coronato di celeste palma, se ne era nell’Empiro andato, quando più che mai, fremendo Satanasso per li nuovi e quotidiani progressi del Cristianesimo, suscitò fra quelli Idolatri protervi, che ancora in gran numero erano in Ascoli rimasti, uno spirito così furioso di vendicarsi dé Cristiani novelli, che una furiosa persecuzione suscitarono contro di loro e (…) si era revocato dell’in tutto l’ordine che nel vasto Impero di Roma ai tempi del barbaro Diocleziano era stato vigorosamente emanato, se ne oberarono con grande stupore dé Cristiani gli editti sino negl’anni primi dell’Imperatore Costantino, che alla sua conversione precedettero. Così dunque, spalleggiati vedendo gl’Idolatri sedotti dalla Corte Romana che era in Città di sotto il Prefetto, sfogavano primieramente il loro sdegno contro dé primi due Discepoli di Emidio, voglio dire S.Euplo e S. Germano, ambidue pure Leviti, trucidandoli a pezzi.  Credeano con ciò i sacrileghi di incantare nel cuore invincibile di Cristanziano timidezza e terrore. E così, o per l’uno, o per l’altro verso di guadagnarlo. Quindi, passati pochi (..) dì appena se gli fé di incontro di arditi Idolatri una turma ed alle carte (?), o che per rimuoversi dalla fede di Gesù Cristo, gl’intimarono che ad una cruda morte soggiaccia. Ma andarono delusi! Deh Fratelli, risponde pronto Cristanziano, non potete al certo farmi più cosa grata che la morte offrirmi, questa di buon grado accetto e questa è quella che da ogni tempo sospiro, per autenticarmi con essa infallibil fede di Gesù Cristo. Tanto disse con intrepido (..) il S. Levita ed a terra genuflesso colle mani giunte verso il Cielo forte e costante, aspettando stette dalle barbare spade quei colpi spietati, che già pendenti e fulminanti vedea sopra il suo corpo. E così avvenne, posciacché quei crudeli, senza alcun sentimento di umanità verso di un uomo siì pio e Santo, scaricarono sopra di Lui mille colpi ed impressero in quel sacro corpo mille ferite, tanché con sì fiera carneficina lo privarono di vita. Risentissene tosto il Cielo, mentre a forza di spaventevolissimi tuoni ed orribili lampi, uniti ad un turbine furioso di vento e di grandine; (..) sentimento di gran dolore restonne. Onde, atterriti gli Idolatri prendono per allora precipitosa fuga, ebbero campo i due rimasti Compagni, Valentino e Benedetto, i quali col dare anche essi alcuni anni dopo per la fede la vita, in seguito seguirono l’esempio con altri pii Cristiani di dare sepoltura decente a quel sacro cadavere, deponendolo in quello medesimo, ove gli altri S.Martiri erano stati collocati.

