"Ogni luogo può avere il suo fascino, anche i luoghi considerati brutti possono avere una dimensione estetica, la differenza non è dove ti trovi, ma chi hai davanti, le persone, i loro volti, le loro storie, le loro voci e i silenzi danno luce e speranza alla vita e al pianeta che abitiamo". Luciano D'Angelo, fotografo tra i più rappresentativi in Italia, un lunga carriera di reportage per il Turing club, Airone, per l'editore Conde Nast, collaboratore di National Geographic, ha lavorato per Einaudi, per Eni, Quantas, e numerose compagnie di Stato. Nel suo ruolo di fotografo si è spinto in territori di frontiera sulle orme dei Berberi, e poi in Turchia, Siria, Marocco, Etiopia, Algeria, Libia, Kudistan. "Ci sono posti dove le persone le puoi capire con un solo sguardo, quando gli occhi si incrociano c'è tutta l'umanità, la storia, i desideri, le sconfitte, la saggezza del silenzio e la forza dell'anima".
Cosa colpisce un grande fotografo come lei?
"Il mistero dell'incontro umano. I luoghi emanano storia, cultura, bellezza o decadenza. L'uomo invece è incontro, e le mie foto gravitano in questa forza magnetica della esperienza umana. Cogliere la dignità, l'etica, l'eroismo nelle piccole cose che svelano grandi gesti"
Può farci qualche esempio?
"I bimbi e le donne della Etiopia che devono fare chilometri per rifornirsi di un poco di acqua. Lo sguardo di un uomo berbero che solo con l'intensità degli occhi, del loro linguaggio mi ha fatto cogliere la fierezza, la dignità e l'eroismo di essere liberi, di aver lottato per la libertà. Da questo incontro, ad esempio, è nata una mostra: "Amazigh" che in berbero significa uomo libero. Gli incontri se sono veri ti cambiano, ti arricchiscono profondamente, io ho avuto molto".
Quali posti ha sentito più intensi?
"Alcune zone della Turchia dove sono stato dieci volte, nel Kurdistan, in punti dove il Tigri e l'Eufrate si incontrano. Una visione indimenticabile. La città di Aleppo in Siria che ho visitato tante volte, stretto amicizia con persone straordinarie, molte delle quali hanno studiato in Italia. Aleppo era una città da sogno, e oggi mi addolora profondamente vederla rasa al suolo. E, ancora, Sebrenica, dove ho conosciuto le donne che subirono violenze indicibili, sono stato loro ospite. In ogni cosa c'è il mistero della vita, della sua fragilità, della lotta, dell'ignoto, della grandezza dell'uomo, della sua forza e del suo dolore. Come fotografo per me questo è il bello, saper cogliere questa luce umana che da calore, colore, significato all'esistenza".
Cos'è la fotografia per lei?
"La foto è un viaggio verso la vita, verso la compressione dell'altro. Spesso da noi ci lamentiamo delle banalità del quotidiano mentre non sappiamo nulla dell'eroismo silenzioso di tante persone. Noi apriamo il rubinetto ed esce acqua, milioni di persone invece devono lottare duramente per averne un po' per dissetarsi. La foto è testimonianza della sfida e dei sacrifici umani".
Violenza alle donne. Il Centro Ananke: da noi tanti casi famigliari, ma in molte si ribellano
Violenza alle donne. Il Centro Ananke: da noi tanti casi famigliari, ma in molte si ribellano
Un fenomeno sommerso, violenze che durano anni, taciute e che spesso sfociano in drammi familiari. Doriana Gagliardone, del direttivo di Ananke il centro anti violenza donne, è una veterana nel difficile cammino di incontro, e "ricostruzione del sè" di quante hanno subito maltrattamenti e poi sono riuscite ad uscire dal tunnel e rifarsi una vita, senza mariti o partner violenti.
Come è nato il centro Ananke?
"Lo sportello anti violenza è stato aperto nel 2005, subito dopo siamo diventati centro anti violenza, ossia una struttura disponibile 24 ore su 24, con delle operatrici, con la capacità di seguire da vicino chi ne fa richiesta. Molte donne si avvicinano in modo riservato e noi garantiamo l'anonimato e riusciamo a dare un sostegno per anni. Ma la donna ha sempre una piena autonomia sulla scelta che intende fare".
Dove e come si attuano le violenze?
"È un fenomeno sommerso che nella maggior parte dei casi riguarda le relazioni intra famigliari e sono il 90% delle storie che arrivano al nostro centro. La violenza si consuma all'interno della casa, il violento e maltrattante aleggia trae mura domestiche, no si tratta della violenza dello straniero, ma quasi sempre è un maltrattamento che arriva dal marito, dal compagno da un ex partner".
Cosa proponete e fate verso chi si rivolge da voi?
"Il centro segue la donna in un percorso di uscita dalla violenza che può durare anche anni, non è semplice. Le dinamiche sono complesse. Le figure all'interno di un centro anti violenza sono diverse, ma quella centrale è l'operatrice di accoglienza che segue la storia della donna e con lei progetta, fin dove è possibile, un nuovo percorso di vita, le scelte sono fatte insieme alla donna. Si tratta sempre di questioni delicate e intime, ma poco a poco la donna si apre e ti racconta la sua storia. Il nostro impegno è rafforzare la sua autonomia, la ricostruzione del sé e il riconoscere di avere subito violenza. Poi subentrata la capacità di uscire fuori da una vicenda sentimentale e famigliare senza di lui".
Dove nasce la violenza?
"La violenza è spesso frutto della cultura e dei modelli e ruoli dominanti. Non parliamo di semplici conflitti che possiamo considerare normali all'interno di una vita di coppia, ma di violenza esercita con le umiliazioni verbali, psicologiche, e talvolta con la forza. Un tunnel sempre più inaccettabile per molte donne che riescono a ribellarsi".
