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L’approfondimento:

 

La storia del Premio Michetti in 100 opere

di Giovanbattista Benedicenti

Domenica 16 aprile 2023 a Francavilla al Mare è stata inaugurata la mostra permanente La storia del Premio Michetti in 100 opere, organizzata dalla Fondazione Michetti con le opere premiate nel corso di oltre settanta anni. L’esposizione ideata dal presidente Andrea Lombardinilo e realizzata insieme al suo staff, coordinato dal segretario generale Stefania Antonucci e dal tesoriere Valerio Cavallucci, vuole riportare l’attenzione del pubblico all’eccellenza di un patrimonio di livello nazionale, rappresentativo di molteplici e complesse tendenze artistiche dalla fine del quinto decennio del Novecento ad oggi. Forse non tutti sanno che il Premio Nazionale di pittura F. P. Michetti, istituito nel 1947 con l’intento di continuare la grande tradizione culturale del cenacolo michettiano, è il più antico d’Italia dopo la Biennale di Venezia e sin da subito ha raggiunto un notevole prestigio culturale grazie al coinvolgimento dei più importanti artisti, critici d’arte ed esponenti della cultura italiana. Come ha dichiarato Carlo Barbieri nel 1955, una delle caratteristiche del Premio Michetti è stata “fin dall’inizio, insieme alla vocazione nazionale che trascende la regione pur non trascurandola… la volontà di rispecchiare il più fedelmente possibile valori e tendenze vitali dell’arte di oggi”. Nel corso degli anni il Premio è stato sempre attento a contemperare spinte moderniste e linguaggi della tradizione, ponendo in equilibrio la valorizazzione del genius loci e l’apertura alla scena artistica nazionale ed internazionale. Inoltre ha sempre cercato di garantire uno spazio di libertà espressiva, di confronto onesto e rispettoso, anche nei momenti di più accesi contrasti, mantenendo il giusto equilibrio tra tutte le parti dialoganti: gli artisti, i critici e gli esponenti della cultura letteraria, la stampa, l’editoria, i mecenati, i galleristi, i collezionisti e il pubblico in generale. Percorrere le sale di questa mostra equivale, quindi, a compiere un affascinante viaggio nel tempo, a sfogliare un grande libro di storia dell’arte contemporanea dal secondo dopoguerra a oggi, rappresentata da artisti di svariate provenienze e culture.

Il percorso prende avvio con Equilibristi di Italo Picini del 1949, che pur attraverso gli scarsi mezzi a disposizione, esprime un giocoso, scalpitante futurismo in tono minore, in chiave quasi collodiana, il modo giusto per ripartire nell’Italia del dopoguerra, lontano da qualsiasi retorica. Nel 1951 vengono premiati tre pittori, che si attestano per vie diverse su posizioni più tradizionali. Il campano Vincenzo Colucci, sull’onda lunga del tardo-impressionismo, con Place St. Germain riscatta la sua posizione fuori tempo massimo attraverso la sincerità dell’ispirazione en plein air. Il veneziano Carlo Dalla Zorza, partendo da premesse post-impressioniste, raggiunge con Burano invernale un convincente risultato espressionista, tutto giocato sui toni umidi del grigio-azzurro in contrasto con l’affocata accensione del brano centrale. Una posizione del tutto asincrona è invece occupata da Luigi Pera con Primavera, dall’umile e strapaesana poesia naïf. Una stimmung ancora post-bellica segna l’espressività malinconica dell’Autoritratto di Alberto Chiancone del 1952, in sintonia con le istanze più sentite del contemporaneo neorealismo. L’anno successivo è la volta di Venezia minore di Giuseppe Cesetti, dove la stilizzazione delle forme è animata da magici refoli di colore.

Una svolta in senso modernista è segnata nell’edizione del 1954 da Paesaggio di Parigi di Sante Monachesi e da Composizione di Enrico Prampolini, il primo costruito attraverso una tassellatura di colori che risplendono nell’atmosfera argentina tipica della ville lumière, il secondo tutto giocato sui ritmi di un’astrazione aeropittorica di origine futurista, attraversata da lemmi di ascendenza suprematista. Le Casette tra gli alberi di Enrico Paulucci (1955) brillano di luce come miracolosi chiari del bosco entro un mondo scandito da una scomposizione analitica di origine cézanniana. Il bolognese Bruno Saetti con Maternità del 1956 si pone in perfetto equilibrio tra astrazione e figurazione primitivista. Totalmente vocato alla libertà del colore è il napoletano Domenico Spinosa, che sembra partire dalla lezione di Bonnard per spingersi oltre. La sua Natura morta con manichino del 1957 sfocia in un’estatica astrazione di luce, che dell’origine figurativa indicata nel titolo conserva solo un aspetto larvale.

