Le Idee

Sanità assediata, ma efficienza e qualità sono ancora possibili

 

Sanità assediata, ma efficienza e qualità sono ancora possibili

Ho letto con molto interesse l’articolo” Addio alla salute”, apparso sull’Espresso del 21 gennaio in cui si manifesta una preoccupazione per il presente ed il futuro del Sistema 
Sanitario Nazionale. Il Finanziamento pubblico è attualmente il 6,5 per cento del Pil, che rappresenta un 30% in meno della media dei paesi OCSE e arriverà nel 2020 addirittura al 6,3 % del Pil! E’ comprensibile che con questa carenza di fondi lestrutture e le apparecchiature degli ospedali che non sono stati chiusi siano in cattive condizioni. Se poi sul territorio non esiste una valida organizzazione che si prenda cura delle patologie a bassa intensità di cura, il peso di queste carenze ricade sulle spalle delle famiglie e sui Pronto Soccorso che appaiono talvolta come gironi danteschi. Il tutto è stato aggravato dai tagli lineari che hanno penalizzato le strutture efficienti allo stesso modo di quelle inefficienti. 

Imitiamo male il sistema Usa

A questo va aggiunto che si è cercato di imitare aspetti della organizzazione sanitaria statunitense senza comprenderla a fondo. Ad esempio fissare il numero dei letti per acuti al 3,1 per mille abitanti senza considerare che la nostra popolazione è più anziana e quindi bisognosa di maggior assistenza e soprattutto del fatto che i letti di day hospital e day surgery da noi sono computati tra i letti di ricovero ordinario mentre negli Stati Uniti non lo sono; se licomputassero come noi, i letti per acuti salirebbero al 4,5 per mille. Quindi se da noi chiudono gli ospedali e non potenziano il territorio, si riversano nei pronto soccorsi quei cittadini che hanno bisogno di assistenza e anche quelli che non hanno bisogno di assistenza urgente ( si consideri la percentuale di codici bianchi).

Infermieri e medici penalizzati 

Per quanto riguarda il personale infermieristico viene giustamente segnalata la grave carenza, e per il personale medico degli ospedali l’alta età media causata dal blocco del turn over e la condizione di precarietà del lavoro dei giovani medici. A questo proposito va tenuto conto che negli ultimi 10 anni ben diecimila camici bianchi sono emigrati all’estero. In questo non c’è nessuna fisiologia del mercato del lavoro europeo perché molti italiani vanno all’estero e pochi medici stranieri vengono in Italia. Sarebbe utile uno studio approfondito di questo fenomeno. Alcuni cercano lavoro in istituzioni e nazioni che per alcune branche della medicina, ad esempio la chirurgia, sembrano più prestigiose, ma molti altri sono spinti dalla mancanza di lavoro causata dal turnover o da un certo modo di gestire le assunzioni in Italia. Io ho la diretta testimonianza di chirurghi specializzatisi nella scuola da me diretta che hanno ottenuto all’estero (Gran Bretagna, Germania, Francia Spagna) posizioni di rilievo superando esaminazioni tese alla ricerca di bravi professionisti, che volendo rientrare in Italia, si sono trovati le porte sbarrate da concorsi in qualche modo preordinati. L’articolo denuncia il problema del lavoro precario che in Italia viene criticato e invece accettato di buon grado dai medici Italiani che lavorano all’estero dove i contratti di lavoro non sono a tempo indeterminato. Come mai questa disparità di opinione? 

Il nodo degli stipendi 

All’estero gli stipendi sono buoni, e chiunque faccia bene il proprio lavoro al termine del suo contratto non ha difficoltà a vederlo rinnovato o a cambiare posizione dove godrà di condizioni migliori. In Italia a parte l’atavico desiderio per il posto fisso (Checco Zalonedocet) il precario è mal pagato, è incerto sul futuro ed è mal considerato socialmente, almeno dalle banche cui si rivolge per chiedere un prestito. La soluzione non sta quindi nel posto fisso a quattro soldi per tutti, ma nella replicazione della organizzazione del lavoro e della società dei paesi più avanzati. Senza ottenere una specializzazione oggi è difficile per un medico ottenere lavoro ma, segnala l’articolo, esiste una forte discrepanza tra laureati in medicina e contratti di specializzazione. La determinazione del fabbisogno di medici specialisti non è semplice da computare ma è necessario farlo per non sprecare risorse. 