Accadde questo Martirio di S.Cristanziano, in Ascoli, ai 13 di maggio, che è il primo della sua festa, sull’età di circa anno 30, essendo di nostra (salute nds) l’anno 310, sedendo sul Vaticano Eusebio 1° e dell’Impero di Costantino l’anno 5°, correndo il tempo in cui la fiera persecuzione di Diocleziano, come dicemmo, anche durava, rinnovata dal tiranno Massenzio, competitore, ma infelice, dI Costantino predetto. Nell’anno seguente, a dodeci di ottobre (ma è novembre nds.), regendo la Chiesa Cattolica S. Melchiade Papa, IL il s. Levita Benedetto coll’esser decapitato ricevette la corona del martirio, venendo dai Cristiani sepolto a parte, in Ascoli, in un antro dell’antichissimo Castello dell’Isola, ove edificato venne quindi l’antica Chiesa col titolo di S. Pietro in Castello e da cui il sacro corpo fu con pompa solenne traslato ai 12 di settembre del 1683 nella Cattedrale (ove ora dietro l’altare della gran… Vergine Lauretana riposa) dal Purissimo Giuseppe Fadulfi, Vescovo di quel tempo. Sulla fine poi dell’anno secondo di S. Melchiade restò di glorioso martirio anche coronato S.Valentino Levita le di cui sacre reliquie nella stessa grotta al settentrione fuori Città, ove quelle di Emidio, di Euplo, di Germano e di Cristanziano erano state riposte, vennero da Cristiani Ascolani con somma riverenza pur collocate ed ascose.
Dopo di che parecchi anni ascose e quasi dimenticate stettero nella grotta accennata non meno di Cristanziano che degli altri Santi e Martiri le venerabili ossa: e credo io fatto ad arte da quei Cristiani novelli, affine di sottrarle dalle angustie degli empi partitanti del tirannico potere dell’Impero Romano, cioè a dire di Marco Aurelio e Massenzio, il quale in Ascoli veniva assai rispettato, come quegli che vari anni prima vi si era trasferito a far (…) di soldatesca ed a sacrificare alla sua tutelare e bugiarda Ancaria dea, conforme appare dalla tanta nota epigrafe, incisa sulla base di quella statua di bronzo che lasciovvi per voto. E tale fu poi la sopradetta tenuta ed il silenzio intorno al luogo ove le predette sacre reliquie de Santi giacean reposte che ancora per molto tempo dopo, che donata fu alla Cristianità da Costantino Magno la pace universale (stante la vittoria miracolosa dal suo ingiusto competitore Massenzio, nell’anno 312 riportata e la sua conversione prodigiosa alla fede di Gesù Cristo), o fosse per quanche non leggiero sospetto di furto, o trasporto che dalle vere prelodate ossa avvenir potesse, o per altro, non fu punto parlato. Di fatto, allorché il pio Costantino Imperatore a fabricare e dotare a sue spese vari santuari templi in Roma, che fuori, in altre molte Città ad onore del vero Dio e dei Santi suoi venne, si diede tutto e che, giunta anche alle sue orecchie la fama delle grandi opere, virtù e santità del glorioso Martire Emidio primo Vescovo Ascolano, con imperial munificenza, come l’anno 316 di nostra redenzione e dell’impero suo l’undicesimo, ordinò in Ascoli la fabbrica della Chiesa Maggiore (a cui unito e permesso fu alcuni secoli appresso, il titolo di S.Maria), io non trovo che compita la Chiesa, le predette ossa dei Martiri tosto vi fossero trasportate, trovo bensì che il secondo Vescovo Ascolano, S.Claudio (il quale nel 352 fece nel Concilio Ariminense da Segretario) incontrò la sorte di ritrovare ai 26 di marzo nella grotta precennata il sacro corpo di Emidio e dei suoi Santi Discepoli ed a 12 di aprile fece alla Chiesa Cattedrale di tutti la traslazione solenne, venendo poscia ai tempi nostri, cioè nel 1720, nella predetta grotta , al settentrione, fuori Città, edificata dalla grazia e munificenza del non mai abbastanza lodato nostro Vescovo Giovanni Gambi, Patrizio Ravennate di onorevol memoria , la Chiesa che con una nobile e maestosa facciata vi si vede al presente col titolo di S.Emidio alla Grotta.
Egli è certo pertanto che, dopo la traslazione, il corpo di S.Cristanziano, insieme con gli altri, nella Chiesa Maggiore accennata riposa. Così, contestato ancora dall’antico Milanese Catalogo ci viene, ove si dice ‘Sancti Christantiani martyris Asculanae Urbis Patroni, cujus corpus jacet Asculi conditum in majiori Ecclesia”. Lo stesso contestano l’Andreantonelli, il P. Appiani nelle loro Istorie. In che sito poi della Cattedrale restano collocate le sacre reliquie del Santo, io per me non ho punto dubbio di asserire francamente che, nel sotterraneo (della) Chiesa meravigliosa del detto Duomo, entro quell’arca di marmo cinta di cancellate di ferro riposino e tutto il più valido fondamento mel somministra quell’antichissima epistrofe che ivi scolpita si legge: “ Cun sociis aliis Emigdius hic requiescit”, giacché non meno Euplo, Geramno e Valentino, le di cui sacre reliquie ivi poste riposano con Cristanziano, furono del grande Emidio compagni. E certamente se del Martire S.Benedetto non si avesse a parte la sacra urna, dir si dovrebbe lo stesso. Infatti, allorché nel 1753, agli otto di novembre, coll’assistenza del Vescovo, del Capitolo e del Magistrato, riaperta fu quella venerabile arca e vi furono entro ritrovate più casse incavate in legno (e) di una carta pergamena, ove in carattere antichissimo non molto leggibile erano scritti i nomi di tutti quelli Sacerdoti ed altri soggetti principali che alla traslazione e deposizione erano solennemente intervenuti (la cui carta quasi altra pregiata reliquia nell’Archivio della Cattedrale conservasi). In una di dette casse furvi trovato il solo sacro corpo del S. Vescovo Emidio, mancante del braccio destro , che né secoli addietro era stato dalla cassa estratto, per formare quella reliquia insigne che nella Cattedrale sovente si espone. Nelle altre casse poi ripartite si viddero le sacre ossa non solo degli altri quattro Santi Martiri suoi compagni, ma di altri ancora varii e persino di alcuni fanciulli. Lo che a quei che dell’Ascolana istoria erano poco o nulla intendenti, cagionò non poco stupore e meraviglia insieme.
Per altro io non dico che potevano essi persuadersi che dentro quelle venerabili casse vi stessero depositate le reliquie della nostra antichissima Vergine e Martire S. Veneranda, la quale, unitamente con gli altri 995 cittadini suoi Ascolani, fu(rono) in Città, a 14 di novembre, martirizzati, perciocché eziandio tutto questo stuolo di Martiri in quel sotterraneo stesso riposa insieme al sacro corpo del nostro S. Antimo Martire e collettore delle sacre ossa dé Martiri, non erano nulla di meno quelle casse, né tutta l’arca istessa capaci a racchiudere si numerosi tesori. Oltre di che, essendo detti Martiri i primi trionfi della fede nella nostra Città (in cui da 166 anni prima della venuta di Emidio, ne era stato portato qualche lume, senza sapersi precisamente da chi, tutto che affatto estinto il S. Pastore il trovasse) mentre essi riportarono la palma nell’anno 140 di nostra salute, correndo l’anno secondo di Antonino Pio Imperatore e sotto il tiranno Asclepio, prefetto della Città e Procuratore del Piceno per l’Impero Romano: perciò i primi santi corpi furono ancora, che appena edificato il Duomo vi venissero traslati. Anzi, neppur asserir voglio che immaginar si potevano e riportar entro quell’arca le adorabili ossa dell’altro nostro Martire S.Agostino Eremita, le quali tutto che nella Chiesa sotterranea medesima pur sono riposte; niente di meno il glorioso Martirio di detto Santo fu assai posteriore all’invenzione delle sacre spoglie di Emidio e dei suoi Compagni, per essere avvenuto in Città nell’anno 179 (? Evidente svista del copista), in tempo della desolazione e strage e fierissima fattavi dà Longobardi, sotto la condotta di Faroaldo.
Dir voglio soltanto che tutto lo stupore sul come in quell’arca depositate vi fossero tante ossa dé Martiri, sin dé fanciulli e come verificar si potee il senso dell’epigrafe: “Emigdius cum sociis hic requiescit”, costare affatto doveva, se riflettevasi, che la fiera persecuzione eccitassi in Ascoli da Polimio Prefetto e Procuratore del Piceno sotto l’Impero di Diocleziano e di Massimiano, Massimo (?) e Massenzio, esecutori ferali degli inumani decreti di Diocleziano predetto, non finì già in Emidio solo e nei suoi Leviti, ma su di tutti quei Cristiani si estese, i quali del S.Pastore, ubbidienti figli addivenuti erano e fedeli seguaci, tornato il Prefetto in Città nelle sue corti dopo la diroccazione eseguita del suo Pretoriano Palazzo, (che sull’ eminenza della Città, ove ora è il convento della SS.Nunziata dé Nobili RR.PP. Minori Osservanti, maestoso di marmi, di pitture, di archi, di colonnate e di 150 porte situato giacea), durò a fare per più anni una fuga così crudele de Cristiani, che non fu in essa perdonato ad età, né a condizione, né a sesso. Lasciocci questa memoria S.Valentino, che alcuni mesi prima del suo morire scrivendone al Pontefice S.Melchiade con siffatte tenerissime parole si espresse: “Quaevis lingua explicare potest damna, exilia, contumelias, praescriptiones, cedas (?) capitales sententias et alia genera tormentorum quae Christianae fidei cultores apud nos patiuntur? Quid immemor? Inter iniuria saxa latebras quae ferorum vitam ducimus mortalium fere omnium praesidio destituti. Aperiamur enim omnibusque modis affligimimur, sed laus Omnipotenti: mori prius multitudo decreti Christianorum quem obedire crudelium Tyrannorum”. Onde credesi dovea, piuttosto, con tutto il fondamento che varii corpi di questi Martiri venissero nascosti, come già avvenne nelle grotte sopraccennate insieme con quei di Emidio e di Cristanziano e degli altri suoi Compagni ed unitamente poi dal nostro Vescovo S.Claudio ritrovati, trasportati fossero al Duomo ed entro quell’arca di marmo, nella chiesa sotterranea ripartiti in più casse di forte legno, rimanessero devotamente depositate. Lo stupore intanto dovea solo riserbarsi per rimirare dall’un canto la fonte ed invincibile costanza di tante migliaia di nostri SS. Cittadini martirizzati, una picciola porzione era nell’arca e per divenire dall’altro più fervidi e premurosi nella sola pietà dei Cristiani, dopo si grande esempio lasciatocene da tanti nostri antenati, del cui venerabile sangue essendo già asperso ed insuppato il suolo tutto della Chiesa e del suo contorno, nel calpestar noi Ascolani tal santissimo terreno pianger dovessimo in baciandolo con tenerezza e confessar sinceramente che ‘Sanguis Martirum nostrum dum quotidie apud Deum interpellat pro nobis clamore, ad nos de terra non cessat strenue strenus eorum vestigia segnamur’. Essendo purtroppo vero che, se questo sangue di tanti nostri Martiri non cessa da una parte di giornalmente implorare su di noi e della Città divina misericordia dal Clementissimo Iddio, neppure cessa dall’altra di rammentarci ogni giorno l’imitazione possibile delle loro virtù ed in particolare della fede, della pietà, dello zelo e della intrepida costanza nell’adempimento spirituale della Legge santissima di Nostro Signor Gesù Cristo.
Ma, per tornare al nostro Martire, descritta già la sua disposizione, ad enunciare resta quanto in Lui Iddio glorificato si abbia e tuttavia si glorifica. Raccorre tutto ciò ben si può ad evidenza dall’ossequiosissimo culto, che sin dai secoli più remoti hanno al Santo prestato e tuttora gli prestano tanti (..) e tanti Popoli diversi, come pure dalla protezione meravigliosa che sempre mai sperimentata ne hanno specialmente contro le grandini ed altre turbinose tempeste e contro le guerre e le civili discordie la Città di Ascoli, sua patria, siccome la prima fu che del suo singolar patrocinio ne provò più volte gli effetti miracolosi, così la prima fu ad onorarlo fra i suoi segnalati Protettori.
Trovavasi la Città nell’anno 409 fortemente assediata dal crudele gotico re Alarico, con un forte esercito di Goti e di Vandali e con replicate minacce di essere posta a ferro e fuoco a guisa di tante altre infelici Città della Lombardia, Liguria, Romagna e del Piceno e non meno pietosamente di quello a cui essa miseramente soggiacque la prima volta nell’anno 664 di Roma, a dire 83 anni innanzi all’era volgare per eccesso di barbarie di Eneo Pompeio Strabone, superbo e vittorioso duce dei Romani. Stavano, dunque, poco meno che disperati di poter più lungamente sostenere gli assedi Ascolani sfortunati Cristiani. Quando eccoti, dopo varie preci devote al Cielo inviate, comparire in aria all’improvviso sopra le porte chiuse della Città il nostro amatissimo Martire S. Cristanziano, in abito di Diacono, che insieme col gran Padre Emidio e con folto stuolo di altri moltissimi Martiri, avendo ciascuno alla destra una spada di fiamme, pose in fuga precipitosa gli assalitori, ridonò agli amati suoi concittadini il coraggio ed alla prediletta sua patria la libertà e la vittoria.
Non meno luttuoso e tragico fu similmente lo stato in cui trovasi (per )Ascoli sulla fine dell’undecimo secolo, per le ostinate guerre civili e discordie intestine fra cittadini Repubblicani, per cui, ogni dì , le strade asperse erano di sangue e ben spesso ricoverte di morti. Saggio consiglio fu del piissimo Vescovo di quei tempi, chiamato Stefano, di intimare una persecuzione ( =processione nds.) divota di penitenza, onde placare l’ira di Dio ed implorare la di Lui misericordia. Incominciatasi la suddetta, ecco in alto apparire tutto visibile S.Cristanziano, in abito pur di Levita, che unitamente con Emidio e con gli altri Beati Consocii, benedicendo il popolo tutto, che a quella vista genuflesso a terra, divotamente piangea pietà ciascuno, chiedendo dei fatti suoi, con un sonoro e dolce ‘Pax vobis’ a tutti, diede il bel saluto di riuscire capace per la riunione e per la pace, la quale fu immediatamente fra i cittadini tutti ristabilita.
Quante poi siano state le volte che la Città risperimentato l’abbia prodigioso e propizio contro le grandini e turbini ed altri rovinosi nembi, chi mai può ridirlo? Che però, in attestato di grata riconoscenza verso di un Santo così potente nel proteggere la cara Padria e così nel soccorrerla, pronto e premuroso, oltre all’averlo essa con special maniera eletto da molto tempo per uno dei suoi prediletti Tutelari, conserva sino ad oggi inviolabile lo stile di secoli di contradistinguersi, cioè, il giorno festivo di Cristanziano con una devota processione, la quale, resa maestosa dall’intervento in corpo si del Reverendissimo Capitolo, che dell’Illustrissimo Magistrato, partendo in questa mattina dal Duomo, si porta fino alla Chiesa Parrocchiale dé SS. Vittore ed Eusebio, ove si suppone che fosse il luogo dove il Santo colse la palma del Glorioso Martirio.
Con simil culto nella Lombardia e specialmente nella Città di Lodi, il nostro inclito Martire vien venerato. L’illustre Città di Abruzzo Citra, tutta pia ed ossequiosa verso del Santo (chiaro riferimento ad Agnone nds.) come uno dei suoi principali Protettori, lo invoca e lo riconosce. La Terra baronale di Maltignano, che sotto l’assoluto dominio vive del nobile Ascolano Capitolo, il giorno di S.Cristanziano, come festivo di precetto, lo solennizza, perché è primario suo Protettore, ne canta la Messa solenne nel di Lui altare e di Vespri solenni nella vigilia e con due processioni e ben spesso con panegirico e con varie altre dimostrazioni di pio giubilo contesta ogni anno al numeroso stuolo dei forastieri concorso qual sia la tenera divozione, che da più secoli professa, non senza celeste rimembranza verso del Santo. Con divote processioni vien parimenti onorato il Santo nell’antica Portella, Castello, ora Villa del nostro Stato Ascolano, per essere pure particolare Protettore. Ed in consimile guisa il giorno consacrato al Santo si festeggia in tanti altri luoghi e vari castelli dell’Ascolano dominio, i quali sovente ne provarono del valoroso suo Patrocinio i mirabili effetti.
Risplendono, infatti, nel nostro celeste Eroe molte prerogative, per cui degno si rende dé nostri ossequi. Una però ne possiede fra le altre, le quali costituendo la sua caratteristica propria tra i beati comprensori del Cielo a venerarlo ci sprona, con qualche distinzione qui in terra. Egli è per certo che tutto che bastevole sia ogni Santo a difenderne di ogni qualunque disgrazia ed a soccorrerci in qualche bisogno ha nulladimeno voluto il sapiente Iddio, come osserva l’Angelico ( riferimento a San Tommaso nds..) à Santi suoi compartire in un certo modo i patrocini: a chi concedendo su di una cosa un particolar potere ed a chi su di un’altra. E ciò credo io affinché sotto qualche particolarità ciascun riconosciuto fosse ed onorato nel mondo. Quindi vediamo che al nostro gran Padre Emidio, a cagion d’esempio, accordato viene dall’Altissimo un meraviglioso potere sopra dé tremuoti, talché dopo circa 14 secoli e mezzo che su gli altari si adora, memoria non v’è al certo che verun Ascolano, né altro qualsivoglia, il quale in occasione di tremuoto abbia seco avuto la sacra immagine sua, oppure l’abbia invocato in soccorso, perito mai eziandio sia tra le ruine dell’edificio sia talora osservato. Così all’altro nostro concittadino, Don Corrado Migliani francescano, sopra il malor della podagra. Alla Gloriosa e Martire Tessalonicense S. Irena sopra dé fulmini, essendo in ciò veramente mirabile, operando essa rispetto al patrocinio suo, quel tanto che riguardo al suo il grande Emidio esercita. Ed in simil guisa al altri Santi e moltissimi noi pur troviamo i loro patrocinii particolari da Dio conceduti.
Il potere singolare poi sopra le grandini e gli altri turbini desolatori delle campagne, come pure sopra le guerre ed altre civili discordie sterminatrici delle famiglie; della lunga immemorabile familiare esperienza siam tutti certi che si è degnato il Clementissimo S. Cristanziano, affinché sotto questo distintivo venisse conosciuto dà Popoli e riverito. Ognuno vede intanto se quanto necessaria e vantaggiosa sia la protezione per placare l’ira di Dio, che così spesso ci flagella, benché troppo giustamente per le nostre colpe, or colla grandine ed altri turbini, or colle guerre ed altre domestiche discordie. Che perciò ogni Regno, ogni Città, ogni Luogo, anziché ogni casa, ogni privata persona, provveder si dovrebbe di un tanto protettore, con solennizzazione, con ispecial apparecchio la festa ed acquistarselo con gli altri ossequi divoti per prediletto avvocato. Quindi non potendo io meglio, penso chiudere questo Ristretto di Vita che coll’aggiungere qui il suo Responsorio, il quale ad onor suo nel dì della festa, o nelle sere del Triduo, Novena ed altro tempo, o bisogno specialmente in occasione di grandine e di discordie in privato, od in comune recitar si potrebbe solamente e con pompa.
RESPONSORIUM

Sancti Christantiani Martyris et Levitae Asculani.

Si pacem quadri Civium/Christantianum invocat:/ignis, grando litigia/ad ejus nomen fugiunt./O Christi Martyr inclite,/Nobis, qui tuis precibus/ mente devota fidimus/E, a succurre protinet/ pax firma redit animis/ agri fiunt incolumes/ cedit procellae spiritus/ Christantiani nomine. / O Christi Martyr incliti, etc./ Gloria Patri et Filio et Spititus Sancto/ O Christi Martyr incliti, etc.

Domine, martirii et precibus Beati Christantiani. R. Ab ira grandine et tempestate libera nos, Domine Deus noster. Oremus: Deus qui culpa offendens poenitentia placaris preces populi tui supplicanti propitius respice et, intercedente Beato Christantiano martire tuo, flagella tiae iracundiae, quae pro peccartis nostris meremur, averte. Per Dominum nostrum. Die xiij maij. In festo S.Christantiani Diaconi Martyris. Patroni principalis Civitatis Angloni, nec non Terrae Casalium Cipranorum.”

 

NOTA CRITICO-BIBLIOGRAFICA

I miei precedenti e parziali interventi sul tema Cristanziano sono stati resi noti on line nel sito internet ‘Sant’Emidio nel Mondo.com’, con i seguenti titoli: Crsitanziano diacono e martire di Ascoli: figlio di un errore agiografico?: Da Ascoli ad Agnone. Sulle tracce di San Cristanziano. Nel medesimo sito internet si trovano anche le mie due recensioni alle recenti opere di Valter Laudadio: Sancti Migdii Legenda. Contesto storico-testi. Bibliotheca Capitularis, 1.I. Gruppo FAS, Ascoli Piceno, 2018; Officium Sancti Emigdii. Le fonti liturgico-musicali (con contributo di G. Baroffio), Bibliotheca Capitularis 1:II. Gruppo FAS, Ascoli Piceno 2019.