Nel 1958 viene premiato con l’olio dal titolo Lanterne Fiorenzo Tomea. Lo si direbbe un cugino povero di Giorgio Morandi, testimone a suo modo di una metafisica degli umili oggetti di un’appartata quotidianità, delineati attraverso un tratto secco, quasi da ferro battuto, così lontano dal corposo plasticismo senza tempo del grande eremita bolognese. Agli antipodi stilistici rispetto a quest’ultimo si colloca l’astrazione fosforescente del napoletano Guido La Regina, che si aggiudica il premio nel 1959 con Spazio blu, vicino alle visioni spazialiste di ispirazione elettromagnetica sperimentate nello stesso periodo da Roberto Crippa. Nel 1960 il torinese Sergio Saroni presenta un quadro dai toni crepuscolari intitolato Nel campo, un frammento sfocato di realtà agreste, quasi un intrico di sterpaglia, che diventa l’occasione propizia per un’indagine astratta sulle potenzialità generative e ancestrali della materia ctonia. L’anno successivo segna il ritorno della pittura figurativa con i premi conferiti a Domenico Cantatore e ad Achille Funi. Il primo ritrae un’Odalisca dal sorriso enigmatico, recumbente come un antica matrona etrusca o una arcaica dea mediterranea, gli occhi vuoti come le figure di Modigliani, la corporeità florida come le donne del periodo classicista di Picasso. Funi, storico protagonista del gruppo Novecento, ottiene un riconoscimento alla carriera con Maddalena penitente, un nudo di nobile sapienza monumentale e di carattere decisamente accademico. Nel 1962 vengono premiati il pescarese Alfredo Del Greco con l’acrilico su tela intitolato Presenza nello spazio-tempo 23 e il cesenate Alberto Sughi con l’olio Uomo sul letto. Nel primo lavoro, in un contesto minimalista in tensione verticale l’apparizione spettrale, quasi radiografica, di una sagoma umana, suggerisce la sensazione di nuove e ignote dimensioni spazio-temporali. Nel secondo quadro, in un ambiente buio e reietto un uomo disteso sul letto con una sigaretta in mano prefigura nella sua tragica solitudine il suo essere già cadavere: una riflessione cupamente pessimista, che esprime una meditatio mortis nei termini di una figurazione post-moderna.

Tre differenti visioni paesaggistiche sono al centro dell’edizione del 1963. Evocazione Abruzzo dannunziano del torinese Riccardo Licata è una composizione frastagliata di forme astratte e bidimensionali di vago senso amuletico e ancestrale, tutta giocata sui toni luminosi delle sabbie e delle ocre leggere. Il bosco d’Abruzzo del triestino Carmelo Zotti è come un grande, fiabesco albero di fili di lana colorata aggrovigliati come matasse, rami ritorti e ondulati come serpenti, frutti che si aprono come bocche spalancate di piccoli uccelli, radici che penetrano in fenditure profonde a suggere i nutrimenti terrestri. Descrizione di un paesaggio del napoletano Carmine Di Ruggiero sembra una visione sottosopra causata da una rocambolesca capriola dimensionale, dove si mescolano e sovrappongono fino ad identificarsi il buio e la luce, il più alto e il più basso, l’elemento più superficiale e quello più profondo.

Il 1964 è l’anno di Fausto Pirandello, premiato con l’olio dal titolo Bagnanti, capolavoro espressionista bagnato dalla luce zenitale di un sole che brucia come ferita, dove il pianto che si stringe in gola si trasforma in un sorriso. In questo particolare tipo di umorismo, in questo caos contraddittorio della condizione umana, risuona quale eco insopprimibile la voce del padre.