Il Masterplan delle aree portuali
Il Masterplan delle aree portuali
Il Masterplan delle aree portuali di seguito illustrato costituisce un indirizzo di pianificazione di un contesto infrastrutturale e urbano di valore strategico per il futuro della città:
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intanto per il ruolo economico e sociale che queste aree rivestono nel vasto sistema urbano di cui sono un riferimento, inserito nel territorio più ampio del medio adriatico;
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per il "genius loci" identitario di luogo di incontro e di conflitto tra gli elementi naturali e quelli artificiali presenti e per la qualità infrastrutturale e dell'architettura anelate e necessarie che da sempre raccontano questo particolare territorio della costa adriatica;
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soprattutto per lo sviluppo della cultura della sostenibilità e dell'innovazione possibile nel campo della mobilità e delle energie rinnovabili, nella direzione di una concreta "smart city".
Il Masterplan delle aree portuali contestualizza i programmi infrastrutturali previsti, e in parte finanziati, dalle istituzioni regionali e locali per l'ambito portuale della città di Pescara considerando anche la formidabile opportunità della rigenerazione delle aree dismesse dell'ex Mercato Ortifrutticolo denominato "Cofa".
Le infrastrutture progettate e finanziate dalla Regione in quest'area strategica per il futuro della città riguardano essenzialmente la realizzazione dei nuovi moli del porto canale di Pescara deviati e prolungati fino al superamento della famigerata "diga foranea" ed il collegamento, a cura dell'ANAS, dello stesso porto con l'asse attrezzato che attualmente scende fino a Piazza della Marina.
La realizzazione dei nuovi moli prevede la costruzione di una Piazza sulla riva sinistra del fiume, all'altezza della "Madonnina", in corrispondenza dello "slargo" esistente in quella zona del porto canale. Al di sotto della suddetta Piazza, il piano prevede la costruzione una vasca di laminazione del troppo pieno della centrale di sollevamento delle acque reflue del collettore rivierasco. La vasca, di circa 20.000 metri cubi di capienza, impedirà lo sversamento diretto nel fiume e poi nel mare dei reflui fognari del collettore nei giorni di pioggia e costituirà un elemento utile al concreto disinquinamento del mare. Il piano inoltre prevede la verifica della fattibilità di una seconda vasca di laminazione, di circa 50.000 metri cubi, in funzione di un pur parziale contenimento dell'innalzamento delle acque del fiume in caso di piena, attraverso la semplice copertura della porzione di canale esistente che verrà abbandonato in seguito alla realizzazione dei nuovi moli, in luogo del suo riempimento.
Risulta inoltre di sicuro interesse, ciò che è largamente prevedibile si realizzi a ridosso del molo nord del porto canale, una volta costruiti i nuovi moli. E' prevedibile infatti che nel giro di pochi anni si sviluppi, in modo completamente spontaneo e autonomo, un accrescimento sabbioso, così corposo da prolungare la spiaggia fino alla diga foranea. Il risultato sarà la creazione di un'area naturale speciale, per la sua condizione urbana, utile sia alla balneazione che alla tutela di habitat naturali di flora e fauna della costa.
Il presente Masterplan configura l'assetto definitivo delle banchine e delle barriere a mare del nuovo porto previste dal nuovo prg del porto recentemente approvato, con una leggera correzione del braccio di levante, qui configurato in modo da impedire ai venti proventi da est (il Levante, lo Scirocco, ecc.) di penetrare all'interno del bacino portuale rendendo insicuri i rientri e gli stessi attracchi.
Sul molo di levante esistente e a ridosso del muro di separazione del porto turistico con quello commerciale, invece, allo scopo di produrre energia rinnovabile e pulita, sono previsti impianti di minieolico sia di tipo verticale che di minipale. Saranno studiati per essere realizzati anche innovativi impianti capaci creare energia rinnovabile dallo sfruttamento dei flussi e dei movimenti ondosi in corrispondenza delle barriere artificiali dei moli e delle dighe foranee a mare.
Per aiutare la locale capitaneria di porto al controllo portuale e doganale, il piano prevede la realizzazione di una struttura in pilastri, travi e pareti di legno e vetro posta al di sopra del muro di separazione del porto turistico, nella sua parte iniziale.
Il resto del progetto sviluppa l'idea di un "hub" della mobilità sostenibile da realizzare nelle aree dell'ex Cofa. L'insieme delle proposte qui contenute configurano l'idea di Pescara città innovativa e intelligente.
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Fahrenheit 451
Fahrenheit 451
«Le idee non sono di nessuno» disse.
Disegnò in aria con l'indice una serie di cerchi continui, e concluse: «Volano lì in giro, come gli angeli.» da " Dell'amore e d'altri demoni"
di Gabriel Garcia Marquez
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Tommaso, sotto le note improvvisate di un Jazz di strada, mi dice che lui non scriverà più. Ha appena finito di leggere La macchia umana di Philip Roth[1]e nulla gli sembra sia più da comporre. In realtà lo dice ogni volta che un libro, … puntualmente tatuato di caffè e tediato da mille piegoline, gli urla muto la sua anima. …Si, scriverà ancora-penso io senza dirglielo -…anche quelli che considera pezzi brutti e metriche sterili … Tutti possiamo creare bellezza. Ce ne dimentichiamo per un po’[2]ma poi l’esigenza di dire e di fare, rompe ogni proprio pregiudizio o esitazione. Poi comunque anche Philip Roth cercò di uscire dall’ impasse del suo capolavoro e ne scrisse molti altri… Zuckerman scatenato, Everyman etc etc.