Nei miei commenti a questi due fondamentali contributi, tra l’altro, ho affrontato il problema del rapporto storico-agiografico di Cristanziano con il vescovo Emidio, che nella tradizione ascolana (si veda oltre) è colui che lo consacra diacono in Ascoli stessa e che lo precede nel martirio: Sant’Emidio nella storia. La lezione di Valter Laudadio; Emidio liturgico. Il nuovo studio di Valter Laudadio. Il mio interesse per Cristanziano muove proprio dalle riflessioni sulla storia di Emidio e del suo culto. Egli, come è noto, diventa figura agiografica popolarissima nel Mezzogiorno italiano quale protettore contro i terremoti, a partire dai gravissimi parossismi del 1703 e seguenti. Cfr. I terremoti e il culto di sant’Emidio, a cura di A.A.Varrasso, Chieti, Vecchio Faggio Ed. 1989.

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Per la storia di Palena ed altri insediamenti religiosi titolati a Cristanziano ed il rapporto con Agnone.

Palena vuole essere al centro di questo intervento. Per intanto precisiamo che il testo del documento dell’anno 1065, riprodotto in Appendice, è in Italia sacra sive de episcopis Italiae et insularum adiacentium, tomus sextus (…). Auctore Ferdinando Ughellio (…). Editio secunda aucta et emendata cura et studio Nicolai Coleti (..), Venetiis 1720, coll. 678-679. E si veda, per questo, anche la prima edizione della stessa Italia Sacra, Roma 1659. Tra le due trasposizioni non vi sono differenze di sorta, nemmeno nella punteggiatura.

Circa la realtà storiografica di questo Centro peligno, a parte il noto contributo dell’Antinori, sia presso la Corografia manoscritta (presso la Biblioteca ‘S.Tommasi’ di L’Aquila) VOL. 36, passim , che negli Annali degli Abruzzi, per l’età medievale si deve fare riferimento al pur datato, ma insuperato lavoro di Giuseppe Celidonio, in quattro volumi, La diocesi di Valva e Sulmona (nel caso nostro si tengano presenti i voll. II, III, IV): La diocesi di Valva e Sulmona dal 492 al 1100 (anastatica Sulmona 1993): La diocesi di Valva e Sulmona dal 1100 al 1200 (anastatica Sulmona, 1995); La diocesi di Valva e Sulmona dal 1200 al 1300 (anastatica s.d., ma Sulmona post 1995). Si veda ache M. Comi, Palena nel corso dei secoli, Sulmona 1977 (riedito da Bastogi, Foggia 2003), dal quale, però, quasi nulla se ne ricava circa la presenza di Cristanziano a Plena. Di un qualche interesse storiografico, al di là del taglio eminentemente agiografico, è il Compendio della vita e miracoli del glorioso S.Falco eremita, protettore della Città di Palena, colla novena. Compilato per cura del Canonico cesare Falcocchio, Napoli 1817, che offre diverse notizie storiche nell’apparato delle note al testo.

Non è stato particolarmente studiato il problema dell’incastellamento di Palena, che avviene, però, in un territorio che eredita, tra i secoli XI-XII, un assetto insediativo rilevante di età romana ed anche anteriore. Non mancano contributi, però, che, sia pure indirettamente, specialmente in ambito archeologico, evidenziano questo aspetto costitutivo della realtà ambientale locale. Per il fenomeno generale uno dei riferimenti obbligati è costituito dal Cap. VI. L’incastellamento, alle pp. 211-306 del vasto lavoro di L. Feller, Les Abruzzes médiévales. Territoire, économie et société en Italie centrale du IX eau XIIe siècle. Ecole Francaise de Rome, 1998. Fa ancora testo nella letteratura scientifica la differenziata produzione di C. Wickham, Studi sulla società degli Appennini nell’alto medioevo. Contadini, signori e insediamenti nel territorio di Valva (Sulmona). Quaderni del centro studi Sorelle Clarke, 2, Bologna 1982; Id., Il problema dell’incastellamento nell’Italia centrale: l’esempio do S.Vincenzo al Volturno. Studi sulla società degli Appenninbi nell’ato medioevo. II. Firenze 1985. Per l’eredità italica e romana del territorio palenese e aventino-sangrino mi sono stati utili i contributi di L.Tulipani, Juvanum e il suo territorio in età tado-antica e medievale: alcuni spunti di riflessione, in Iuvanum. L’area archeologica (S.La penna – P. Staffilani), Synapsi 2006; S. Cimini, Note di topografia medievale tra Sangro e Aventino: presenze monastiche e organizzazione del territorio, in Quaderni di Archeologia d’Abruzzo. Notiziario della soprintendenza per i beni archeologici di Abruzzo, 3, 2011, pp.37-58; G. Colonna, Ancora su Pallanum, il suo territorio e le antiche vie tra sangro e Sinello, in Quaderni di Archeologia d’Abruzzo, 2, 2010, All’Insegna del Giglio, Firenze 2012, pp. 175-202.

Ho soltanto evocato per Palena la presenza dell’importante insediamento francescano osservante del convento di Sant’Antonio di Padova, che insiste fisicamente nel casale di San Cristanziano, per cui si veda, ma con scarse informazioni, P.Nicola Petrone Ofm.Conv., Francescanesimo in Abruzzo. Dalle origini ai nostri giorni, Biblioteca Tommasiana, Tagliacozzo 2000. E’ altresì noto che in Palena insisteva un altro convento, dedicato a San Francesco, con relativa chiesa monumentale, di seguito abbandonato, mentre quello osservante subì la soppressione dello Stato Italiano nel 1866. Scontato è tornare a sottolineare l’importanza del recupero della documentazione conventuale degli Osservanti, insediati dal 1537 e seguenti. Debbo queste informazioni al P. Carmine Serpetti Ofm. di San Giuliano di L’Aquila, che ha in animo la realizzazione di una monografia storica sul convento di Sant’Antonio.

Sugli insediamenti ecclesiastici in Palena, con le sue numerose chiese, va richiamata l’insostituibile fonte storico-statistica delle Rationes Decimarum Italiae. Aprutium – Molisium. Le decime dei secoli XIII-XIV, a cura di Pietro Sella. Città del Vaticano (Studi e Testi n. 69), 1936, di cui ho fatto largo uso per tutte le località contraddistinte da un insediamento dedicato a Cristanziano: Archiano, Roccascalegna, San Martino sulla Marrucina e, per altri versi, anche Agnone.

Per Archiano, in particolare, va segnalata una documentazione inedita, illustrata da M. Tedeschi, Monasteri dell’Abruzzo adriatico: un dossier documentario (1019-1065), in Mélanges de l’Ecole francaise de Rome. Moyen Age, n. 128.2, Roma 2016, utile, tra l’altro, per l’identificazione di Santo Stefano in Lucana. L’Autore, che, tra gli altri, pubblica due documenti, del luglio 1019 e aprile 1024, concernenti Archiano, indica l’insediamento nell’ “odierno colle Archiano, casale Archiano, a sud di Tornareccio, in prossimità della frazione San Giovanni”. Più stretti rapporti con questa località ebbe più tardi il monastero cistercense dei SS.Vito e Salvo (San Salvo,Chieti), per cui vedasi anche A.Faustoferri e D.Aquilano, La “Fabbrica” dei santi Vito e Salvo, in Cantieri e maestranze nell’Italia medievale. Atti del Convegno di studio Chieti-San Salvo, 16-18 maggio 2008, a cura di M.C.Somma. CISAM, Spoleto 2010, pp. 135-156. Ma il riferimento alla chiesa di San Cristanziano, citata nelle predette Rationes decimarum, è in Septem dioeceses aprutienses medii aevi in vaticano tabulario (..) cura et studio Francisci Savini, Roma 1012, doc. n. 140. Qui si parla di pertinenze di Atessa e della chiesa di San Cristanziano quale parrocchiale. Il che potrebbe ricondurci a Palena stessa, mentre Archiano è feudo particolare dell’Università atessana. Proprio le Rationes, però, mi inducono a ritenere che si trattasse di una chiesa di competenza atessana. E dal momento che, tra le altre, anche quella di San Cristanziano fece capo al monastero di San Vito al Trigno, è utilissimo, a questo riguardo, l’articolo di R.Paciocco, I monasteri cistercensi in Abruzzo: le linee generali di uno sviluppo (fine sec. XII – inizi sec. XIV), in I cistercensi nel Mezzogiorno medievale. Atti del convegno internazionale di studi in occasione del IX Centenario della nascita di San Bernardo di Clairvaux (Martiano-Latiano-Lecce, 25-27 febbraio 1991), a cura di H. Houben e B. Vetere, Lecce 1994, pp. 205-242. Devo un sentito ringraziamento alla Prof.a Adele Cicchitti di Atessa per i preziosi riscontri, anche se negativi, operati per mio conto sulla documentazione atessana, di cui è esperta conoscitrice e per ulteriori consigli di ricerca che ha inteso offrimi.

Ancora a Roccascalegna la chiesa di San Cristanziano nelle Rationes è dipendente dal monastero del Trigno, ma questo dovette costituire un passaggio più recente, mentre il monastero di San Pancrazio, che deteneva la chiesa, successivamente, con i beni di Santo Stefano in Lucana, potrebbe collegarsi ulteriormente con San Giovanni in Venere, per cui si veda G.M. Bellini, Notizie storiche del celebre monastero benedettino di San Giovannoi in Venere con note e documenti e tre dissertazioni inedite dell’abate Pietro Pollidodo, Lanciano 1887; V. Bindi, Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, Napoli 1889. Il caso, invece, di San Martino sulla Marrucina, analogamente segnalato nelle Rationes Decimarum abruzzesi, è ripreso in una pubblicazione monografica recente: M.Pantalone, San Martino, Terra marrucina, Roma Geti, 2015-2021. In cui però il passaggio circa Cristanziano, che ho conosciuto per gentilezza dell’Autore preventivamente, è semplicemente ricognitivo. Tuttavia un indizio sulla locale origine del culto potrebbe essere rappresentato dalla presenza quali feudatari locali dei de Sabran, di origine francese, già presenti in Agnone ad inizio Trecento e che con Elizario riuscirono anche ad occupare la carica vescovile teatina (Eleazario de Sabrano: 1373-1378). In ogni caso la chiesa locale di san Cristanziano sembra più antica di tale epoca. Già nel 1314 i de Sabran, con Guglielmo, sono signori di Agnone e nel 1331 vengono citati, quali feudatari, tra le altre terre, di quella di San Martino. Per questo si veda Carlo De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, parte prima, Napoli 1654, pp. 157-164, che sembra la più accreditata ricostruzione genealogica della famiglia. Ma, ripeto, il caso andrebbe ben più approfondito, anche alla luce degli eventuali contatti con gli Ascolani, così ben attestati in Agnone tra Due e Trecento, giacché in San Martino l’iconografia del santo è chiaramente ispirata alla tradizione ascolana ancora oggi.