L’edizione del 1965 si pone all’insegna dell’astrattismo con due versioni molto diverse di questa tendenza. La prima, in chiave espressionista, è rappresentata da La vigna del lucchese Arturo Carmassi, che, a dispetto del titolo, è un pullulare energico di colori, in cui il tono dominante è il rosso acceso, che scorre in senso lavico e deflagrante. Una lotta corpo a corpo con la pittura, che sta a metà strada tra i paesaggi autunnali di Vlaminck e le esplosioni dripping di Pollock. Un’altra versione dell’astrattismo è offerta dal bolognese Sergio Romiti con la sua Composizione, liricamente fluttuante e discontinua come uno stream of consciousness, dove i vuoti sono importanti come i pieni, come nella musica le pause e i suoni.

Arriviamo al 1966 con il visionario Giannetto Fieschi, lombardo di nascita ma genovese di adozione. La sua Geometria persino subumana è un sogno dadaista e meccanomorfico, composto come un collage berlinese degli anni Venti, che mescola varie citazioni, dalla scacchiera optical di Vasarely alla spirale roteante dell’Anémic Cinéma di Duchamp, gorgo concentrico del nostro inconscio, dove cadono e rinascono ricordi, emozioni e parole. Allo stesso anno risale il Modellato in tre parti del torinese Marcolino Gandini, un trittico dipinto in stile astratto-geometrico su assi di legno non perfettamente allineate, che sembra alludere metaforicamente al mondo delle industrie e delle telecomunicazioni, fatto di interconnessioni rapide ed efficaci. Sulla linea dell’astrattismo si conferma il premio del 1967, anche quest’anno sdoppiato. Uno dei vincitori è il romano Piero Dorazio con Blu note, trasposizione pittorica di onde sonore che, come suggerisce il titolo, fa pensare alla musica jazz, ma con un’inflessione pop psichedelica. L’altro beneficiario del premio è Enzo Mari, grande designer attivo a Milano, con Struttura 860, in alluminio anodizzato, dove il ritmo geometrico delle forme quadrate è scandito da uno spirito razionalista che non lascia fuori nemmeno il caso, cinetico e insieme programmato.

Nel 1968 viene premiato l’artista Mario Ceroli, di origine abruzzese, ma formatosi a Roma e a New York, specialista nella lavorazione del legno. Nell’opera Al negativo due sagome di profilo in profondità all’interno di uno spazio trapezoidale si contrappongono l’una di fronte all’altra, a testimoniare l’anno più fervido della rivoluzione studentesca. Utilizzando un materiale povero (assi di legno da imballaggio), l’artista raggiunge un risultato di qualità decisamente pop, ponendosi in sintonia con le ricerche dei colleghi di questa tendenza in Italia e in America. Sembra quasi inconsapevolmente dialogare con Ceroli l’altro vincitore dello stesso anno, il pittore Gianfranco Ferroni, di origine livornese ma di formazione milanese. Nel suo quadro Memoria di un ambiente una sagoma umana di profilo, di ricordo quasi dechirichiano, appare all’orrizonte di una nuova figurazione surrealista dai toni intimisti e crepuscolari.

Molto variegata l’edizione del 1970 con tre premiati culturalmente molto diversi. Il padovano Alberto Biasi, con Politipo A, elegante composizione geometrica in optical style; Angelo Cagnone, di origine ligure ma milanese di adozione, con Oggetto sconosciuto, dalla raffinata astrazione di origine fossile o dendroscopica; il bolzanino Massimo Radicioni, con 2000/A – le notti di Bourgogne, un racconto fiabesco e surrealista che fa pensare a certe iconografie fantasmagoriche di Ernst. Nel 1971 emergono altri tre pittori del Nord Italia. Il veneto Carlo Maschietto, con la Visione simultanea di un martirio, fa il verso a Francis Bacon, raggiungendo uno stadio surrealista di lacerante espressionismo. Gli fa da contrappeso l’algida astrazione rigorosamente calibrata del torinese Giorgio Ramella, che nel suo Teorema n. 2 immagina una misteriosa forma hi-tech quasi illuminata al laser, di suggestione fantascientifica. L’emiliano Maurizio Bottarelli in Maggio 1970 pone in primo piano un intreccio di gangli anatomici di un grande organismo non meglio identificabile, a rappresentare come l’unità e la forza del tutto derivi dalla saldezza delle connessioni strutturali che lo compongono. Se provassimo ad interpretare questa immagine come un corpo sociale, il titolo dell’opera potrebbe alludere all’evento più importante di quel mese, la Legge 20 maggio 1970, n. 300 sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, risultato di anni di mediazioni politiche e di lotte sindacali, drammaticamente combattute nel fervore di una coscienza di classe sempre più salda.