I libri, Tommaso, un pò li nasconde, un pò li passa perché altri ne conservino qualche stralcio. Ne è quasi ingordo e dopo averli letti, uno strano vezzo: scrive Fahrenheit 451 [3]sull'occhiello. Questo Montag l’avrebbe salvato!!! * Ha troppi pacchetti d'immagine da digerire e cosi mi racconta che per esempio delle città che visita, ricorda solamente alcune scritte pubblicitarie, quasi fosse Rotella[4].Di Boston ad esempio, la seguente: sei davvero te stesso quando non ti vede nessuno. Lo slogan apparteneva ad una nota marca cosmetica ma Tommaso, con la sua mania di mescolare fantasia e realtà, pensava fosse un suggerimento da salvare dal Big Brother che George Orwell aveva piazzato li a controllare la città già dal 1984[5]. La realtà non è come sembra…puntualmente sentenzia e subito si immedesima in Neo l'Eletto", in grado di decodificare i vari Matrix.[6]Concluderà la guerra contro le macchine e contro la burocrazia che ha preso il sopravvento in ogni attività dell'uomo.Combatterà contro il cinismo spietato dei potenti che uccide chi tenta di ribellarsi e i pochi che ancora riescono a sognare come in Brazil E poi immagina scegliere la vita "di fuori" per non cadere nella bruttura di chi vive dentro il mondo sicuro di Code 46.[7] Tommaso dice che si può imparare tanto dagli errori anche solo da quelli immaginati nei suoi amati libri e film. A volte però la realtà supera decisamente la fantasia!!!
[1] Philip Roth scrittore americano contemporaneo, ha vinto il Premio Pulitzer nel 1997 per Pastorale americana.[2] ispirato a “Sanremo beauty” di Massimo Gramellini, vicedirettore della Stampa: Che la bellezza non è solo uno zigomo, un capitello,un tramonto. La bellezza è la creatività in qualsiasi forma si esprima. Il disegno di un bambino è bello anche quando è brutto, perché nel farlo il bambino ha usato energia creatrice. Crescendo ci si vergogna di creare: si preferisce distruggere, deridere, insultare. Così si finisce per credere che la creatività sia un dono riservato a pochi eletti: gli artisti.
[3] Fahrenheit 451 è la temperatura a cui la carta si accende per combustione spontanea e dà il titolo all'omonimo libro di Ray Bradbury. Vi si descrive una società in cui leggere o possedere libri è considerato un reato,per contrastare il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume. Montag è il pompiere protagonista che infrangendo il divieto di leggere i libri, si muoverà per salvarli.[4]. Famosi i décollages di Mimmo Rotella con la tecnica dello strappo manuale.[5] Il racconto 1984 di George Orwell illustra l'ingranaggio di un governo totalitario. Al vertice del potere politico c'è il Grande Fratello, onnisciente e infallibile,che nessuno ha visto di persona. Questo libro ha ispirato anche Brazil un film del 1985 diretto da Terry Gilliam.[6]Matrix è un film di fantascienza del 1999 scritto e diretto da Lana e Andy Wachowski, dove un mondo che sembra reale è solo un paravento per nascondere la realtà vera.[7] Codice 46 è un film britannico del 2003 di M. Winterbottom dove si descrive una società divisa tra coloro che vivono "dentro", nelle città ad alta densità, mentre i poveri sottoproletari vivono "al di fuori". L'accesso alla città è fortemente limitato e regolamentato.
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La processione dei Misteri di Lanciano
La processione dei Misteri di Lanciano
La Settimana Santa di Lanciano risale almeno al XVII secolo. All’epoca, l’Arciconfraternita Morte e Orazione (nata nel 1608, ma attiva sin dal secolo precedente con il titolo di Confraternita della Buona Morte) organizzava già la sacra rappresentazione del martirio di Cristo (Le Confraternite della Settimana Santa). Alla fine del Settecento, invece, prende forma l’odierna processione dei Misteri, che prevede la sfilata degli strumenti della Passione: l’Angelo dell’Angoscia, con calice e lancia; gli strumenti della cattura nell’Orto degli Ulivi; la colonna della flagellazione con i flagelli insanguinati; il gallo; la mano di Malco; la colonna con la corona di spine; lo straccio di porpora ed il catino di Pilato; il Volto Santo; la colonna con clamide, dadi, mantello e chiodi; la scritta della Croce con lancia, spugna e scala.
La processione si svolge il Venerdì Santo nella suggestiva cornice della città vecchia: oltre ai Misteri, affidati ai bambini, alla cerimonia partecipano anche la scultura lignea del Cristo Morto (XVIII secolo) e le statue delle tre Marie vestite a lutto: la Madonna Addolorata, Maria di Magdala e Maria di Cleofa. I basamenti su cui sono appoggiati i Misteri e le altre statue processionali (che i siciliani chiamano vare e gli spagnoli pasos), a Lanciano e in Abruzzo sono detti talami: è famosa l’omonima processione che si svolge ad Orsogna, sempre in provincia di Chieti, il Martedì di Pasqua (La Settimana Santa in Abruzzo).