 

 

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Il caso agnonese risulta veramente emblematico nel contesto di una vicenda locale illustrata per l’altomedioevo da notevoli documenti, sotto l’aspetto civile, politico, religioso e sociale. La storia di Agnone tra i secoli XI-XII e oltre si intreccia fortemente con quella dei Borrello, che hanno un ruolo fondamentale in area alto molisana e lungo il Sangro-Aventino. Attraverso questa famiglia,di cui discuto meglio più oltre in queste note, verosimilmente di origine longobarda, discendente dai conti di Valva, le due realtà di Agnone e Palena entrano in diretto e stretto contatto, con effetti importanti sul piano della storia del culto di san Cristanziano, ancora in gran parte da rilevare e valutare. Già qui è utile segnalare la fondamentale raccolta documentaria di Erasmo Gattola, che concerne l’abbazia di Montecassino, attraverso la dipendenza molisana di San Pietro Avellana, fondazione borrelliana degli anni ’20 del sec. XI, donata ai Cassinesi dagli stessi fondatori e poi, di volta in volta, incrementata di beni, sempre dai Borrello: Historia abbatiae cassinensis per saeculorum seriem distribuita (…) studio et labore D. Erasmi Gattula. Voll. 2, Venetiis 1733; Ad historiam abbatiae cassinensis accessiones (..) cura et labore D.Erasmi Gattola, voll. 2, Venetiis 1734. La gran parte dei documenti concernenti Agnone e i Borrello provengono da questa fondamentale trasposizione a stampa settecentesca. Sulla documentazione originale superstite, invece, si veda Abbazia di Montecassino. I regesti dell’Archivio. II, (Aula iii: capsule VIII-XXIII), a cura di Tommaso Leccisotti, Roma 1965. Giova ricordare che in Agnone, tra le numerose chiese, non si enumera alcun tempio dedicato a Cristanziano. Eppure il santo, successivamente, assurse al ruolo di ‘patronus civitatis’, come meglio si dirà. Non ci sono note le origini effettive del culto cristanzianeo, che sono certamente più antiche di quanto si potrebbe pensare, alla luce dei dati stessi di Palena, ove i Borrello sono pienamente coinvolti fin dal 1065. Spicca, poi, ‘imponente, come dico oltre, la vicenda particolare di San Marco Evangelista, titolare della principale chiesa agnonese, patrono riconosciuto del Paese almeno per tutto il Quattrocento, se non oltre. La cui vicenda fondativa è avvolta, anch’essa, nella leggenda, che non è mai stata oggetto di uno studio rigoroso. Ed è un racconto ‘favolistico’, questo, in cui la storia ha pure la sua parte, ripreso da N. Pietravale, in maniera assolutamente acritica, in Ori e argenti di Agnone, Ed. De Luna, 1994, pp. 25-31, allorché al cap. 1°: Eredità di Venezia nell’oreficeria di Agnone: il reliquiario-ostensorio di S.Marco Evangelista, ne tratta, senza il benché minimo ausilio documentario. Importante, anche per la storia del più antico patronato cittadino in Agnone di San Marco Evangelista gli Statuti e Capitoli della terra di Agnone, testo originale ora per la prima volta pubblicato con introduzione, traduzione e note di Filippo La Gamba, Athena Mediterranea ed., Napoli 1972. Ancora nel 1444, infatti, il santo di Venezia è il Patrono cittadino: “ cujus clipeo patrocinioque terra ipsa tuetur” (Ivi, p. 27).

Va, inoltre, già qui segnalata per la storia cittadina un’opera relativamente recente, che vorrebbe essere di vasto respiro, ma che si risolve quantomeno in una narrazione compilativa, priva di un reale orizzonte storiografico e, soprattutto, di una necessaria riflessione sulla vicenda storiografica locale, almeno per gli ultimi due secoli. Mi riferisco a Agnone nella memoria, in ben quattro volumi, di Cristian e Antonio Arduino, Agnone, Editore Cristian Arduino, 2003 e, particolarmente, ai voll. 1° e 4°, rispettivamente, con il sottotitolo ‘Dalle radici al razionalismo. Origini – 1799’ e ‘I testi e le fonti monumentali: chiese, palazzi e monumenti’, che più direttamente interessano il tema che ci preme. Il criterio ricostruttivo della storia cittadina vorrebbe essere di tipo, diciamo latamente annalistico, ma l’assoluta carenza di critica documentaria lascia al buio chiunque volesse prudentemente avvicinarsi ad una analisi storiografica della produzione culturale agnonese degli ultimi tre secoli, in una pur nutrita e accennata serie documentaria, antica e moderna, ma mai esposta con precisione e rigore.

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La discussione storiografica in Ascoli Piceno.

In Ascoli Piceno Cristanziano, stando ai dati storici fin qui raccolti, evoca il complesso della storia cittadina, istituzionale, religiosa e civile, almeno per tutto il secolo decimo quarto. Resta fortemente condizionante per l’intera ricerca il pronunciamento settecentesco sul santo , con la sostanziale irreperibilità delle fonti stesse, almeno le più importanti, che il racconto evoca. Al di là del caso di Maltignano, ancora troppo poco studiato, non vi sono chiese in Città e nel Contado dedicate a Cristanziano, mentre è presente una relativa iconografia, almeno a Paggese e Lisciano, probabilmente non più antica del secolo XV. Ma, anche in questo senso, la ricerca fin qui condotta appare , direi necessariamente, frammentata e parziale. Gli studiosi, la élite intellettuale ‘antica’ di Ascoli che ha perlomeno accennato a Cristanziano è della piena età moderna. Possiamo citare Sebastiano Andreantonelli, Historiae asculanae libri IV, Padova 1673, libro uscito postumo. Ne ha pure brevemente accennato Paolo Antonio Appiani, Vita di S.Emidio vescovo di Ascoli (..), Roma 1704 (due edizioni). Resta, invece, significativo, a mio avviso anche a livello testimoniale, il testo figurativo del 1514 di Cola dell’Amatrice, che dipinse Cristanziano, con altri santi, su evidente sollecitazione pubblica e verosimilmente municipale, come recita lo stesso testo epigrafico posto al di sotto della Tavola di San Vittore. E questo indubitabile dato si ricollega alla tradizione statutaria comunale, almeno nelle sue fasi trecentesche, ma con inevitabile retroscena duecentesco, per cui si veda M.E.Grelli, “De festis celebrandis”. Sacro e profano nel Trecento ascolano: calendario, riti e persone”, in Atti del V Convegno di studi sui giochi storici: “Segni, simboli, spazi e colori della festa mondana medievale, Ascoli Piceno, 4-5 maggio 1996, pp. 133-154. Ringrazio, inoltre, l’Autrice per le preziose informazioni fornitemi circa la menzione quattrocentesca di Cristanziano nello Statuto inedito del castello di Portella (In Archivio Storico Diocesano di Ascoli Piceno), luogo al quale si riferisce lo stesso Marcucci nel suo componimento su Cristanziano. E’ noto, altresì, che, al di là della tradizione latina dello Statuto Comunale ascolano, il riferimento a Cristanziano, nel testo volgare a stampa tardo quattrocentesco non è più presente, mentre permane quello a Benedetto martire. Ci sarà una ragione! Cristanziano quale patrono cittadino è menzionato nello Statuto municipale di Maltignano, insieme a Ilario e Filippo. Lo è, altresì, in quello di Monsampolo, del 1576, benchè ivi si invochino anche i santi Pietro e Paolo. Si veda per questo G.Mariani, Statuti comunali del Piceno nei secoli XIV – XVIII. Regesti illustrati. Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, 2018.

Ma il più tenace assertore e difensore dell’ascolano Cristanziano, compagno di sant’Emidio proto vescovo diocesano, è Francesco Antonio Marcucci, il quale, come dicevo nel testo, si fece garante della storicità del santo – e per la verità non solo di Lui – almeno in due interventi documentati, diciamo pubblici. Il primo, nel 1754, a Maltignano, allorché vi tenne il panegirico in onore del santo patrono nel giorno della sua festa, il 13 maggio e poi indirizzando alo vescovo Pitocco di Trivento un ‘Ristretto’ della vita del santo stesso, nell’aprile 1758, con chiari intenti propagandistici. Quest’ultimo scritto, che può leggersi in Appendice a questo lavoro, in copia verosimilmente ottocentesca, è stato reperito presso l’archivio parrocchiale di San Marco di Agnone, conservatovi in fotocopia abbastanza recente, e reca il seguente titolo: “Alcune notizie intorno alla vita del glorioso martire S.Cristanziano. Francesco Antonio Marcucci. Ascoli, 29 aprile 1758. Dedicato a Mons. Giuseppe Pitocco, napoletano, vescovo di Trivento nel 1757, morto a Napoli 1771”. Il titolo, come si vede, è opera, verosimilmente, del copista, mentre nella allegata lettera del Marcucci al vescovo Pitocco, l’ ‘abate ascolano’ così, tra l’altro, scrive: “Un siffatto compendio affin maggiormente infervorasse verso la devozione del Santo la Città di Agnone, di cui ne è speciale protettore, compilare ho voluto con animo di presentarglielo per le mani di V. (E.) Ill.ma come di suo Pastore premuroso e zelante del suo maggior bene” . L’originale di tale componimento doveva necessariamente trovarsi presso il destinatario, ovvero la Curia Vescovile di Trivento. Fin qui non è stato possibile rintracciarlo. E’ prevista la pubblicazione integrale di questo testo nell’ambito di un lavoro dedicato ad Agnone.

Nell’opera maggiore del Marcucci, Saggio delle cose ascolane e dei vescovi di Ascoli nel Piceno pubblicato da un abate ascolano, Teramo 1766, allorché diffusamente l’Autore tratta del vescovo Emidio, diversi sono i richiami ai suoi Soci e, quindi, anche a Cristanziano; richiami evidentemente, nel caso specifico, già da tempo elaborati. Circa le fonti accreditate dal Marcucci è significativo riscontrare il parere di Giacinto Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli artisti della Città di Ascoli nel Piceno, Ascoli 1820, il quale sembra riferire che in Città non si desse molto credito alle assertive del Marcucci intorno all’ antica opera, da lui stesso invocata, di Lino Diacono, che sarebbe vissuto nel secolo XII. Il discorso marcucciano, però, ebbe indubbiamente una forte presa sugli Ascolani, per quanto del tutto sprovveduti sulle pretese fonti storiche addotte dal loro illustre storiografo e che coinvolgevano anche altre figure ‘minori’ di santi, oltre a Cristanziano. Così sembra di poter cogliere nelle parole di Giuseppe Ignazio Ciannavei, che cita espressamente il Marcucci proprio a proposito di Cristanziano: “Il nostro Abbate appoggiato da antichissimi manoscritti riferisce il di lui martirio accaduto li 13 maggio nel 310 nella contrada Ancaria, oggi le Chiaviche, risentendosene il Cielo con fulmini e grandini: perloché fu dagli Ascolani eletto per Protettore contro le tempeste”. Per questi riferimenti cfr. il Compendio di memorie Istoriche spettanti alle Chiese Parrocchiali della Città di Ascoli nel Piceno e ad altre tanto esistenti che dirute nel Circondario di essa e né sobborghi, Ascoli 1791 (ristampa anastatica con note e indici di Giannino Gagliardi, Ascoli Piceno 1995), pp. 151 e ss. Ma un apprezzamento del Marcucci in quanto geloso conservatore di materiale archivistico antico ascolano ci viene da Giammaria Mazzuchelli, nel vol. II, parte 2^ de Gli Scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia 1762. Benché qui trattasi delle opere dell’ascolano Antonio Bonfini (1427-1502), non meno citato dal Marcucci dell’oscuro Lino Diacono, l’episodio testimoniato dal Mazzuchelli è senz’altro significativo, perché tra l’altro indica nei PP. Agostiniani di Ascoli un originario deposito archivistico, da non trascurare nella direzione di nuove ricerche ed una classificazione propria, del Marcucci stesso, dei manoscritti che conservava. Alle pp. 1621-1623 il Mazzuchelli scrive in nota: “Le notizie del tempo della sua nascita (A.Bonfini n.d.s.), non meno che molte volte inserita in quell’articolo del Bonfini, si ricavano da una epitome che un certo Quinto da Quintodecimo suo scolaro fece dell’Istoria Ascolana di esso Bonfini, in fronte alla quale epitome piacque a Quintodecimo di esporre alcune brevi notizie intorno alla vita del suo maestro. Quest’epitome tratta dall’originale manoscritto che si conservava in Ascoli nel Convento dei Padri Agostiniani, ora esiste colà fra manoscritti del Nobile Signore Abbate Francesco Antonio Marcucci, nel Tomo II a carta 84 e segg. ed una copia noi pur ne abbiamo comunicataci gentilmente dal chiarissimo Sig. Canonico Angiolo Maria Bandini”.