La sfida dei laureati

Sarebbe utile avvicinare il numero dei laureati in medicina a quello dei contratti di specializzazione e questo ultimo numero alle reali necessità del paese. Faccio un esempio: negli Stati Uniti si ritiene che il numero di contratti annuali per l’ingresso nella specializzazione in chirurgia generale sia 2 per milione di abitanti. Se adottassimo questo numero icontratti in Italia dovrebbero essere 120, invece sono 250. Forse questa è una delle ragioni perché molti chirurghi vanno all’estero e quelli che restano sono ingaggiati e sottopagati dalle cooperativeIl rischio è che il numero si auto livelli spontaneamente poiché questo lavoro pesante e rischioso dà poche soddisfazioni materiali e morali. Negli Stati Uniti la media di guadagno di un chirurgo è di 450.000 dollari all’anno, ma molti raddoppiano o triplicano questo introito. Un recente studio pubblicato sul Journal of American College of Surgeons rivela che il 30%dei chirurghi si ritira dalla professione a meno di 50 anni di età; sonoquelli che anno guadagnato e ben investito almeno 20 milioni di dollari. Forse ci sarà anche questo aspetto a causare una limitazione del numero dei chirurghi. 

Le liste di attesa, cosa accade

Vienesegnalato anche il problema delle liste di attesa per esami diagnostici ed adombrato che la causa risieda del comportamento scorretto dei medici che creano artatamente lunghe liste pubbliche per accaparrarsi malati privati. Se si ragiona così non si va da nessuna parte. Ci sono medici scorretti così come ci sono preti pedofili, politici corrotti e magistrati non imparziali. Ma le liste di attesa sono determinate da una cattiva organizzazione e da una mancanza di finanziamenti che trasforma queste liste in un sistema di razionamento. In Gran Bretagna lo ammettono e addirittura avevano fatto un accordo per mandare cittadini britannici con calcolosi della colecisti ad operarsi in Francia dove l’esborso per le finanze di Sua Maestà risultava essere minore. InItalia questo non si ammette! Distinguiamo le liste di attesa per ricovero per intervento chirurgico di elezione da quelle per esami diagnostici. Esistono classificazioni delle varie patologie con tempi di attesa ben definiti che raramente vengono rispettati. Vogliamo ridurre queste liste? Bene teniamo aperte le camere operatorie dalle 8 di mattina alle 10 di sera; ci vorranno più materiali , più personale  e anche integrazioni agli stipendi di chi prolunga l’orario di lavoro. La bacchetta magica non c’è e gridare all’untore non risolve i problemi. Per le liste di attesa per esami diagnostici il problema è differente. 

Troppi esami inutili

Neicentri di endoscopia digestiva l’ottanta per cento degli esami sono inutili, intasano le liste e non dovrebbero essere richiesti. Come fare? Stabiliamo chi deverichiedere l’esame. Forse meglio lo specialista del medico generico, formiamolo sull’argomento e vediamo come procede con le sue richieste. Ma se vogliamo un comportamento scientifico evitiamo la paura della denuncia e la medicina difensiva per cui si chiede tutto per tutti. L’articolo è ben scritto e descrive una veritiera situazione del Sistema Sanitario Nazionale a quaranta anni dalla sua istituzione ma appare un poco carente nella analisi delle cause e privo di proposte anche perché non è questo il compito del giornalista. 