La sacra sfilata lancianese è aperta dalle insegne dell’Arciconfraternita e dalla Pannarola (un vessillo triangolare nero, dalla cui cima si dipanano lunghe corde tenute dai bambini), seguita dagli oggetti della Passione. Due lunghe file di confratelli proteggono la Via Crucis dell’ignoto Cireneo e precedono il feretro del Cristo Morto e le statue delle tre Marie. La figura del Cireneo (un confratello particolarmente devoto, scelto in segreto dal Priore dell’Arciconfraternita) impersona l’immagine del Cristo sofferente con la Croce. Egli percorre le strade della città scalzo, in segno di penitenza, incappucciato e ammantato dal sacco nero. Una struggente cerimonia che è accompagnata dalle musiche sacre dei maestri Ravazzoni, Masciangelo e Bellini e impreziosita da alcuni dettagli barocchi (come le lanterne che illuminano il passo lento del Cireneo).
di Daniele Di Bartolomeo
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Il Ricordo e la Memoria. 6 Aprile 2009
Il Ricordo e la Memoria
6 Aprile 2009
Rinascere è esperienza assai poco poco comune, a noi aquilani e agli abitanti del cretere sismico è stata data questa straordinaria opportunità;
un'opportunità conquistata con determinazione e forza, sì per i vivi ma anche in memoria di coloro che quella notte feroce ha portato via.
6 aprile 2009
Sono appena rincasata, è tardissimo e tra tre ore devo prendere l'autostrada per un impegno di lavoro che mi porta a Roma.
Ho trascorso le ultime ore in veranda con la mia famiglia e i miei cani; la terra trema e sono preoccupata, lo siamo tutti.
Le telefonate con parenti, amiche e amici si susseguono: " Dove siete? in macchina...In giro...In giardino...Sul pianerottolo... Nel capanno degli attrezzi, sai è di legno...Credo sia il caso di restare fuori casa... Ma gli esperti hanno affermato che non accadrà nulla... Io non mi fido... Resto fuori ... Io vado a riposare, ma vestita e con le scarpe... Non chiudo il portone perchè se c'è una scossa poi non si apre... Un'altra...l'hai sentita?... L'abbiamo sentita... Cosa facciamo..? ... "
E' tardi, è freddo, rincasiamo.
Ore 3 e 32
Il mondo sussulta, ruggisce, si contorce, strappa l'anima, scuote le vite e gli edifici.
Secondi interminabili nei quali speri che la tua casa regga, perchè in quell'inferno ti è subito chiarissimo che non tutti ce la faremo.
Trema, trema la casa, la terra, l'aria e il cuore corre, corre all'impazzata.
La luna, al tramonto, prima bianca diventa rossa. La terra, come fosse acqua, produce onde e le luci della valle sembrano lampare al largo in una notte d'estate.
Non posso scendere le scale, devo restare lucida e aspettare la fine del cataclisma. ...Ma quando finisce...? Quando...? Intanto, aggrappando le mani e la vita ad una porta vetrina di metallo, controllo con movimenti cadenzati, il solaio, il pavimento, i muri e spero che non crollino. ...Ecco, ci siamo,...va scemando... No... Ricomincia ancor più violento, più cattivo...
Resisto, prego e assisto impotente alla distruzione della mia città. Sembra impossibile, un incubo ad occhi aperti, ma so che è realtà; una realtà feroce e disperata.
Dopo infinite decine di secondi il ruggito si placa, allora corro a perdifiato lungo le scale e spero che la mia famiglia stia bene..Sì, ci sono tutti... Siamo vivi!
..E la terra ci scuote ancora e ancora e ancora...
Dopo
Da quella notte, la vita di tutti noi è cambiata, per sempre.
Abbiamo perso persone care, la bella quotidianità di una vita serena in una delle città più belle d'Italia.
Avevamo due possibilità: lottare o arrenderci.
Non c'è stato bisogno di pensarci su; siamo montanari, ostinati e orgogliosi, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo ricominciato tutto da capo.
Tra mille difficoltà, tra abbracci sinceri e sciacalli travestiti da agnelli. Quante persone dobbiamo ringraziare per l'amore e la cura che hanno avuto nei nostri confronti e verso la nostra città ferita, in ginocchio, piegata ma non non domata.
Oggi, il Ricordo e la Memoria
Otto anni di battaglie per non morire e le gru che si moltiplicano e i cantieri... e l'odore del cemento che scaccia prepotente il fetore della distruzione.
Decine di migliaia di persone tornate a casa, la vita che prepotente, lotta, s'impone e vince.
C'è ancora da fare ma tantissimo è stato fatto.
Sono fiera della mia gente, orgogliosa di un popolo di montagna che non si arrende, mai.
Sono aquilana, sono abruzzese.
[ In memoria di Nadia e di tutte le vittime del sisma dell'Aquila del 6 aprile 2009 ]
(di Gilda Panella)
L’Utopia del Simec
L'Utopia del Simec
Se un minatore trova una pepita d’oro non si indebita con la miniera! Questa era la metafora con la quale il prof. Giacinto Auriti cercava di spiegare ai “comuni mortali” il significato del Simbolo Econometrico di Valore Indotto (SIMEC)
Nel 1391 a Napoleone Orsini venne concesso, da Re Ladislao di Durazzo, il permesso di battere moneta. Il conio dei bolognini, piccole monete d'argento con l'effige di San Leone papa e, sul rovescio, la sigla Guar circondata dalla scritta Ladislaus, rappresenta il riconoscimento dello spazio politico che gli Orsini riescono a ritagliarsi in particolare sul territorio di Guardiagrele. Trascorrono 609 anni e qualcuno ci riprova solo che questa volta il permesso di battere moneta non viene concesso dall’alto ma scaturisce dalla “volontà” del popolo in ossequio alla teoria sul valore indotto.
Siamo nell’estate del 2000 e la famosa teoria sul valore indotto della moneta, coniata dal prof. Giacinto Auriti, si materializza in una banconota che ha un valore di cambio (con la lira) alla pari ma ha un potere di acquisto doppio rispetto alla lira. In quel periodo nei negozi di Guardiagrele con 1000 Simec si acquistavano beni per 2000 Lire. Auriti non aveva aumentato il valore della moneta ma aveva raddoppiato il potere di acquisto dei cittadini.