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A conclusione di questa lunga nota ‘ascolana’ è da segnalare un fascicolo manoscritto, esistente presso l’Archivio Storico Diocesano di Ascoli Piceno, che ho avuto modo di trascrivere integralmente e studiare nel dettaglio. Esso raccoglie, in copia coeva, gli atti contenuti nella ‘positio’, apertasi nei primissimi dell’Ottocento, presso la Sacra Congregazione dei Riti, in Roma, al tempo del vescovo Giovanni Andrea Archetti, ordinario ascolano dal 1 giugno 1795, quindi nominato, il 2 aprile 1800, cardinale vescovo di Sabina e restato in Ascoli Piceno, quale amministratore apostolico, da ques’ultima data sino alla morte, il 5 novembre 1805: “Alla sagra Congregazione dei Riti. Asculana. Concessionis officii cum Missa de Communi unius Martyris tam in Festo S.Christantiani Levitae et Martyris die 13 maii, quam in Festo S.Benedicti pariter Levitae et Martyris die 12 novembris. Per il Clero secolare e regolare della Città e Diocesi di Ascoli” (1802-1803). Presso l’Archivio della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, ove è confluito quello dei Riti, in Roma, è stato rintracciato il fascicolo originale di detta ‘positio’, che non è stato, però, da me esaminato. In ogni caso, il fascicolo ascolano, al quale saranno sfuggiti certamente alcuni documenti, ovvero copie di essi inviati in tempi diversi durante un biennio a Roma, è di estremo interesse per i nostri studi su S.Cristanziano e non solo. Esso meriterebbe di essere interamente pubblicato, collazionandolo con quello romano, per svariati motivi. E, a ben vedere, questo che rappresenta un tentativo, non sempre riuscito, ma di grande impegno, di costituire un dossier storico-agiografico su Cristanziano e Benedetto di Ascoli, dovette contemperare analoghe fatiche per altre figure di santi locali, quali Valentino, presbitero e martire, che si ritiene essere stato l’autore della Vita di S.Emidio, ritenuta poi non più antica del secolo XIV; Santa Glafiria vergine e Santa Veneranda, vergine e martire, ambedue ascolane. Il fascicolo in questione contiene anche il testo del decreto della S.C. dei Riti, datato 3 settembre 1803, con cui si concesse ad Ascoli l’Ufficio per santi Cristanziano e Benedetto, sottoscritto dal cardinale Prefetto, Giulio Maria de Somalia. E nel medesimo Archivio ascolano si conserva il testo manoscritto dell’Ufficio liturgico concesso ad Agnone, in una copia non datata, ma che dev’essere della stessa epoca del decreto ascolano: “Die .XIII. maii. In Festo S.Christantiani martyris Patroni Principalis Civitatis Angloni, nec non Terrae Casalium Cypranorum Triventinae Dioecesis”, sul quale dovremo ritornare, trattando proprio di Agnone, giacché in questo testo si parla di Cristanziano ‘diacono-martire’ e non già ‘vescovo-martire’, come invece accadde successivamente. Aggiungo soltanto che nell’ “Officia propria Sanctorum concessa a S.R. Congregatione illustrissimi et reverendissimi Domini Fr. Aloysii Agazio, Ord. Min. Strict. Observ. S. Francisci Episcopi Triventini. Auctoritate edita. Neapoli, Typis Cajetani Cardamone, 1857” , dunque più recente di 53 anni rispetto al primo, ci si riferisce espressamente al 13 maggio quale festa “Sancti Christantiani Episcopi et Martyris” e non senza aver ricordato, nella ‘Lectio IV’ del Notturno, che il santo “primus in Diaconorum numero atque in praedicatione munere cooptatus..” ! A stridere fortemente ancora è il chiaro riconoscimento ascolano di Cristanziano: “ Christantianus Asculi in Picaeno (…) ortus” ! Alla documentazione ascolana così costituitasi non solo sfugge il dato devozionale di Palena, nonché quello di Casauria, ma soprattutto la citazione di Cristanziano nel testo latino degli Statuti cittadini del 1377 e quella quattrocentesca nello Statuto di Portella, castello del contado ascolano. Mancano pure riferimenti alle fasi iconografiche del santo in Paggese ed in Lisciano. Vale la pena qui di riprendere, per adesso, la conclusione definitiva del Sottopromotore della Fede, Luigi Gardellini, a cui era stata affidata la causa, che chiude favorevolmente il processo svoltosi, appunto, nella Sacra Congregazione dei Riti e che dette luogo alla emissione del decreto di concessione dell’Ufficio liturgico da parte del Pontefice, Pio VII, nel 1803. Ciò che sottolinea il Gardellini nelle sue conclusioni è la comprovata ‘immemorabilità del culto’ “del quale ambedue li suddetti santi sono in possesso”, per cui il culto stesso risulta più antico dell’anno 1534, che è l’ “epoca stabilita per l’immemorabile, o sia centenaria”. Tutta la discussione, infatti, venne a incentrarsi nel processo sulla storia del culto e non già sulla personalità storica dei santi in questione. In questo senso il provvedimento dei Riti, che pure richiama l’appartenenza di Benedetto e Cristanziano “ai primi secoli della Chiesa”, senza però disaminarne realmente le ragioni, è piuttosto una ‘reintegrazione’ dell’Ufficio, che una nuova concessione. Furono, infatti, i provvedimenti di Urbano VIII (1623-1644) in materia di culto dei santi a congelare, diremmo, quei culti locali, già anticamente esercitati dai fedeli, rivolti però a figure salvifiche che non vennero comprese e riconosciute nella catalogazione ufficiale del Martirologio Romano, a partire da quello voluto da Gregorio XIII (1572-1585) nel 1580 e pubblicato nel 1583: Martyrologium Romanum ad novam kalendarii rationem et ecclesiasticae veritatem restitutum, Gregorii XIII Pont. Max. iussu editum. 1583”. Nel 1586 si ebbe, come è noto, il Martirologio rivisitato dal Baronio, dedicato a Sisto V (1585-1590): Martyrologium Romanum cum notationibus Baronii. Infine, la solenne edizione del 1589: Martyrologium Romanum, ad novam kalendarii rationem et ecclesisticae historiae veritatem restitutum, Gregorii XIII Pont. Max. iussu editum. Accesserunt notationes atque tractatio de Martyrologio Romano. Auctore Caesare Baronio Sorano, Congregationis Oratorii presbitero. Secunda editio ab ipso auctore emendata et compluribus aucta. Antverpia. Ex officina Christophori Plautini, Architypographi Regii, 1589”. Il nome di Gregorio XIII lo volle lasciare lo stesso Sisto V, nel cui pontificato si ebbe questa edizione. Per una guida storica interessante e informata su questi argomenti cfr. Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, a cura di G.A. Guazzelli, R. Michetti, F. Scorza Barcellona, Viella Roma 2012.

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Nei Martirologi: il geronimiano e quelli ‘storici’

Già G. Fabiani, in Bibliotheca Sanctorum (ed.1964), sub voce, pp. 322-323, aveva svolto una stringatissima ricognizione dei testi degli ‘Acta Sanctorum’, dove di Cristanziano si parla veramente molto poco, per cui si veda Acta Sanctorum Maii, collecta, digesta, illustrata a Godefrido Heschenio et daniele Papebrochio (..). Tomus tertius (..), Venetiis 1738, pg. 203. Dicendo ‘De sancto Christantiano martire Asculi in Piceno’ si rimanda alla precedente opera del Ferrari, di cui qui a seguire. Importante, invece, a me sembra il breve richiamo all’Ufficio del santo, del quale non esistono Atti scritti: “Recitabatur olim ejus Officium sub ritu duplici, quod postea omissum est ex generali decreto Sacrae Rituum Congregationis” . I due testi in cui si parla di Cristanziano, redatti da Filippo Ferrari (1551-1626) sono i seguenti: Catalogus sanctorum Italiae in menses duodecim distributus (..), Mediolani, apud Hieronymum Bordonium, 1613; Catalogus Generalis Sanctorum qui in Martyrologio Romano non sunt (..), Venetiis, apud Io.Gerilium, 1625. Questo Autore viene più volte citato nella suddetta ‘positio’ ascolana alla Congregazione dei Riti. Ecco il brano del Ferrari: “De S. Cristantiano martire Asculi. Sanctus Cristantianus martyr hac die ( 13 maggio n.d.s.)duplici ritu in Ecclesia Asculana in Piceno, ubi corpus eius asservari fertur, celebratur. Idem in dioecesi Laudensi, in qua contra tempestates adversas invocatur, venerationem habet, tametsi Officio Ecclesiastico minime colitur, quod ex Tab. aut calendario Laudensis Ecclesiae pateat. Es Tab. Eccl. Asculana. Annotatio. Apud Laudenses non est una huius Sancti opinio. Alii enim illum confessorem putant, alii martyrem. Sunt qui Episcopum Bobiensem fuisse credant. Res prorsus ambiguas”. Quanto asserito dal Ferrari è ripreso anche in Hagiologium Italicum in quo compendiose notitiae exhibentur Sanctorum Beatorumque ad Italiam seu ex nativitate, seu ex obitu, seu ex corporis possessione spectantium ex probatibus monumenti et scriptoribus collectae atque diligenti censura ademendam, firmandaque historiae veritatem espensae et per singulos mensium dies distributae. Addito in fine indice alphabetico ad faciliorem operis usum. Tomus primus continens sex priores menses, Bassani 1773,. Sed prostant Venetiis apud Remondini, pg. 275. La documentazione da me reperita presso l’Archivio Storico Diocesano di Lodi mette in evidenza la visita pastorale del 1583 nella Parrocchia di San Gualtero del vescovo Francesco Bossi, amministratore apostolico e Ordinario di Novara tra il 1579 e il 1584. Qui si parla di “Capella di san Cristanziano in Villa Torrettae”. Analoghe informazioni in Giardino Istorico Lodigiano, o sia Istoria sacro-profana della Città di Lodi e suo Distretto, etc. Opera del prete Alessandro Ciseri, lodigiano, Milano 1732, pp. 74-75. Nella predetta Parrocchiale sono anche reliquie di San Cristanziano, come dai relativi elenchi emersi, purtroppo senza datazione, dalla documentazione archivistica fin qui esplorata.

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Nessun Autore, fin qui, ha messo in relazione Cristanziano di Ascoli con quello citato nel Geronimiano e successivi martirologi storici. Solo il Fabiani, come sopra, sembra teorizzare un siffatto e diretto rapporto, anche se con conseguenze negative. E’ questo un tema che, per essere sviluppato adeguatamente, in un senso affermativo o contrario, necessita dell’approfondimento della ricerca attraverso lo studio delle fonti agiografiche antiche, della loro produzione e, soprattutto, della loro diffusione in ambito italico. Ne sono ben consapevole! L’edizione critica del Geronimiano è in Acta Sanctorum Novembris (…), tomus II, pars prior (..), praemissum est Martyrologium Hieronimianum edendibus Iohanne Baptista De Rossi et Ludovico Duchesne, Bruxellis, 1894. Per quel che concerne i martirologi storici, in cui Cristanziano continua ad essere menzionato e localizzato in Aquileia, sono da vedere le diverse edizioni realizzate. Per quello di Usuardo una prima edizione, importante, è quella di Lubecca 1508, per Giovanni Molano: Usuardi Martyrologium quo Romana Ecclesia ac permultae aliae utuntur. Quello di Adone, che ho consultato, è nell’edizione romana del 1745: Martyrologium Adonis archiepiscopi Viennensis ab Heriberto Rosweido (..) recentitum (..) opera et studio Dominici Georgii. Pars Prima (Ex Typographia Palladis). L’edizione da me consultato di Usuardo è quella compresa negli Acta Sanctorum Iunii, Tomus VI, Pars I, Antverpae 1715, ad opera di Giovanni Battista Sollerio: Martyrologium Usuardi Monachi hac nova editione (..), opera et studio Joannis Baptistae Sollerii (1714). In questa, tra gli ‘Auctaria’, troviamo: “Christantiani et aliorum XC”: “Rosweyd, tertio loco interponit: in Aquilegia, Crisantiani martyris et aliorum XC. De quibus in Actis. Pro Fintani, scribit Finiani. Et in fine de Silvano, cum Pratensi”. Nella predetta edizione di Adone (1745), nell’ ‘adnotatio’, compresa tra le pp. 95-96, si specifica: “Ab his abit aliquantulum martyrologium Ottobonianum, ubi post polychronium sequitur: in Aquileja Crisantiani, Enrici, Concordio (pro Concordiae), Silvani et aliorum LXXXIIII martyrum. Martyrologium Reginae Sueborum: in Africa, civitate Concordum, passio sanctorum Donati, Secundiani. In Aquileja Crisantiani. Et alibi (..). Concordia urbs Italiae fuit, non Africae, in provincia Aquilejensi olim sita, nunc solo aequata (..)” L’evoluzione dei martirologi storici, come si vede, dava luogo tanto alle omissioni, quanto alle ripetizioni e, direi, anche ad aggiunte, riguardo al predecessore geronimiano ed ai codici di esso, che ne costituirono la revisione. Riferimento obbligato per tutto questo H. Quentin, Les martyrologes historiques du moyen age, Paris 1908, ulteriormente rieditato. Infine va ricordato che nel Commentario al Geronimiano di H.Delehaye – H. Quentin, Commentarius perpetuus in martyrologio hieronimianum, in Acta Sanctorum Novembris, II, Pars ulterior, Bruxelles 1931, i riferimenti a Cristanziano sono al n. 13 pg. 103 e al n. 13 pg. 284, dove, appunto, lo si dà per figura fittizia.