Il deficit economico, perché 

Cominciamo dall’aspetto più importante, quello del deficit del finanziamento. Alcune cose si possono fare e le ho indicate in un precedente articolo. Concludere rapidamente il lavoro già iniziato dal Ministero della Salute, sulla struttura e compiti degli ospedali (tipologia e volumi di prestazioni di reparto e dei singoli professionisti, curve di apprendimento certificate) in relazione con la popolazione da servire. Crearecollegamenti di reti non solo per il trauma e le urgenze tra i vari ospedali ma anche per molte patologie di elezione, favorendo la circolazione di pazienti e di medici e utilizzando le nuove tecnologie di comunicazione ad alta definizione per la telemedicina in molti campi, compresa anche, se ritenuta utile, l’utilizzazione di robot chirurgici comandati a distanza. Il punto fondamentale sta però in un adeguato finanziamento. Alcuni rimpiangono il tempo delle mutue, quando gli ispettori delle medesime controllavano l’efficienza e la correttezza delle attività degli ospedali e dei medici di famiglia in modo puntuale e severo. All’epoca gli stipendi dei medici ospedalieri erano limitati ma erano ben integrati dalle compartecipazioni. 

Fondi tagliati del 30%

Bisogna quindi riflettere sul fatto che quel 30% che manca al finanziamento pubblico è pagato dai privati che possono permetterselo in strutture di alto livello (San Raffaele, San Donato, Humanitas, IEO) per lo più situate al nord, ma anche in molte Case di Cura che all’accogliente aspetto alberghiero non coniugano una sicurezza globale e si considera che la notte di guardia non ci sono equipe specialistiche pronte a d intervenire, ma un medico spesso giovane e poco esperto. Cosa fare allora?

In Cina? Sanità non a tutti

 E’ evidente che non si può dare tutto a tutti, benestanti ed irregolari compresi. Alcuni anni fa la direttrice dell’Ospedale Militare di Pechino, una generalessa con tanto di fascia rossa e stella al braccio mi chiese se fosse vero che in Italia si tutto a tutti (i ticket sono poca cosa) e alla mia risposta affermativa mi disse –siete pazzi, così non può funzionare_ Se fossimo capaci di rendere tutti  gli ospedali accoglienti ed efficienti come lo sono solo alcuni ,spesso di proprietà privata, potremmo accogliere anche quei pazienti che oggi spendono queste grosse cifre nelle strutture private . Non credo ci sarebbe difficoltà ad ottenere da questi cittadini consistenti partecipazioni alla spesa magari prevedendo qualche vantaggio fiscale.

Cosa è possibile fare 

 In questo mondo rendendo più realistiche le remunerazioni dei DRG ,introitando fondi dalla compartecipazione alla spesa , si renderebbe il sistema veloce ed efficiente, si eviterebbe la discriminazione di trattamento tra chi non può pagarsi le cure e chi invece può- I medici e gli infermieri che lavorano negli ospedali avrebbero stipendi adeguati in modo che l’astensione dalla professione privata non apparirebbe più come una imposizione vessatoria ma come una logica conseguenza del ruolo ricoperto Utopia ? forse si, ma se non si sogna un poco ogni miglioramento ed ogni progresso diventa difficile.

Achille Gaspari MD, Facs, Professore emerito di Clinica Chirurgica

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Sonorità d’Abruzzo in Danimarca

Sonorità d’Abruzzo in Danimarca

Il successo di un compositore abruzzese al teatro dell’Opera di Copenaghen.

 

Il talento del compositore Mauro Patricelli è riuscito ad entusiasmare e appassionare le platee musicali danesi e in particolar modo della cosmopolita Copenaghen, è un dato di fatto. Nato ad Ortona nel 1969, appartiene all’esercito di 4 milioni di italiani emigrati all’estero negli ultimi quindici anni nel tentativo di realizzarsi e perseguire i propri sogni. Dopo aver conseguito il diploma in pianoforte presso il conservatorio di Teramo nel 1990, si è laureato in Storia orientale a Bologna e si è specializzato in jazz. In seguito, ha approfondito lo studio dello strumento dopo l’ammissione all’Accademia Pianistica di Imola. Tra i tanti interessi anche l’etnomusicologia e lo studio con il padre della disciplina Roberto Leydi. Da qui nasce la passione per i motivi tipicamente popolari che hanno trasformato il suo mestiere in una fucina di stupefacenti creazioni e motivi riconducibili alle nostre origini.