Un’utopia? Certo! Ma questa storia ci riporta a tutte le grandi invenzioni, a tutto quello che appariva non convenzionale ed apparentemente inspiegabile ma soprattutto inutile. Le più grandi invenzioni della storia non sono state mai comprese ma soprattutto sono state derise da tutti coloro che non ne erano gli inventori. Ora quelle utopie sono entrate dentro il nostro quotidiano in maniera indissolubile. Auriti sarebbe stato un folle dunque esattamente come Edison che provò per ben 13 mila volte l’esperimento della prima lampadina. La sua perseveranza era giustificata dal fatto che lui, dal primo esperimento, sapeva che avrebbe funzionato. Anche Auriti sapeva che il SIMEC avrebbe funzionato!
Dietro alla vicenda del Simec si nasconde una storia di incomprensioni di teorie mai comprese e di “anelli” che hanno indebolito la filiera. La teoria del valore indotto è tanto complessa quanto banale e si basa sul valore che per convenzione (cioè per accordo tra privati) i privati stessi attribuiscono ad un titolo. Il Simec non faceva altro che misurare questo valore per poterlo rendere scambiabile. Se il simec aveva un potere di acquisto doppio rispetto alla lira era dovuto al fatto che gli operatori (chi compra e chi vende) accettavano quel tipo di valore come valore di scambio. Il volano economico si creava con la circolazione. Il commerciante che riceveva in pagamento i Simec riusava la moneta per acquistare a sua volta e così via. Famosa è diventata la metafora della dinamo!
Gli anelli deboli della catena si presentavano in due punti: al cambio iniziale ed al cambio finale. Se è valore indotto deve essere valore indotto, non può essere valore derivato. Il cambio effettuato con la lira (oppure oggi con l’euro) rinnega di per se il principio stesso di valore indotto. Se la proprietà della moneta appartiene al popolo non può essere erogata a fronte di uno scambio con moneta emessa sul debito dalla banca centrale. Così come non può essere ricambiata in uscita. Questa pratica ha reso di fatto il Simec dipendente dalla Lira ed ha di fatto annullato la teoria del valore indotto.
La problematica si complica quando chi ha ricevuto in pagamento il Simec si trova a dover acquistare presso chi non ha aderito alla convenzione e quindi necessita di moneta corrente. Questa problematica però attiene ad un fatto che esula dalla teoria del valore indotto che rimane valida e funzionante negli ambiti della sua convenzione. Dunque ipotizzando di voler ripetere l’esperimento sarebbe da ipotizzare la distribuzione del Simec attraverso il meccanismo da cui esso stesso scaturisce e cioè la “convenzione”. Si potrebbe ad esempio partire dalla retribuzione dei dipendenti la quale per la sua interezza verrebbe erogata in moneta corrente e per una parte corrispondente erogata in Simec. Nessun cambio all’origine dunque, solo la possibilità di utilizzare la moneta all’interno delle attività che, sempre per convenzione, riconoscono ad esso un valore di scambio. Nessun cambio neanche alla fine dunque ed in questo modo, la moneta nascerebbe e vivrebbe per circolare.
Meno male che il titolo parla di utopia diversamente qualcuno avrebbe potuto prendermi sul serio ma sapete, è proprio quando non ci si prende troppo sul serio che vengono fuori le vere rivoluzioni.
(di Maurizio Camiscia)
Le origini della Rivoluzione francese secondo Jonathan Israel
Le origini della Rivoluzione francese secondo Jonathan Israel
Recensione del libro:
Jonathan Israel, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre.
Einaudi, Torino 2015 (ed. orig. 2014, traduzione dall’inglese di Palma di Nunno e Marco Nanni)
Jonathan Israel, raffinato ed erudito professore di storia moderna all’Università di Princeton, è lo storico più discusso del momento. Le sue ambiziose e innovative ricerche sull’Illuminismo sono da alcuni anni al centro di un intenso dibattito, che si è riacceso dopo l’uscita nel 2014 del suo ultimo volume sulle origini intellettuali della Grande Rivoluzione. Revolutionary Ideas: An Intellectual History of the French Revolution from «The Rights of Man» to Robespierre, prontamente tradotto in Italia da Einaudi con un titolo parzialmente diverso (La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, 2015), è il caso editoriale storiografico più importante degli ultimi anni.
Il libro di Israel ha fatto scalpore, come non accadeva da tempo ad un saggio di storia. Ne hanno scritto su importanti riviste, quotidiani e inseriti culturali alcuni tra i più grandi specialisti mondiali dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Il volume è stato accolto dalla critica con giudizi sferzanti, spesso al limite dell’insulto accademico, a cui l’autore ha replicato colpo su colpo, con crescente insofferenza e ostinata determinazione.
Israel è accusato dai suoi colleghi di aver commesso una serie di errori macroscopici, imperdonabili per uno storico del suo prestigio e della sua esperienza. Vincenzo Ferrone, insigne studioso dell’Illuminismo, ha scritto senza giri di parola che si tratta di un libro «inaccettabile» (Il Sole 24 Ore, Domenica, 7 febbraio 2016). Lynn Hunt, tra le più autorevoli esperte di storia rivoluzionaria, ha dato a Israel dell’arrogante e lo ha accusato di essere incappato innumerevoli volte nel peccato mortale dell’anacronismo (New Republic, 28 giugno 2014). Per David Bell, rinomato specialista di storia francese e collega di Israel a Princeton, il libro, a tratti perfino «noioso», è un goffo tentativo di dimostrare con enorme sfoggio di erudizione una «tesi incredibilmente semplice», oltre che sbagliata (The New York Review of Books, 9 ottobre 2014). Francesco Benigno, autore di importanti studi sulle rivoluzioni di età moderna, ha paragonato il racconto di Israel ad un «rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra» (Alias, 24 gennaio 2016). Jeremy Popkin, altro grande specialista di studi rivoluzionari, ha definito «ingannevole» il mastodontico apparato di note e rinvii alle fonti primarie allestito da Israel per sostenere la sua improbabile tesi (H-France Review, maggio 2015, n. 66).