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Sul documento teatino dell’anno 1065.

Il documento 15 maggio 1065, è pubblicato, come si è detto sopra, dall’Ughelli. Lo si veda in Appendice al presente, con il relativo regesto. Per i documenti dell’Archivio Storico Diocesano di Chieti si veda A.Balducci, Regesto delle pergamene della Curia arcivescovile di Chieti, I, 1006-1400, Casalbordino 1926; Id., Regesto delle pergamene e codici del Capitolo Metropolitano di Chieti, Casalbordino 1929. Tra gli autori moderni che hanno considerato e citato questo documento si vedano Horst Enzensberger, alla voce ‘Borrello’ nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 12 (1971) e Laurent Felles. Les Abruzzes médievales, etc., cit. . Si deve, però, ricordare che A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno Di Napoli nella mezzana età, VIII, Napoli 1803, alla pg. 59 lo cita correttamente. Ne tratta anche Cesare Rivera, Per la storia dele origini dei Borrelli conti di Sangro, in Archivio Storico per le Province Napoletane, XLIV (1919-1920), pp. 48-92; saggio rieditato in ‘Cesare Rivera. Scritti sul medioevo abruzzese’, II, a cura di Berardo Pio, L’Aquila, Colacchi, pp. 13-54, di cui mi sono servito. Ne parlano anche altri Studiosi. Dunque il documento era noto, ma in diversi casi è stato omesso di riferire che tra i beni in esso evidenziati vi fosse anche la chiesa di San Cristanziano di Palena e si è anche equivocato il fatto che San Martino di Taranta è una chiesa e non già un castello. Questo atto di donazione pone, come si è potuto vedere, tutta una serie di problematiche storico-critiche, che ho cercato di evidenziare ed affrontare per una sua più esaustiva edizione critica e per cogliere, così, con maggiore e più solida prospettiva storica, il dato che reca, indubitabile e unico, sulla storia del culto cristanzianeo. E’ indubbio che con la donazione ‘pia’, o ‘pro anima’ che ci riguarda si esalti, in un certo senso, la realtà sociale della chiesa propria e privata. La stessa chiesa-monastero di Santa Maria ‘de letto’, sulla quale dico ancora oltre, è chiaramente una fondazione laica. Il Feller ha dedicato pagine importanti sul significato sociale della donazione delle chiese. Cfr. Les Abruzzes médievales, etc. cit., pp.819-824. Ed anche se lo studioso francese mette al centro della sua riflessione il rapporto aristocrazia fondiaria – monasteri, il significato politico delle donazioni ad enti religiosi importanti, quali sono anche gli episcopi, non muta molto nel contesto del sec. XI del Comitato Teatino: il donatore non è remunerato dalle preghiere dei chierici, o monaci che fossero, ma “da una protezione effettiva offerta dal beneficiato del dono a colui che lo ha fatto”. In questo senso, afferma il Feller, la Chiesa è al centro di strutture feudali, giacché è essa stessa profondamente feudalizzata (ivi, pg. 820). Il terreno, allora, in cui si gioca la donazione ‘pia’ è essenzialmente politico! Ed è su questo piano che possono comprendersi meglio i tentavi dei Borrello a disarticolare l’assetto politico-territoriale in questione, con ricadute importanti, in questo senso, sul piano delle stesse circoscrizioni diocesane di Valva e di Chieti. In ciò hanno indubbiamente un alleato, il vescovo Attone di Chieti, loro stretto parente.

Circa la doppia titolazione dell’episcopio teatino, che il nostro documento sembra di par suo attestare già nel 1065, si veda M.Spadaccini, Tommaso o Giustino? Alcume osservazioni sul cambio di patrocinato nella Città di Chieti, in Bausteine zur deutschen und italienischen geschishte. Festschrift zum 70 Gebertstog von Horst Ensensberger (…), Universitat Bamberg 2014, reperibile on line. E così anche per una migliore comprensione del clima politico nell’Italia meridionale, il ruolo del Papato e dei settori dirigenti dell’aristocrazia territoriale, partecipe dell’autorità dell’impero, tra cui certamente i conti abruzzesi, un riferimento importante, anche bibliografico, è negli Atti delle Prime Giornate normanno-sveve (Bari, Maggio 1973): Roberto il Guiscardo e il suo tempo , Bari Ed. Dedalo, ristampa 1991, con i saggi, in particolare, di Raul Manselli, Roberto il Guiscardo e il Papato e di C.D. Fonseca, La prima generazione normanna e le istituzioni monastiche dell’Italia meridionale. Ancora di massima utilità è il famoso lavoro di F. Chalandon, Histoire de la nomination normande en Italie et en Sicile, Paris 1907 (rieditato nel 1960 e 1969). Ma l’opera che più direttamente illumina il nostro caso è certamente quella di Cesare Rivera, Le conquiste dei primi Normanni in Teate, Penne, Apruzzo e Valva, in Bollettino della Regia Deputazione Abruzzese di Storia Patria, serie III,, 16, 1925, pp. 7-94, rieditato in Cesare Rivera. Scritti sul medioevo abruzzese, II, cit. , pp.57-128. L’informato Autore tesse il suo quadro storico attraverso una puntuale lettura delle fonti cronachistiche e documentarie fin lì conosciute, sia abruzzesi che del resto del Mezzogiorno e particolarmente cassinesi. Inoltre, sul fronte molisano, si veda la pur datata e ancora utile esposizione sintetica di A. De Francesco, Origine e sviluppo del feudalesimo nel Molise, in Archivio Storico Province Napoletane, n. 34 (1909), pp. 432-460 e pp. 640-671; n. 34 (1910), pp. 70-98 e pp. 273-307, oggi reperibile anche on line. Tra le diverse fonti del secolo XI è significativa, per i risvolti abruzzesi e del comitato teatino, tra cui il conte Trasmondo III, la Storia dei Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in antico francese (secolo XI), a cura di V. De Bartolomeis, Roma, ISIME. Fonti per la Storia d’Italia, 1935. Fondamentale, altresì, la Chronica monasterii casinensis, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, tomus XXXIV, Hannoverae 1980 ( ed. H. Hoffmann), reperibile in internet e che menziona in più luoghi gli stessi Borrelli, tra l’altro come donatori a Montecassino di San Pietro Avellana da loro fondata in Molise. Altresì importante sia per gli ambiti territoriali del Sangro Aventino e sia per i rapporti stessi e molto controversi che i Borrello intrattennero con San Vincenzo al Volturno il Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni (secolo XII-XIII) a cura di V. Federici, Roma ISIME, Fonti per la Storia d’Italia, 58, ristampa anastatica voll. I, II, III.

Come si è visto, i soggetti storici fondamentali messi in campo dal nostro documento sono, in primo luogo, i Borrello, quindi Attone, vescovo di Chieti e, per questo, i suoi familiari conti dei Marsi, nonché, indirettamente, ma poi non tanto, il governo comitale di Trasmondo III, esponente degli Attonidi e strettamente legato, anche lui, ai Conti dei Marsi. Per i Borrello non si può assolutamente prescindere dal citato lavoro di Cesare Rivera, Per la storia delle origini dei Borrello, etc., sulla scorta del quale, successivamente, è intervenuto H. Enzensberger (vedi sopra) nel 1971. Non mancano ulteriori approfondimenti più recenti, come quello di E. Maranzano, Borrello tra i vicini Comuni della val di Sangro. Notizie storiche sul millennio al tramonto, Chieti, Ianieri 1998, che, sia pure mantenendo una prospettiva storica locale, riesce, però, per la vicenda dei Borrello a darne un inquadramento storico più complesso e complessivo; A. Ferrari, Feudi prenormanni dei Borrello tra Abruzzo e Molise, Ed. Uniservice, Trento 2007, con un contributo interessante dal punto di vista storico-geografico e feudale sui feudi borrellensi censiti nel Catalogo dei Baroni. Malgrado ciò questi lavori risentono fortemente e in un accezione troppo acritica del lavoro suddetto del Rivera, ripetendone qualche svista. Va poi ricordato un articolo di F. La Gambra, I Borrello e i monasteri benedettini tra il medio Sangro e l’alta Valle del Trigno nel periodo normanno, in ‘Almanacco del Molise’, vol. 22 (1980), pp. 274-304, che è da riprendere soprattutto nel caso di Agnone, ma anche per un necessario riordinamento della documentazione evidenziata. Circa Attone vescovo abbiamo un profilo biografico nel Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 4 (1962), sub voce, che non ha indicazione del suo Autore. Oltre a caratterizzare Attone per colui che favorì l’intesa del padre, Oderisio II dei Marsi, con il normanno Rainolfo di Aversa, di cui al racconto che ne fa Amatao di Montecassino (cit.), tra il 1065-1066, nell’articolo si indica lo stesso vescovo come colui che invitò direttamente il normanno aversano a intervenire in Abruzzo, offrendogli ‘mille livre de deniers’, nonché la mano della sorella Potarfrada per colui che fu poi il genero , Guglielmo di Pontchanfré, identificato dal Rivera per Guglielmo di Montreuil. In effetti, nel 1066, Rainolfo entrò nella Marsica e sconfisse Berardo, il fratello di Oderisio II, lasciandovi a presidio, come scrive anche il Rivera, Guglielmo, suo gerero, che però tradì le consegne del suocero. Si veda al riguardo C. Rivera. Per la storia delle origini, etc., cit., pp. 41-42. E qui il Rivera segue ancora Amato di Montecassino. Lib. VII e VIII.