La memoria storica appare rievocata in due dipinti premiati nel 1972. Il tondo del pittore napoletano Armando De Stefano, A Tommaso Aniello, dedicato al leader e martire della rivolta partenopea del 1647, esprime una grande sapienza disegnativa e chiaroscurale, che aggiorna l’antica tradizione figurativa con le istanze della modernità. Ad un altro eroe della storia del Sud Italia, ma del periodo risorgimentale, Guglielmo Pepe, fa riferimento un altro pittore campano, Crescenzo Del Vecchio. Nel suo acrilico Da Pepe ai giorni nostri il grande generale dell’Ottocento diventa un’icona pop in contrasto con la giocosa e sgangherata passerella di nanerottoli che passano sopra la sua testa, come a ridicolizzare il celebre aforisma di Bernardo di Chartres “Nani sulle spalle dei giganti”. Il cavallo posto ironicamente più in alto, come ultima parte del rebus, potrebbe alludere al celebre aneddoto dell’imperatore Caligola, che in mancanza di persone degne, nominò console il proprio destriero. Nello stesso anno sono premiati anche il torinese Pietro Gallina con il monocromo pop in leggero rilievo Oggi giallo e il romano Claudio Olivieri con Magnum, elegante e vaporosa indagine sulle qualità spazio-temporali del fenomeno luministico, dai toni trasognati e magicamente fluorescenti.

Nel 1973 vengono posti a confronto artisti italiani e jugoslavi. Tra questi ultimi, presentati dal critico Zoran Zrzinisk, sono premiati Mehmed Zaimovich con Cassetta musicale, giocosa e variopinta composizione surrealista ispirata a Mirò; Joze Ciuha con Macchina, surrealista anch’essa, ma dai toni notturni e un po’ inquietanti; Andrej Jemec con Variante X, elegante composizione astratta di forme ondulate dai toni bluacei e violastri, che ricorda nel disegno la lezione di Arp. L’anno successivo, insieme a ventiquattro artisti italiani vengono invitati altrettanti giovani artisti spagnoli, tra i quali emergono Luis Eduardo Aute, con Mater intemerata, accorato omaggio alla madre coraggiosa che accetta e ama suo figlio in qualsiasi condizione di salute egli nasca, e Agueda De La Pisa, con Salto/Incomunicado, astrazione surrealista condotta attraverso eleganti toni di grigio. Tra i migliori italiani il bresciano Giuseppe Gallizioli con L’ultimo viaggio di Barba Piero, una luminosa e fiabesca narrazione condotta con un disegno nitido e leggero, che riflette echi dai mondi del fumetto e del cinema di animazione; e infine il folignate Romano Notari con Illuminanti a quattro momenti, caleidoscopica composizione di spirito magico e surrealista.

Nel 1983 si impone all’attenzione l’artista sarda Maria Lai, con il raffinato lavoro cucito su tela dal titolo Geografia, lirico, meticoloso ma non didascalico, a tratti sapientemente slabbrato a suggerire lacune che si aprono come ferite, ma anche attraversato da sottili legami spaziali, che lo accordano con il cosmo. Sempre al 1983 risale l’olio del veneto Angelo Titonel, Vendita di parrucche umane/artificiali, esempio di realismo magico e notturno, che si volge ad ammirare modelli americani come Hopper. Nello stesso anno l’abruzzese Claudio Verna con Pittura dichiara la sua totale attrazione per il colore puro, qui liberamente disteso con ampi e veementi tratti di verdi fluttuanti su fondo azzurro fino a raggiungere un risultato estatico, sulla scia di ciò che gli ha idealmente suggerito Monet al Jeu de Paume: ritrovare l’edenica felicità perduta attraverso la contemplazione panica della natura, nella fusione luminosa di vegetazione, acqua e cielo. Alla stessa fonte pittorica può essere vagamente associato anche Piero Di Terlizzi, con il dittico Marea, in cui però gli elementi ondulati e violacei che scendono verso l’acqua esulano da qualsiasi riferimento naturalistico per acquisire un senso dichiaratamente pop e surrealista. Al tema marino, scelto dal curatore Enrico Crispolti per l’edizione del 1986, sono ispirate tutte le opere di quest’anno, come il Mosaico – Mare n. 2 del barese Mimmo Conenna, in cui la figura del pesciolino, che ricorda l’analogo soggetto dipinto da Klee, è accompagnata dalla spirale, simbolo del numero aureo, che governa l’armonia delle forme naturali. Di ispirazione più antropologica sono i lavori di Mauro Berrettini (Grande monile mediterraneo, marmo, legno e bronzo), Giorgio Russi (Presagio, tecnica mista con pietre) e Loreno Sguanci (Tavola dei segni, incisione su legno).