Grazie alle sue capacità, Patricelli è riuscito ad ottenere un finanziamento ministeriale di quasi 100.000 € per la realizzazione di un suo spettacolo e l’associazione dei compositori danesi, sempre su base esclusivamente meritocratica, gli devolve annualmente un assegno che può andare dai 1.500 ai 13.500 €, per non parlare dei notevoli riconoscimenti e note di merito dalla stampa e dal pubblico. A quanto pare in Italia abbiamo talmente tanti talenti da doverli necessariamente esportare. C’è da dire che i luoghi d’eccezione che hanno fatto e faranno da sfondo alle sue prossime composizioni, come il teatro dell’Opera di Copenaghen, sottolineano l’importanza culturale della sua attività. Ormai in Danimarca da tredici anni,
ha già realizzato numerosi progetti fra cui un concerto-documentario sul folklore abruzzese intitolato “Dalla cuna all’oblio” e due opere-documentario: La prima è intitolata "Syng for fremtiden, Ingeborg" (Canta per il futuro, Ingeborg) dedicata ad una cantante del foklore danese e al suo repertorio di ballate popolari. La seconda porta il nome “Dasejæger” (il cacciatore di danze), riguardante le ricerche dell’etnomusicologo danese Fridolin Bentzon, primo a documentare e salvaguardare l’antichissima tradizione sarda della Launeddas. Repliche di quest’ultimo lavoro saranno tenute i prossimi 26 e 27 gennaio presso il Teatro dell’Opera di Odense ed è già in preparazione per il 2019 la sua nuova composizione dal titolo “Lo Scavatesori” che debutterà proprio a Copenaghen. Quest’ultima narra la vicenda di Evald Tang Kristensen, pioniere della ricerca sul folklore, che dedicó tutta la sua esistenza a documentare e raccontare storie, leggende e canti del popolo della brughiera danese.

“Ci tengo a sottolineare che sono un compositore e non un etnomusicologo, infatti, quest’ultimi si occupano di raccoliere e studiare canti popolari mentre io mi limito semplicemente a studiarli per creare nuova musica. Ho approfondito questa disciplina durante i miei studi universitari
con l'obiettivo di creare nuovi tessuti pentagrammati che allo stesso tempo conservino un sapore arcaico, note che guardino al futuro ma siano capaci di esprimere le radici della mia cultura contadina.” Se ci pensiamo, Patricelli ha mosso un’analisi quasi archeologica, districandosi con beni immateriali. Infatti c’è da ricordare che il folklore si contraddistingue soprattutto per l’oralità e la mancanza di fonti scritte. “Ho passato molto tempo nell’Archivio del Folklore Danese di Copenaghen per effettuare ricerche che potessero ispirarmi. A differenza di quella italiana, la musica danese presenta molti più canti narrativi, le cosiddette ballate di origine medioevale. Si tratta di componimenti cantati da voce sola senza accompagnamento. Nel folklore danese troviamo funzionale un organico solo nelle danze, di solito uno o due violini accompagnati dallo sbattere dei piedi dei suonatori”.

Si comprende che il motivo principale della passione del compositore è il fascino per la ripetitività mutuata direttamente dall'universo sonoro della musica popolare. Pensiamo infatti ai canti di lavoro per alleviare la fatica, alle ninna nanne che addormentano i neonati e allo stesso tempo rappresentano le tensioni psicologiche della donna nel contesto della società rurale. Gli strumenti adottati sono moderni, difatti va ricordato che la musica eseguita è “colta”. L’elemento popolare deve assumere connotati esclusivamente simbolici cercando
di stabilire un legame nel quale l'ascoltatore ritrova il proprio archè soggettivo, le proprie radici culturali. Può definirsi una scelta perentoria in quanto la cultura popolare ha funzione specifica in una società arcaica, passata e ormai modificata dai cambiamenti inevitabili che il tempo ha imposto. Dalla musica ci si congiunge ad un’analisi storica, ad uno studio delle tradizioni che trova sintesi nei pentagrammi di Patricelli, capace di sviluppare un’epifania nella mente del pubblico. “Ho di certo mutato forme ed elementi espressivi dalla musica popolare, ma ho evitato ogni forma di imitazione superficiale. Il mio obiettivo è generare nel pubblico un sentimento rispetto alle proprie radici culturali, farli sentire danesi o abruzzesi in base alle melodie che elaboro. Questi sono i presupposti che adotterò nella realizzazione della prossima mia opera "Lo Scavatesori" che verrà presentata ad aprile 2019 presso il Teatro dell’Opera di Copenaghen”.