Attenzione particolare ad Attone vescovo è dedicata dal Feller, Les Abruzzes médiévales etc., cit, passim, che possiamo ritenere il più approfondito studioso degli Attonidi, di cui ha delineato la genealogia sulla scorta, tra altri, di H. Muller, Topographische und genealogiche Untersuchungen zur Geschichte des herzogtums Spoleto und der Sabina von 800 bis 1100, Greifswald, 1930, che costituisce uno studio prosopografico di grande importanza. Questi, per restare all’aspetto appena rilevato in Amato di Montecassino, cita dubitativamente Potarfranda tra i figli di Oderisio II dei Marsi, che infatti non viene ripresa nella genealogia del Feller. Per questa sua particolare attenzione alla famiglia comitale teatina il Feller ha impostato un pregevole ed essenziale lavoro di ricostruzione genealogica e quindi anche politica, mettendo in rilievo le reciproche dipendenze e gli scambi genealogici tra Attonidi e Conti dei Marsi ed una novità essenziale per il medioevo abruzzese è derivata da un chiarimento di fondo, sulla scorta del Muller, circa la non correttezza della tesi, sostenuta per esempio con vigore da Cesare Rivera, per cui i conti dei Marsi, imparentati a più livelli con gli Attonidi, sarebbero venuti dalla Francia, a metà circa del sec. X, con Ugo di Provenza ed avrebbero fondato un’unica contea, dei Marsi appunto, su tutte le terre abruzzesi, per poi suddividerle nei loro discendenti. Per questo si veda alle pp. 606-662 della citata opera Les Abruzzes médiévales il Cap. IV: Gli Attonidi:dalla dinastia principesca al lignaggio aristocratico (950-1120) e, in particolare, alle pp. 632-643: I circuiti matrimoniali:gli Attonidi, la famiglia dei conti dei Marsi e i principi di Capua. Sempre su Attone vescovo ed i risvolti marsicani della carriera episcopale, prima di essere traslato a Chieti, si vedono i due lavori di G.Grossi, La diocesi dei Marsi da Giovanni XII a Clemente III e di S.Boesch Gajano, Berardo vescovo dei Marsi tra agiografia e storia, ambedue in Terra dei Marsi. Cristianesimo, cultura, istituzioni, a cura di G.Luongo, Viella, Roma 2002, rispettivamente alle pp. 119-157 e pp. 339-364. Tra i beni donati, come dicevo, esiste la chiesa-monastero di Santa Maria ‘de Letto’, che costituirebbe a parere del Saggese e di altri una fondazione comitale teatina dei primi decenni del Mille. Il suo passaggio nelle mani dei Borrello, a questo punto, altererebbe considerevolmente il suo statuto giuridico di istituzione legata al conte da un patto fondativo, il che avrà avuto senz’altro le sue conseguenze nella pur minuscola comunità che la occupava e gestiva. Ma anche a livello del governo comitale di Trasmondo III la cosa si sarà ben avvertita. Ciò mostrerebbe ancora la crisi in cui si dibatteva in questi anni l’istituto comitale e che permette ai Borrelli, ma dovremmo dire anche al vescovo teatino, di inserirsi attivamente in un’operazione di disgregamento , che è già in atto e darà, di li a poco, altri elementi eclatanti. L’insediamento di Santa Maria de Letto, poi detta di Monteplanizio e come tale nelle Rationes Decimarum. cit., ai nn. 1062, 1150, 1175, 1694, 1799, 1883 (Montepianizzo), è posta chiaramente dal collettore pontificio in diocesi di Valva. Nel 1328 il suo abate è tale ‘frate Antonio’. Cfr. G.Celidonio, La diocesi di Valva e Sulmona etc., cit., pp. 140-148. Tuttavia Mons. Saggese, arcivescovo di Chieti (1838-1852) non ne menziona i pregressi valvensi. In effetti Santa Maria, con il paese di Lettopalena, già diocesi ‘nullius’ almeno dal 1530, dal 1820 venne aggregata all’arcidiocesi teatina. Da qui l’intervento di Saggese nella scheda che dedicò a Lettopalena, ms. in Raccolta di notizie storiche sulle Parrocchie della Diocesi di Chieti, in Archivio Vescovile di Chieti, b. 877 e nel suo componimento annesso alle pp. 198-219 dei Cenni storici sulle chiese arcivescovili, vescovili e prelature (nullius) del Regno delle Due Sicilie, raccolti, annotati, scritti per l’abate Vincenzo D’Avino, Napoli 1848. Più pacatamente il Celidonio afferma che “monistero e chiesa e lo stesso paese di Lettopalena furono per vari secoli aggregati alla nostra diocesi”. Queste incertezze nell’identificazione tradiscono in effetti il controverso percorso storico dell’istituzione, definita dal Saggese ‘badia secolare’, certamente per l’età moderna, ma non certo in età medievale. Lo stesso novero documentario pontificio pertinente ai due vescovati di Valva e di Chieti non a caso è contraddittorio al riguardo. L’Antinori, di par suo nella Corografia di Lettopalena afferma che Santa Maria de Monte Planizia (…) venne confermata a Chieti da Pasquale II nel 1115 e da Alessandro III, nel 1173. Nel 1163 il suo abate, tale Costantito, è a contatto con l’abate di Casauria, Leonate, in un giudizio legale a Sulmona. Cfr. Johannes Berardi. Liber instrumentorum seu chronicorum monasterii casauriensis seu Chronicon Casauriense (Fonti per la Storia d’Italia – Rerum Italicarum Scriptores III serie) Edizione critica a cura di Alessandro Pratesi (+) e Paolo Cherubini – voll. 4 – (Tomo 1, Roma 2’17; Tomo 2, Roma 2018; Tomo 3, Roma 2019; Tomo 4, Roma 2019), Vol 4, pp. 3051-3054, doc. n. 2122: De rebus in Sulmone recuperatis. Ma una bolla di Adriano IV del 1156 la riconoscerebbe a Valva e così ancora con Lucio III, nel 1183. Come si è detto, un discutibilissimo documento, attribuito a Innocenzo III, del 1207 – 1208, reso noto dal Celidonio (il primo dei quattro da lui scoperti nell’archivio di San Panfilo, a Sulmona) concederebbe al monatero, posto nella diocesi di Valva, con tutti i suoi beni annessi, ivi compreso San Cristanziano di Palena, la protezione apostolica e, quindi, il rioconoscimento del legittimo possesso di quei beni.

Alle radici, diciamo, dell’esenzione vescovile, sicuramente intervenuta dopo il 1514, allorché venne visitata dal vescovo di Valva per l’ultima volta, stanno queste tensioni autonomistiche, ancora vitali in età moderna, ma dalle più antiche origini, se non riconducibili alle vicende stesse della sua fondazione comitale. Questa vicenda appare emblematica in un contesto territoriale ed anche istituzionale che a metà del secolo XI è quello teatino meridionale, in cui agiscono, oltre a quelle feudali, ormai galvanizzate dalle prime iniziative militari normanne, delle quali i Borrello sono tra i più in vista, anche soggetti ed istituzioni del mondo ecclesiastico, secolare e regolare. Starei per dire che lo stesso episcopato teatino si presta volentieri a tali progetti di trasformazione.

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La documentazione concernente i Borrello del secolo XI è stata essenzialmente prodotta attraverso i rapporti della potente famiglia feudale con enti ed istituzioni religiosi. I quali hanno registrato pure la loro molteplice iniziativa politica e militare, come Montecasino e San Vincenzo al Volturno, su di un vasto territorio, ossia nelle terre molisane, campane ed abruzzesi, sino alla loro integrazione, nel secolo seguente, nella feudalità normanna. I citati Enzensberger e C.Rivera, nell’indicare i singoli documenti che li riguardano, hanno avanzato diverse osservazioni critiche sugli stessi e in particolare sulla tradizione che ne fece Pietro Diacono di Montecassino nel suo Regesto, oggi finalmente edito criticamente: Registrum Petri Diaconi (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 3) – 4 voll. – ISIME. Fonti per la Storia d’Italia Medievale. Antiquitates. Roma 2015 (ma 2016). Edizione e commento di J.M. Martin, P. Chastang, E. Cuozzo, L.Feller, G. Orofino, A. Thomas e M. Villani. In particolare il Rivera dimostrò scorretta la datazione del documento più antico concernente i Borrello, che Pietro Diacono aveva assegnato all’anno 977 e che, invece, è dell’anno 1014: “Il conte Borrello, signore di Pietrabbondante, con la moglie Ruta e i figli Giovanni, Borrello e Oderisio, danno a Montecassino il monastero di S. Eustachio “de Arcu” in Pietrabbondante, con i suoi diritti, pertinenze ed adiacenze”.Cfr. I Regesti dell’Archivio, II, a cura di Tommaso Leccisotti, Roma 1965 (Abbazia di Montecassino. Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 56), pp. 83-84, n. 65). Centrale nella vicenda dei Borrello è la fondazione per loro iniziativa del monastero di San Pietro Avellana, in Molise, donato a Montecassino per mezzo di San Domenico di Sora; donazione integrata e rinnovata nel 1069, appunto dal nostro Borrello II. Cfr. I Regesti dell’Archivio, II, cit.., pp. 137-138, n. 35. Il documento del 1069 è per noi prezioso. Esso è tradito attraverso un transunto del 1311 e dal Regesto di Pietro Diacono (n. 494, pg. 209), che lo menziona anche nel suo Chronicon, ovvero continuazione della Cronaca di Leone di Ostia (III, 39, pg. 731) e come tale pubblicato dal Gattola nelle Accessiones ad historiam etc., cit., I, p. 179. In questa conferma di donazione e, al contempo, nuova donazione del monastero di San Pietro de Avellana a quello di San Benedetto di Montecassino, con gli attori della cessione, Borrello II e suo figlio Gualterio (il primo abitante in Valva, a Pettorano; il secondo ‘ in castro Anglono’), nonché Gervisa, moglie di Borrello II, compare come testimonio il fratello di quest’ultima, il vescovo di Chieti, Attone. Ultimo documento in cui compare il nostro Borrello II è del 1083, allorché approvava una donazione del figlio Gualterio alla chiesa di San Nicola d’ Agnone (doc. indicato il Archivio di Montecassino, capsula 123, fasc. 5, n. 48 e 49, ma edito dal Gattola, Historia etc., cit. pp. 242-244). Scritta in un latino veramente esecrabile ‘in Sangrum’ dal notaio Benedetto, la donazione è rivolta alla chiesa di San Nicola, nel territorio di Agnone, “in eremo domini nostri Ihesu Christi ubi capite de berrino vocatur” ed a Giovanni, sacerdote e monaco “qui est remita ad pupulum” . Gli si dona la chiesa di San Pietro, con cinquanta ‘modiola’ di terra, sempre nel territorio di Agnone. F. La Gambra, I Borrello e i monasteri benedettini,etc.,cit. identifica questa chiesa-eremo di San Nicola a ‘capite berrino’ (fiume Verrino) con quella poi chiamata San Nicola in Vallesorda, diversamente detta ‘in monte Capraro’ . Donata a San Pietro di Avellana, in una data ancora da accertare con esattezza, questa chiesa reca con se diversi altri beni e tra questi la metà della chiesa di San Marco di Agnone (vedasi più avanti), che per noi è di somma importanza nella storia di San Cristanziano in Agnone stessa. Attraverso il lavoro di L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature,Ferentino, Soc. Tip. Antoniana, 1931, Don Filippo La Gamba individuò la notizia per la quale presso quel Comune, già nel 1742, era stato rinvenuto un documento del 1040, concernente la donazione di Gualterio figlio di Borrello, signore di Agnone, di San Nicola di Vallesorda a San Pietro Avellana. Ora , La Gamba mette a confronto i due documenti del 1040 e 1083, ricavandone, per sua ammissione, una sostanziale corrispondenza di contenuti e spiegando l’esistenza del documento più recente con l’esigenza di una redazione successiva alla prima donazione. Della donazione della chiesa di Vallesorda a San pietro Avellana aveva accennato il Gattola, senza tuttavia riportare il documento (Historia etc.,cit. p. 244, passim). In qualche incertezza, a me sembra, cade pure il Rivera, che parla di donazione del marzo 1091, equivocando, forse, sul donatore Gualterio, che, in ogni caso, non mi sembra poter essere operativo nel 1040! (Il primo doc. in cui compare è quello suddetto del 1069). Il documento del 1040, pertanto, è molto sospetto di falsità, o grave interpolazione, intesa probabilmente a retrodatare sensibilmente la donazione di San Nicola di Agnone a San Pietro Avellana e il clima successivo di Agnone (vedi oltre) lo confermerebbe. Il suo copista settecentesco, tale Nicola Mosca, lo aveva indicato in modo del tutto generico e quindi improprio: ‘In Archivio cassinense prope inventarium’.

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San Cristanziano nel territorio pennese e i rapporti ‘de Palena’ – Borrello (sec. XII).