A questo punto il lettore si starà chiedendo: cosa mai avrà fatto lo storico di Princeton per meritarsi un simile trattamento?
Israel ha dapprima dichiarato solennemente che la Rivoluzione francese ha avuto una ed una sola causa, la filosofia illuminista, e poi ha applicato agli eventi rivoluzionari la sua interpretazione stilizzata dell’Illuminismo. A suo avviso è a partire dalle principali ramificazioni dei Lumi che sarebbero derivati
non solo i diversi gruppi politici che si sono contrapposti durante l’esperienza rivoluzionaria ma anche i successi, gli insuccessi (non ultimo il Terrore) e perfino la conseguenza più remota del fallimento della Rivoluzione: non il comunismo come di solito si intende, ma addirittura il fascismo.
Il testo di Israel è una riscrittura dell’intera Rivoluzione come l’opera in positivo degli adepti dell’Illuminismo radicale (ammiratori di Diderot, D’Holbach e Helvétius) e in negativo dei loro avversari di turno, siano essi i moderati seguaci di Voltaire e Montesquieu o i discepoli populisti di Rousseau e Mably. Il racconto è ben congeniato per non lasciare dubbi al lettore. La narrazione degli eventi è sistematicamente inframmezzata da affermazioni perentorie che ricostruiscono, per l’intera durata dell’evento e al di là delle specificità dei diversi gruppi e attori politici, la sostanziale continuità di questa battaglia tra il bene e il male.
Nonostante la sicurezza con cui Israel presenta al lettore la sua storia della Rivoluzione, agli occhi degli specialisti non sono poche le affermazioni dello storico di Princeton che vacillano alla prova delle fonti.
Nell’Introduzione, ad esempio, Israel sostiene in modo categorico che la minoranza repubblicana, democratica, egualitaria, materialista, atea e femminista che ha fatto la Rivoluzione avrebbe sacrificato «tutti i precedenti e i modelli esistenti» sull’altare della filosofia, unica guida possibile per agire nel presente. In realtà, la Rivoluzione francese non è stata, come crede l’autore, l’esperienza narcisistica di un gruppo esiguo di filosofi ispirati da idee astratte. Il rapporto tra i rivoluzionari e il passato è stato molto più complesso, articolato e dubbioso. Per capirlo, è sufficiente considerare la centralità che i precedenti storici, ed in particolare la prima rivoluzione inglese, hanno avuto nei discorsi e negli scritti dei protagonisti della Rivoluzione. Si potrebbero fare altri esempi, ma forse è più interessante spostare l’attenzione dagli errori puntuali commessi da Israel a ciò che li ha resi possibili o, siamo tentati di dire, necessari.
È la volontà di riconoscere e far rivivere le speranze (realizzate e mancate) della Rivoluzione a rappresentare insieme la forza e la debolezza del libro. Merito di Israel è aver reso di nuovo attuale la Rivoluzione, raccontando con competenza, chiarezza, passione ed entusiasmo, come non capitava dai tempi delle grandi storie della Rivoluzione scritte nei secoli passati, la genesi di alcuni tra i valori e le pratiche fondamentali della nostra cultura politica. Può suonare strano, ma in un tempo come il nostro in cui il passato, compresa la Rivoluzione, viene scandagliato alla ricerca delle più svariate genealogie della violenza contemporanea, il libro di Israel risulta piuttosto inattuale. Eppure, non lo è del tutto, poiché l’autore ha diviso la Rivoluzione francese in due parti ben distinte: l’una, fondatrice della democrazia rappresentativa, impersonata da Brissot e dai suoi eredi superstiti del Terrore; l’altra, fautrice di un populismo violento, incarnata da Robespierre e dai suoi epigoni sopravvissuti al Termidoro. Di questo passo Israel si lancia in affermazioni alquanto discutibili e a volte palesemente contraddittorie. Non si capisce, ad esempio, come si possa dire che la Rivoluzione è stata l’opera di una minoranza di illuministi radicali mentre a governare la Francia rivoluzionaria c’era quasi sempre una maggioranza a loro avversa. Capita così di leggere nella pagine di Israel che la Costituzione del 1793 è tutto sommato un modello ideale e che l’abolizione della schiavitù (1794) è un vanto della Rivoluzione,
salvo poi scoprire che ad approvare questi due provvedimenti non sono stati gli uomini di Brissot ma Robespierre ed i Montagnardi. Questa annotazione non vuole certo nascondere le nefandezze perpetrate dall’Incorruttibile e dai suoi seguaci, né tantomeno mettere in dubbio il valore intellettuale dei suoi avversari, uomini come Condorcet che sostennero importanti riflessioni e provvedimenti in materia di rappresentanza politica, democrazia, eguaglianza, libertà di stampa e laicità. Non è tuttavia possibile affermare che il rivoluzionamento della società francese sia avvenuto senza il contributo di altri importanti e forse più influenti rivoluzionari.
