Cgia, la rivalutazione del Tfr è stangata da 6 miliardi per le Pmi

Il boom dell’inflazione ha causato una forte rivalutazione del Trattamento di fine rapporto (Tfr) che alle piccole imprese potrebbe costare quest’anno mediamente 1.500 euro in piu’ a dipendente, provocando un extracosto per queste realta’ con meno di 50 dipendenti stimato, in via prudenziale, in almeno 6 miliardi di euro. I calcoli sono dell’Ufficio studi della Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre che ha ricordato che i dipendenti delle piccole imprese con meno di 50 addetti hanno la possibilita’ di trasferire il proprio Tfr in un fondo di previdenza complementare, oppure di lasciarlo in azienda.

Ogni anno, pertanto, l’ammontare del Tfr accantonato viene rivalutato, cosi’ come previsto dalla legge, dell’1,5 per cento a cui si aggiunge il 75 per cento della variazione dell’inflazione conseguita a dicembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Nell’elaborazione – spiega la Cgia – si e’ tenuto in considerazione che quanto accantonato per ciascun dipendente e’ legato all’anzianita’ di servizio e che a dicembre del 2022 l’inflazione e’ aumentata dell’11 per cento rispetto allo stesso mese del 2021. Pertanto, l’Ufficio studi della Cgia ha ipotizzato che un lavoratore che timbra il cartellino da 5 anni presso la stessa azienda con meno di 50 addetti, la rivalutazione del suo Tfr provochera’ nel bilancio 2023 un incremento dei costi pari a 593 euro rispetto a quanto e’ stato riconosciuto al proprio dipendente sempre con questa operazione nel periodo che va dalla sua assunzione fino al 2020. Se, invece, l’anzianita’ lavorativa e’ di 10 anni, l’aggravio e’ stato di 1.375 euro, con 15 anni di servizio, invece, l’incremento e’ di 2.003 euro. Se, infine, e’ da 20 anni che il dipendente varca ogni giorno le porte dell’azienda, l’extracosto per quest’ultima ha toccato i 2.594 euro. Va segnalato che, tendenzialmente, i lavoratori dipendenti delle piccole imprese hanno un’anzianita’ di servizio piu’ contenuta dei colleghi occupati nelle realta’ piu’ grandi. Imprese, queste ultime, che in virtu’ della corresponsione di retribuzioni piu’ “pesanti” presentano, tendenzialmente, un turn-over meno “accentuato” delle aziende con dimensioni minori. Va altresi’ sottolineato che il numero dei lavoratori dipendenti delle piccole aziende che hanno trasferito il Trf nei fondi pensione e’ contenutissimo. Come dicevamo piu’ sopra, la grande maggioranza dei 6,5 milioni di dipendenti che lavorano nelle imprese con meno di 50 addetti lo “lasciano” in azienda. Ipotizzando che coloro che hanno scelto di non trasferirlo in un fondo pensione complementare siano 4,3 milioni (il 66 per cento circa del totale) e abbiano un’anzianita’ di servizio media che stimiamo pari a 10 anni, la variazione della rivalutazione del Tfr rispetto alla media riconosciuta al dipendente nel periodo che va dalla sua assunzione al 2020, e’ stata positiva e prudenzialmente pari ad almeno 6 miliardi. Insomma, per il milione e mezzo di imprese con meno di 50 addetti presenti in Italia, la fiammata inflazionistica avrebbe comportato, in materia di Tfr, una stangata da brividi che sommato agli effetti riconducibili all’aumento “imprudente” dei tassi di interesse deciso dalla Bce hanno spinto in difficolta’ la gran parte del sistema produttivo del nostro Paese. E’ comunque utile precisare che il Tfr e’ una forma di salario differito; se il dipendente decide di “lasciarlo” in azienda, le conseguenze finanziare possono essere anche negative, cosi’ come e’ successo quest’anno. Tuttavia, e’ comunque auspicabile per l’impresa che il dipendente mantenga questa decisione. Infatti, per fronteggiare la mancanza di liquidita’ che da sempre contraddistingue la quotidianita’ di queste realta’ avere a disposizione delle risorse aggiuntive, sebbene non siano “proprie”, e’ importante. Soldi che, comunque, l’imprenditore ha in “prestito” e deve almeno in parte corrispondere al proprio dipendente quando quest’ultimo durante il periodo lavorativo lo richiede o interamente al termine del rapporto di lavoro. La situazione piu’ critica dovrebbe aver interessato il Mezzogiorno e in particolar modo Vibo Valentia, dove il 91 per cento delle imprese con dipendenti presenti in provincia ha meno di 50 addetti. Seguono Trapani (89,3 per cento), Agrigento (88,7 per cento), Nuoro (88,3 per cento), Campobasso (86,1 per cento), Prato (85,7 per cento), Grosseto (85,6 per cento), Cosenza (85,1 per cento), Imperia (84,7 per cento) e Barletta-Andria-Trani (84,3 per cento).

Di Redazione Notizie D'Abruzzo

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