La grande esposizione curata nel 1987 da Achille Bonito Oliva mette a confronto il mondo europeo con quello americano, a partire dalla corrente freddamente minimalista, rappresentata da Tamas Banovich (Graph bar project) e Per Barclay (Senza titolo 1), al surrealismo ancestrale, pullulante di vita, testimoniato da Doris Bloom (Senza titolo) e Paola Fonticoli (Senza titolo), con un anello di congiunzione tra i due poli trovato in Mitchell Kane (Untitled). Mentre isolato nel mutismo della sua insondabile incomunicabilità si erge il trittico Senza titolo di Gianfranco D’Alonzo del 1989 (pochi mesi dopo sarebbe crollato il muro di Berlino), Cordelia Von Der Steinen varca con coraggio la soglia della storia ne La porta, un piccolo e sapido bronzo del 1991.

Nell’edizione del 1992, curata da Renato Barilli, oltre l’astrattismo intimista di Andrea Carnemolla (Soglie reticolari), predomina il linguaggio pop declinato in varie maniere: l’installazione street della coppia bolognese Cuoghi e Corsello (Proiezioni su bandiere), il minimalismo neoplastico del plexiglas di Alberto Zanazzo (Living in the gap) e infine l’installazione in gomma, anch’essa minimalista, di Gaetano Sgambati (Senza titolo).

Il 1994 si ricorda per due opere poste all’insegna della leggerezza e della semplicità, due qualità difficili da ottenere se non attraverso un sapiente processo di spoliazione del superfluo: una scultura di Roberto Almagno, Malena 1993, in noce, ornello e rame, che grazie alla sua forma esile da bacchetta magica, riesce a catturare energia come un parafulmine. E poi un dipinto ad ossidi, pigmenti e resine su vetro di Luca Caccioni, Carme XX finzione 1994, poesia di pura luce, simile al volo leggero e sfocato di un polline nello spazio bianco dell’anima. Sulla stessa scia di lirica essenzialità si pongono le opere del 1995: una scultura in bronzo di Tito Amodei, Abside occupata, carica di una tensione spirituale di stampo primitivista, e due lievissimi disegni a matita su carta di Augusto Perez, Senza titolo, dove si percepisce l’espressionismo innocente dei freaks, come alonato da una nuvola di fumo.

Nel 1996, all’interno della mostra curata da Flaminio Gualdoni, erompe vulcanica e travolgente la forza del giovane Luca Lampo, con il grande olio su carta Senza titolo, un’esplosione orgiastica di toni rosa e arancio a mala pena marcati dal guizzante fosco bitume. Nel 1997 si torna a respirare un’aria più leggera, nel senso calviniano del termine, con due autori. L’abruzzese Rocco Sambenedetto, il cui Viaggio a tempera su carta è quello interiore che il pittore compie giocando con i colori e con la luce nella libertà della sua mente. Un altro paesaggio dell’anima è quello descritto in modo allo stesso tempo minuzioso ed essenziale da Tullio Pericoli, Lago asciutto, acquarello e china su carta, che sarebbe piaciuto molto a Italo Calvino, soprattutto per quelle “matituzze”, quei piccoli strumenti per il disegno e la scrittura che giacciono lì in fondo al bacino riarso, muti testimoni di coloro che un tempo li hanno impugnati e che come l’acqua sono scomparsi.

Nel 2000 in occasione della mostra Europa, differenti prospettive nella pittura, organizzata da Giovanni Romano, le scelte finali appaiono un po’ deludenti rispetto alle previsioni: un acrilico Senza titolo di Gabriele Picco, burlesca e irriverente satira sul tema dell’omofilia e dello spirito di squadra; un vuoto Parcheggio di Franz Baumgartner, disilluso squarcio di solitudine esistenziale, dominato dalla materia sorda dell’asfalto.