Quello di Israel è un ragionamento semplicistico, poiché non considera la differenza che c’è tra una cultura politica fatta di idee, scritti e discorsi e la sua applicazione e interazione con le strutture e gli eventi politici. Alla prova dei fatti, poi, accade che anche i portatori dell’ideologia illuminista radicale assumano decisioni politiche apertamente contrarie agli ideali proclamati o, peggio ancora, nefaste proprio perché derivate dall’applicazione ostinata di tali ideali. Solo per fare due esempi, possiamo ricordare che la propaganda bellicista di Brissot è all’origine di quella che è stata recentemente ribattezzata «the first total war» e che l’alfiere principale di questo conflitto, Napoleone Bonaparte, ha messo fine al sogno rivoluzionario proprio grazie all’appoggio di quelli che Israel considera gli ultimi tedofori dell’Illuminismo radicale.
Leggendo il libro di Israel si ha l’impressione che il passato assomigli troppo al futuro e al punto di vista ideologico dello scrittore. Si annulla così quel salutare effetto di straniamento che ogni buon libro di storia dovrebbe provocare nel lettore. Se fino a qualche tempo fa gli storici erano accusati di scrivere libri incomprensibili e inutili, oggi esempi come quello di Israel mostrano che è in atto un salutare cambio di rotta. Non sono pochi, infatti, i saggi di storia che ormai si leggono piacevolmente, quasi come un romanzo. Viene da chiedersi, però, se il prezzo da pagare per ottenere questo risultato non sia a volte troppo oneroso. Se semplifica troppo il suo ragionamento, lo studioso finisce per perdere autorevolezza e può perfino capitare al lettore, anche a quello più avvertito, la strana esperienza di rivivere la piacevole sensazione della scoperta non tra le pagine di un libro accademico come quello scritto dallo storico di Princeton, ma leggendo un romanzo storico sulla Rivoluzione di enorme successo come quello firmato dalla scrittrice inglese Hilary Mantel (A Place of Greater Safety, di recente tradotto in italiano in tre volumi da Fazi), che in alcuni passi meglio di Israel sa restituire gli uomini al loro tempo, gli umori, gli odori, la storia quotidiana di persone che pensavano, parlavano, scrivevano e agivano in un modo e in un mondo più complesso, ma non meno affascinante.
Estratto da: L'Indice dei libri del maggio 2015
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Dicono di Ulisse, sia stato menzognero, astuto.
Dicono sia stato Nessuno e tutti in grotte popolate da mostri e scogli di sirene, odiato e invidiato. Che abbia amato l’ignoto, solcato mari sconosciuti e stratega, abbia previsto ma non profetizzato.
Ulisse è paradigma di un’umanità che combatte i propri demoni e peregrina, cerca risposte che forse non troverà ma che continua a immaginare, tentare, ricercare la propria Itaca. Ulisse è il viaggiatore...
(…) - Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti? e se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso (...) (da “Itaka” di Costantinos Kavafis)
Ho visto Ulisse guardare i cieli come un alchimista e col cuore che non ha paura più di soffrire, seguire segnali e sogni nei sentieri d’Europa.
L’ho ritrovato sulle strade blu, quelle secondarie dell'America più interna e rurale, quelle di W. Least Heat-Moon, di Kerouac.
L’ho visto levare le tende e vivere il momento secondo le circostanze. L’ho visto cercare il punto in cui terra e cielo si toccano, incontrare tramonti, poeti e pazzi, riscoperto le storie d'Italia sulle note di qualche canzone.
• La strada - Modena City Ramblers • End of the road - Eddie Vedder • Walk on the wild side - Lou Reed • On the road - Canned Heat • Highway 61 - The Byrds • Who’ll stop the rain - Creedence Clearwater The Revival
Dicono di Christopher McCandless che poi chiamò se stesso Alex Supertramp, sia stato un ragazzo benestante. Dicono abbia donato i propri risparmi e abbandonato tutto per sfuggire da una società consumista nella quale non riusciva più a vivere. Che abbia viaggiato per due anni negli Stati Uniti e in Messico, per scoprire poi che la felicità è reale solo quando viene condivisa.
Non dovremmo negare che l'essere nomadi ci ha sempre riempiti di gioia. Nella nostra mente viene associato alla fuga da storia, oppressione, legge e noiose coercizioni, alla libertà assoluta, e la strada porta sempre a Ovest. (dal film “Into the wild” di Sean Penn)
Cerco Ulisse e il suo cuore da viaggiatore quando Il silenzio stride con le possibili note lunghe di un clarinetto steso al sole, quasi cinico perché non violato. Lo aspetto quando gli sussurra un suono incauto fra ferite di buchi inermi, sconfitte da acque gelide che continuano a innaffiarlo. L’importante è andare, iniziare il viaggio, attendere fra collane rosse con fiducia una nuova immagine. I suoni sono inizialmente quasi onomatopeici e i gesti disarmanti ma poi come terra che nasce dal proprio caos, maturano stelle danzanti. Il silenzio così dimentica se stesso e comincia a muoversi, vivere di nuovo e poi quando ci si è mossi, non si ha più voglia di fermarsi. Tratti di strada nuovi che hanno visto migliaia di suole e occhi solcarli, diventano anche i tuoi.
• Un’imbarcazione è più sicura quando si trova in porto; tuttavia non è per questo che le barche sono state costruite (da L’alchimista - Paolo Coelho) • C’è n’è ancora di strada (da Big sur - Jack Kerouac) • Ogni nome un uomo ed ogni uomo e' solo quello che scoprirà inseguendo le distanze dentro se (da “Rotolando verso sud” - Negrita)
Haim Burstin – Un’antropologia della Rivoluzione francese?
Haim Burstin – Un’antropologia della Rivoluzione francese?