Il documento casauriense, che illustra lo sviluppo del culto di san Cristanziano in area abruzzese è stato edito recentemente alle pp. 3159-3161 del vol. 4° dell’edizione critica del Chronicon casauriense, sopra citata. Paolo Cherubini ha osservato che le note cronologiche del documento, datato nel cartulario al 1161, sono scorrette: sia per l’indizione e sia per gli anni di regno di Guglielmo I di Sicilia (1154-1166), in quanto tratterebbesi, invece, del successore Guglielmo II (1166-1189) e poi perché nell’atto Leonate è detto cardinale, il che avviene il 21 marzo 1170. Il documento che ho riportato nella suddetta Appendice, non reca inoltre la data topica, ma a mio avviso esso venne redatto in San Clemente a Casauria e, probabilmente, dallo stesso Giovanni di Berardo. E’ l’unico atto di tutto il cartulario che tratta del ‘temimentum’ e, con ogni verosimiglianza, la costruzione della chiesa di san Cristanziano avvenne durante l’abbaziato dello stesso Leonate (1155-1182). Trattasi di uno ‘scriptum convenientiae’, tradito nella forma di un ‘memoratorium’, il che induce a pensare ad eventi abbastanza recenti e in quanto tali registrati e quindi inseriti nel cartulario monastico. Per questo a me sembra oltremodo strano che le sue note cronologiche siano errate, tanto più che al negozio in questione interviene lo stesso Giovanni di Berardo, quale prepositus del monastero, autore del Chronicon. E’ un documento che si colloca storicamente in piena età normanna. L’iniziativa di San Clemente a Casauria, abbazia, a questo punto, di chiara fede papale, è rivolta a realizzare una piena integrazione dell’istituzione nel regno normanno, proponendosi in un rinnovato progetto espansivo sul piano feudale ed esibendo in tal senso una sua specifica rilettura dei fasti della propria fondazione imperiale carolingia del secolo IX. Centrale in questa iniziativa appare la riproposizione del culto di San Clemente, papa e martire, che assume il ruolo di un segno identitario eccellente dell’istituzione, ormai esente anche da ogni giurisdizione vescovile e direttamente dipendente dal Papato. Ma il monastero, al contempo, è uno dei grandi feudatari del Regno e come tale si comporta, in piena aderenza alla prassi feudale vigente. Il ‘tenimentum’ che Leonate infeuda a Mallerio de Palena è situato nelle pertinenze di Alanno, castello abbaziale nella media Valle del Pescara, posto nel settore pennese, laddove il fiume Cigno diventa affluente di sinistra del più grande Pescara. Leonate stesso è un normanno, discendente dalla famiglia comitale dei conti di Manoppello ed entrato fin da fanciullo nel monastero, durante il governo di Oldrio (1127-1152). Per i dati biografici dei due attori fondamentali di questo documento si veda Catalogus Baronum Commentario, a cura di Errico Cuozzo (Fonti per la Storia d’Italia. ISIME. N. 101/2), Roma 1984, nn. 377, 964, 1013, 1014, 1031, 1095, 1107, 1189, 1192, 1195, 1204 per Leonate e suoi congiunti; nn. 273, 669, 735, 780, 791, 800, 803, 1020, 1197, 1202 per Manerio de Palena, che è il padre di Mallerio e, ancora, per quest’ultimo, al n.1177. Si veda, quindi, l’opera che è a monte del Commentario: Catalogus Baronum, a cura di Evelyn Jamison (Fonti per la Storia d’Italia. ISIME. N. 101), Roma 1972. La bibliografia su San Clemente a Casauria è oltremodo vasta e, direi, frammentata e perciò si rimanda a quella proposta dal Cherubini, alle pp. 835-903 del Vol. 1° dell’edizione critica del Chronicon Casauriense sopra citata. Mi permetto, inoltre, di indicare il testo della mia conferenza, tenuta in Torre dé Passeri, nel dicembre 2016 : ‘Solus iste posset sufficere’. Leonate abate casauriense del secolo XII, reperibile on line presso Academia.edu. Va segnalato, altresì, un articolo di E. Cuozzo, che calza perfettamente al caso dei de Palena: L’antroponimia aristocratica nel Regnum Siciliae. L’esempio dell’Abruzzo nel Catalogus Baronum (1150-1168), in Mélanges de l’Ecole francaise de Rome. 1994 /106.2), pp. 653-665, in cui spiega l’origine storica del ‘cognome toponomastico’ delle antiche famiglie di origine longobarda, che ormai hanno perso, o abbandonato ogni memoria genealogica. Sempre di E. Cuozzo, “Quei maledetti normanni”. Cavalieri e organizzazione militare nel mezzogiorno normanno, Napoli 1989.

Sull’abbaziato di Leonate è importante conoscere il punto di vista del più volte citato L. Feller, che nel Capitolo II di Les Abruzzes médiévales etc., cit., pp. 47-83: La storiografia medievale degli Abruzzi (la traduzione è mia) inserisce una riflessione sulla rinascita di San Clemente a Casauria: L’abbé Leonas et la restauration de Casauria dans les années 1150-1170 (pp.66-69). Tema, poi, ripreso al Capitolo XIV, interamente dedicato ai Normanni (pp. 723-784), in particolare alle pp. 753-756: Le renforcement de la seigneurie territoriale de Casauria.

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Il rapporto che il documento casauriense denuncia tra Leonate e i de Palena; rapporto, lo ripeto, non episodico, per quanto rivelato in questo unico caso, passando per san Cristanziano, che è figura qui chiaramente veicolata dai Palenesi, proprio per questo evoca quello di questi ultimi , in pieno secolo XII, con i Borrello e, perciò, le realtà di Palena e di Agnone. Si stabilisce, così, un determinato collegamento tra le due e diverse situazioni territoriali di Palena e il Sangro e il territorio pennese, legate attraverso il culto di san Cristanziano e tra i personaggi che con il loro carico di esperienze ed azioni hanno descritto un tale paesaggio devozionale. Una prima menzione documentaria dei de Palena, laddove il Cuozzo identifica Berardus filius Oderisii nel padre di Manerio de Palena, è in Codice Diplomatico Sulmonese raccolto da Nunzio Federico Faraglia, Lanciano 1888 (riedito a cura di Giuseppe Papponetti, Sulmona 1988), pp. 42-43, doc. n. 32: “Agosto 1130. Gualterio figlio di Manerio conte di Valva, dimorante in Pacentro ed i fratelli Berardo e Manerio figliuoli di Oderisio, dimoranti nel castello di Corniano, donano alle chiese di san Panfilo e san Pelino la chiesa di san Bartolomeo nel monte de le Felecta, detto per consuetudine la Macchia”. Un ulteriore passaggio documentario, ben studiato dal Cuozzo, del 1136, in cui compare Manerio ‘comes Palenensis’, figlio del fu Berardo de Palena, venne edito dal Celidonio in La diocesi di Valva e Sulmona, III, cit., p. 35, che lo trasse dalla Corografia dell’Antinori, vol. 36°, p. 203, e che era già stato reso noto dal Brunetti (1605-1651?). Da qui il Cuozzo enumera i nomi di ben sette figli di Manerio, tra i quali il nostro Mallerio. I documenti che più esplicitamente ci propongono i de Palena in stretta connessione con i Borrello non a caso concernono Agnone e sono del 1140, 1144 e 1169, editi dal Gattola come dissi sopra. Il primo di questi rappresenta l’incarico che il re Ruggero II diede a Manerio de Palena, unitamente a Oddo di Pettorano, che è un Borrello, di tutelare i diritti di San Pietro di Avellana nei confronti di San Nicola di Vallesorda, in Agnone, che ho sopra citato circa i controversi documenti del 1040 e 1083. Pertanto l’atto del 1140 è sempilecente menzionato dal Gattola, Historia etc., cit. p. 243, passim. Il 3 dicembre 1144, (Gattola, Historia etc. cit. p. 246-247) inoltre, a Trivento, presso il conte Ugo di Molise, si decise sulla metà della chiesa di sn Marco di Agnone. Assistevano al giudicio i baroni Marmons, non bene identificato, e Giuliano di Castropignano, Mainerio di Palena e Matteo di Pettorano, con altri astantes. Questa metà di San Marco apparteneva a San Pietro Avellana per donazione fattane da Gualterio, figlio di Borrello II a San Nicola di Vallesorda. Alla restituzione agli avellaniti, avvenuta di lì a poco, in Agnone, era presente, tra gli altri, Guglielmo Borrello, che di Gualterio è nipote ex filio (Borrello IV) e signore di Agnone, come attesta il Catalogus Baronum, cit. n. 780, in quanto feudatario del conte di Molise. Tale proprietà avellanita, come detto, venne nuovamente assegnata, in feudo senza dubbio, a Manerio de Palrena, Matteo di Pettorano e al predetto Guglielmo: “pro anima Burrelli, filii Gualterii”, ovvero di Borrello IV, padre dell’attuale signore di Agnone, che è Guglielmo, come si è detto. E’ del tutto evidente che si voleva ricondurre ad uno stato di fatto e di diritto originari qualcosa che , nel frattempo, era andata storta, vale a dire ristabilire le volontà dell’originario donatore di San Nicola di Vallesorda.

Nel documento del 1169, invece, è Riccardo di Mandra, conte di Molise, a riunire una curia in Isernia (Gattola, Historia etc.,cit. p.243) per decidere sulle chiese di San Lorenzo e San Nicola di Vallesorda di Agnone, che evidentemente e da tempo erano state illegittimamente detenute ed occupate da feudatari laici ed in particolare da Gualterio Bodonus, che era suffeudatario del signore di Agnone, in Capracotta (Catalogus Baronum cit, n. 787). E’ da quest’ultimo documento che si conosce il più antico mandato del re Ruggero II circa queste chiese, assegnato, ma non saprei con quanta correttezza, al 1140, sopracitato, con cui le aveva affidate a Manerio de Palena e Oddone di Pettorano, che è un Borrello, affinché le rendessero a San Pietro di Avellana. Di fatto si tornava alle vie legali e per quasi le stesse ragioni dopo un venticinquennio.

Ora gli indebiti occupatori di esse vi rinunciavano. Significativa, però, questa volta, la partecipazione alla curia isernina di tre vescovi di Boiano, Isernia e Trivento; un coinvolgimento, sicuramente, richiesto dalla delicatezza dell’affare, che trattava la gestione laica e feudale di beni ecclesiastici. Qui interessa, però, rilevare ulteriormente il ruolo dei de Palena e dei Borrello, che chiaramente assicurano, dal punto di vista del sovrano normanno e dei suoi successori, scelte impegnative di politica ecclesiastica e religiosa a sostegno delle dipendenze cassinesi per l’innanzi sicuramente disattese. Rilevo ancora che l’incastellamento di Agnone è già attestato nel 1069 (vedasi sopra) e che nel secolo successivo, come si può notare da questi documenti, esso, attraverso la più puntuale descrizione degli insediamenti religiosi, è certamente in una fase avanzata e di ulteriore strutturazione. L’incontro dei de Palena con i Borrelli, che con l’invito dell’importante documento casauriense è stato appena abbozzato, possiamo ritenerlo certamente informato del culto di san Cristanziano: non solo per la partecipazione diretta, tra il 1065 e 1171, di esponenti diversi delle due prosapie ad una ben determinata realtà cultuale, come si è visto, ma anche perché la vicenda successiva, per quanto fin qui ne sappiamo, ha trovato esiti eclatanti proprio in Agnone e nel Teatino; esiti che, sia pure in altre forme, restano ancora operanti nell’immaginario collettivo. Forse gli stessi sviluppi ascolani passarono anche per Casauria, considerati gli antichi rapporti instaurati fin dal secolo IX, tra i secoli XII e XIV. Forse! Ma è tutto da dimostrare. Restano da completare alcuni dati su Palena. Il significativo documento privato del 28 novembre 1251 è in Archivio Storico Diocesano di Sulmona: Inventario dell’Archivio Capitolare di San Panfilo a Sulmona, a cura di P.Orsini, Sulmona 2003, pg. 454, n. 26, segnato n. 3746. Peraltro tra i testi di questo rogito, che a mio avviso concerne i de Palena, compare anche un Gualterius Raynaldi Manerii. Per la visita pastorale del 1356 si veda di G. Celidonio, Visita pastorale valvense del 1356, alle pp. 159-181 di Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte, anno III, n. 8, Sulmona (ed. De Arcangelis 1899), riedito in anastatica a cura di G. Papponetti, Regione Abruzzo 1992.

*storico

Antonio Alfredo Varrasso

Di Redazione Notizie D'Abruzzo

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