Dopo l’esposizione del 2001 a cura di Angela Vettese dedicata all’incontro con i paesi balcanici, si susseguono altre edizioni dedicate al confronto tra arte italiana e altre aree del globo: l’Argentina nel 2002, il Giappone nel 2003, la Cina e gli altri paesi orientali nel 2004. Del 2002 sono presenti The birillions di Paolo Fiorentino. Due erme di stile neoclassico, terminanti ognuna con un malinconico efebo, affiancano una grande tela a monocromo rosso con una piccola nuvola arancione al centro. Sull’erma sinistra è disegnata in piccolo formato una rovina romana, su quella destra un paesaggio industriale. Malinconia quindi, per la grandezza passata e per il disastro climatico presente. Nel 2003 Tito Rossini ne L’ora dell’Angelus trova la via giusta per il suo personale realismo magico: una giovane donna gravida riposa nuda nel silenzio della sua stanza, cullata da un alito di vento che entra dalle persiane aperte in un tardo pomeriggio d’estate. La forma ovale del suo ventre da lei stessa accarezzato, riflessa nella sua testa, nel tavolo e nelle uova che esso contiene, rappresenta la bellezza della vita che cresce nel più recondito alveo della natura, quello materno, fonte più alta di contemplazione. Sempre sul mistero dell’esistenza riflette, in modi diversi, l’artista cinese Hai Bo, autore nel 2004 del dittico fotografico Three sisters. In esso sono messe a confronto due fotografie, che ritraggono le stesse sorelle: a sinistra in età adolescenziale, a destra in età avanzata. Ma in questa seconda immagine delle tre persone iniziali ne rimangono solo due e proprio nel vuoto lasciato sulla sinistra dalla sorella mancante sta la parte più attrattiva e dolente della fotografia, quella che Roland Barthes ne La camera chiara chiama punctum.

Nella mostra In & out, opera e ambiente nella dimensione glocal, curata nel 2005 da Luciano Caramel, viene segnalata la scultura di Marc Didou, Signe de l’autre 1, in bronzo, acciaio e pietra, una forma ambigua, qualcosa di autre, come dice il titolo, che coglie la quintessenza concettuale dell’arte. Nell’esposizione intitolata Laboratorio Italia, organizzata nel 2006 da Philippe Daverio, viene scelta una piccola e preziosa tela di Maia Kokocinski, Passi lontani, dove una giovane donna, seduta in solitudine su di un’antica panca con basi a zampe leonine, sembra stia percependo un’altra presenza, alla quale allude il titolo. Ma nemmeno la misteriosa ombra lunga alla sua sinistra riesce a incrinare l’intima atmosfera contemplativa con gli accenti ansiosi del noir.

Per l’edizione del 2008 curata da Maurizio Calvesi, Anna Imponente e Augusta Monferini con il titolo I labirinti della bellezza, viene premiata l’eleganza calligrafica di Oan Kyu, Scrittura prima della scrittura, in munk ink su carta orientale intelata. All’interno del Diorama italiano, organizzato nel 2010 da Carlo Fabrizio Carli, vengono scelti una scultura di Angelo Casciello, L’arco di Ulisse, in ferro e marmo di Carrara, essenziale nella sua tensione lirica, concettuale e insieme monumentale, e inoltre l’olio su tela Untitled di Francesco Cervelli, raffinato iperrealista, che sembra trarre ispirazione tanto dalla metafisica quotidiana di Hopper quanto dalla inquietudine visionaria del cinema di Lynch.

Il 2012 è l’anno di Popism a cura di Luca Beatrice, rappresentato da Moto triton di Chris Gilmour, una motocicletta di cartone in formato reale, virtuosistico oggetto pop, che esalta l’estetica dei motori in chiave ironica e giocosa.

Dalla mostra La Bellezza necessaria del 2013 emergono tre opere, tutte di natura figurativa. La monumentale composizione di Christian Balzano, E se nell’attesa…, in tecnica mista su cartone, a suo modo geniale nell’utilizzo mimetico delle lamelle di cellulosa ottenute dai sapienti tagli e sollevamenti delle superfici appena macchiate di bianco, raggiunge un risultato visionario e spettrale. Composto ed equilibrato è invece il paesaggio Skyline, gasometro, dipinto secondo una tecnica più tradizionale da Giuseppe Modica, una specie di Canaletto dei nostri giorni. Potente e tragico è invece il messaggio di Agostino Arrivabene in Eroico furor, una figura di uomo inginocchiato che, inarcando il suo corpo nudo con effetto fotodinamico, espelle una forma amebica di luce, forse l’anima nel momento supremo del trapasso.