(recensione di Daniele Di Bartolomeo - Facoltà di Scienze della Comunicazione - Università degli Studi di Teramo)
Haim Burstin, Rivoluzionari. Antropologia della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 2016
pp. 334, 25 euro (ed. orig. Révolutionnaires. Pour une anthropologie politique de la Révolution française, Vendémiaire, Paris 2013)
Haim Burstin, professore di storia moderna all’Università di Milano-Bicocca, è uno studioso noto nel panorama della storiografia internazionale per le sue preziose e innovative ricerche sui luoghi (il faubourg Saint-Marcel) e sui protagonisti (i sanculotti) della Parigi rivoluzionaria. Ed è proprio sulle fondamenta di questi monumentali studi, iniziati negli anni Settanta sotto la guida dello storico marxista A. Soboul, che l’autore si appoggia (qualcuno potrebbe dire, si adagia) per proporre nel suo ultimo libro, Rivoluzionari. Antropologia della Rivoluzione francese (Laterza, 2016), una rilettura ambiziosa e suggestiva della Grande Rivoluzione.
È davvero curiosa la sorte toccata a questo volume, la cui prima edizione francese risale al 2013. È un libro importante, a tratti anche avvincente, concordano i suoi recensori, ma, aggiungono subito dopo all’unisono, non è affatto un’antropologia della Rivoluzione francese (J.P. Jessenne, “RHMC”, gennaio-marzo 2015, n. 62; G. Berta, “L’Espresso”, 25 febbraio 2016). Tutt’al più si tratterebbe di una «fenomenologia di tipi rivoluzionari» scritta alla maniera dei sociologi, hanno chiosato due esperti della Rivoluzione come Francesco Benigno (“Alias”, 7 febbraio 2016) e Sergio Luzzatto (“IlSole24Ore-Domenica”, 27 marzo 2016). Una manchevolezza costata all’autore il rimprovero dell’indomito storico marxista Claude Mazauric: un accigliato e severo decano degli studi rivoluzionari che, tra le altre cose, accusa apertamente Burstin di aver “tradito” la vecchia causa comune (“AHRF”, luglio-settembre 2014, n. 377). Tra una recensione e l’altra, poi, emergono seri dubbi sul fatto che l’autore, in fin dei conti, sia davvero riuscito a spiegare il fenomeno della radicalizzazione rivoluzionaria e, soprattutto, il lato oscuro della Rivoluzione, l’emblema del suo fallimento: il Terrore.
Eppure, nonostante la curiosa e a tratti imbarazzante controversia accademica sul sottotitolo e il rischio di restare insoddisfatti dalle nuove risposte fornite dall’autore all’enigma della violenza e dell’inarrestabilità della Rivoluzione, quello di Burstin è un libro intelligente che merita di essere letto fino in fondo.
Il ragionamento dell’autore parte dalla constatazione che gli eventi più importanti della Rivoluzione hanno avuto come protagonisti personaggi minori, la cui esperienza e il cui contributo sono stati incredibilmente sottovaluti dalla storiografia. A Burstin non interessano le grandi figure di rivoluzionari o contro-rivoluzionari che già conosciamo e neppure coloro che incrociata la Rivoluzione se ne sono presto allontanati o l’hanno vissuta con cinico distacco, magari approfittandone. Lo storico della Bicocca è appassionato alla gente comune, a coloro che inaspettatamente diventano rivoluzionari subendo una vera e propria mutazione antropologica. È il momento magico in cui personaggi minori vivono l’ebrezza ed il tormento di essere rivoluzionari, insieme l’illusione e la possibilità concreta di cambiare sé stessi ed il mondo. È l’attimo in cui «gli individui rimangono impigliati, materialmente o ideologicamente, nell’evento, spesso portati da una sorta di corrente collettiva, senza la capacità, la previdenza o anche solo la forza di disincagliarsi e farsi da parte». La grandezza del libro di Burstin sta proprio qui, nell’essere riuscito a raccontare questa straordinaria esperienza fatta di illusioni e amarezze, atti eroici e meschinità, generosità e sopraffazione, dedizione alla causa comune ed egoismo, e non ultimo di intrighi e violenze.
Ma c’è anche un’altra ragione, se si può ancora più suggestiva, per appassionarsi a Rivoluzionari. Ogni pagina del libro, infatti, rinvia a qualcosa di intimo, tale da farlo apparire il frutto di una sorta di esame di coscienza che l’autore ha condotto aprendo la «scatola nera» della sua vita professionale e privata. L’impressione è che quando racconta l’esperienza sconvolgente della rivoluzione, Burstin si riferisca a qualcosa che conosce personalmente, che gli appartiene come uomo che ha vissuto intensamente il secolo scorso. Nel testo c’è, in altre parole, un’analogia con l’esperienza elettrizzante e tragica della rivoluzione nel Novecento: il più delle volte implicita, ma altre volte scoperta come quando l’autore definisce la Rivoluzione francese un «assalto al cielo» e il suo tempo come quello in cui «l’immaginazione era al potere». Ne è uscito fuori un racconto certo appassionante, ma a tratti introspettivo e verboso: una sorta di autobiografia intellettuale e personale dal sapore autoreferenziale (tanto che l’autore non sente neppure l’esigenza di aggiornare l’apparato bibliografico, fermo sostanzialmente agli anni Ottanta).
Morta la rivoluzione come evento necessario del divenire storico, restano i rivoluzionari, i suoi reduci, che ne portano addosso i segni indelebili. Tra cui, forse, si annovera anche Burstin. La rivoluzione appare così, ieri come oggi, una nave che salpa per una destinazione sconosciuta ma favolosa e naufraga altrove: un’esperienza amara di cui resta non già la soddisfazione dell’approdo ma il ricordo insieme entusiasmante e malinconico del viaggio. E forse anche la speranza che, con tutti i suoi difetti, alcuni terribili, un giorno questo viaggio possa ricominciare, che la rivoluzione possa tornare.
( da https://www.lindiceonline.com/l-indice/sommario/luglio-agosto-2016/)