Nel 2014 Tiziana D’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma, viene invitata a curare la mostra Alimento dell’anima, nella quale la giuria seleziona tre artisti. La pittrice orginaria di Belgrado Ana Kapor, affascinata dalla pittura italiana del primo Rinascimento, compone l’olio su tela Silenziosi equilibri, con uno spirito di incanto fiabesco e di dolce modulazione prospettica, che nel brano di campagna saliente verso la città turrita in lontananza, ricorda un analogo scorcio dipinto da Paolo Uccello nel San Giorgio e il drago al Musée Jacquemart-André di Parigi. Dalla misteriosa cultura dell’antico Egitto è invece attratto Andrea Lelario, come già ci dice il titolo della sua acquaforte Horos, una specie di ponte spaziale, dalla forma aerodinamica perfetta, inclinato in senso protettivo verso la terra, ma anche proiettato verso il cielo stellato. Lontanissimo da queste visioni magiche e simboliste sta invece l’espressionismo astratto, disinibito e tellurico di Vincenzo Scolamiero. Nella sua pittura, Per sottrazione, limite instabile, sembra ingaggiare una specie di furibondo combattimento con la materia, che attraverso i potenti contrasti di luci e di ombre, di ricordo vedoviano, raggiunge un esito altamente drammatico.

Nel 2018 Renato Barilli torna a curare il Premio con una mostra dal titolo Che arte fa oggi in Italia, da dove escono vincitori Matteo Montani (La luce domani, olio e polveri di bronzo) e Lucia Veronesi (La stanza addosso, stampe e pigmenti su carta), entrambi portavoci, in modi molto diversi, di un certo disincanto distopico e insieme sottilmente euforico, nella misura in cui arriva a compiacersi dei propri risultati estetici.

Per la settantesima edizione del Premio nel 2019 Anna Imponente e Claudio Cerritelli inaugurano la mostra Attraversamenti, tra arte e fotografia, che dopo l’allestimento a Francavilla viene trasferita a Napoli presso il Museo di Villa Pignatelli. A questa edizione appartengono il trittico Ritratto di un amico di Vito Bucciarelli (stampa digitale su cotone) e Cielo di Nataly Majer (fotografia su dibond), entrambe giocate su sottili istanze concettuali e forti tensioni emozionali.

Nel 2020, nonostante le limitazioni dovute alla pandemia, il Premio è stato celebrato con la mostra L’aureola nelle cose: sentire l’habitat, a cura di Guido Molinari, docente di psicologia dell’arte presso l’Accademia di Bologna. Entrambi gli artisti vincitori, Pierpaolo Campanini e Sara Enrico, riflettono ciascuno a suo modo, sull’aura emotiva che un oggetto può assumere quando entra in contatto con la nostra dimensione spirituale.

Per l’edizione del 2021 Michetti, Spalletti e nuovi paesaggi con o senza figura, a cura di Daniela Lancioni, viene premiato Leonardo Petrucci con SOL 2081, su tappeto di lana, che sembra ritrarre una misteriosa apertura circolare su una roccia: allusione forse all’omphalòs ancestrale dal quale nasce la capacità divinatoria? Ogni artista è in fondo anche profeta. Sul tema naturalistico, ma svolto in chiave paesaggistica, si incentra anche l’interesse dell’ultimo artista presente in mostra, Velasco Vitali, vincitore della scorsa edizione del 2022 curata da Nunzio Giustozzi, con Goldwatch n. 13, ad olio e smalto su tela. In questi sapienti e delicati snodi vegetali, che si stagliano sui fondali rilucenti di oro al fremito leggero dell’alba, ci sembra di percepire la consapevolezza che il nostro può essere ancora il migliore dei mondi possibili, il desiderio di tornare ad ascoltare leopardianamente “questa voce”, la voce della natura, come unica via per salvare il nostro ambiente ed insieme la nostra stessa umanità.

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Di Redazione Notizie D'Abruzzo

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