 

di Eduardo Grumelli

 

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Emergenza e soccorsi: quando Remo Gaspari guidò i coordinamenti (dimenticati) a Firenze e nel Belice

 Emergenza e soccorsi: quando Remo Gaspari guidò i coordinamenti (dimenticati) a Firenze e nel Belice

Negli anni 60 dello scorso secolo non esisteva la Protezione Civile e questo compito era affidato al Ministero dell’Interno. Quando il 4 novembre 1966 si verificò l’alluvione di Firenze il governo allora presieduto dall’on. Aldo Moro nominò come Commissario del Governo il sottosegretario all’Interno Remo Gaspari con il compito di organizzare e coordinare i soccorsi. Due ministri fiorentini presenti in città interferivano con le azioni di soccorso, creando un po’ di confusione. Remo Gaspari telefonò al capo del Governo “Senti Aldo, qui ci sono due ministri che intralciano il mio lavoro. Richiamali a Roma e non far loro mettere piede a Firenze per una settimana, altrimenti mi dimetto e ti cerchi un altro Commissario.” Detto e fatto. I soccorsi procedettero con efficienza ed efficacia; in una sola settimana fu ripristinato il funzionamento dell’acquedotto cittadino. Il Direttore della Nazione Enrico Mattei firmò nei primissimi giorni un editoriale molto critico nei confronti dell’organizzazione dei soccorsi. Gaspari si recò al giornale e disse ”Caro direttore io accetto ogni critica, ma lei non ha in questo momento elementi per poterla formulare. Domani venga con me per un giorno, guardi il nostro lavoro e poi giudichi”. Mattei seguì Gaspari per tutto il giorno successivo e ne divenne un suo strenuo ammiratore. Questa opera di Remo Gaspari fu apprezzata e riconosciuta dal Comune di Firenze con un premio assegnatogli anni dopo.

Oggi su Wikipedia c’è una dettagliata ricostruzione degli avvenimenti dell’alluvione, con pochi commenti sull’organizzazione dei soccorsi e neanche una parola su Remo Gaspari. Quando due anni dopo si verificò il terremoto nel Belice a coordinare i soccorsi come Commissario del governo fu ancora Remo Gaspari. Non solo non si verificò in quel periodo nessun atto di sciacallaggio ma nessun reato ti tipo mafioso od altro si verificò in quella zona e nel circondario per diverso tempo.- Avevo fatto circondare la zona dalla polizia,-mi disse,- non poteva infiltrarsi neppure uno spillo-. La confidenza non mi meravigliò in quanto nel settembre del 1943 come aiutante maggiore del 6° reggimento Bersaglieri mantenne l’ordine pubblico nella turbolenta zona di Reggio Emilia. A cinquanta anni di distanza oggi questo evento è stato ricordato. Sarà stato ricordato anche il buol lavoro di Remo Gaspari? Non credo proprio.

Achille Lucio Gaspari MD,FACS

 

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Renzi versus Prodi. Chi rappresenta il centro-sinistra?

 

Renzi versus Prodi. Chi rappresenta il centro-sinistra?

La lettura, congiunta e comparata, dei due recenti volumi di Matteo Renzi,
Avanti. Perché l’Italia non si ferma, Feltrinelli, e di Romano Prodi, Il Piano Inclinato. Crescita senza Uguaglianza, il Mulino, può rappresentare un utile esercizio orientativo atto a comprendere l’evoluzione dell’identità politica del centro-sinistra.

Ambedue partono dalla crisi economica e dalla sfiducia nei confronti del futuro gravanti sulla società italiana, ma, mentre per Renzi, essa appare generata unicamente da una sorta di torpore passatista annidatosi nei gruppi dirigenti del paese prima del suo arrivo al potere, per Prodi essa si inscrive nel passaggio storico dal capitalismo regolato (politiche keynesiane di intervento pubblico), alla crisi degli anni settanta segnati dalla stagflazione (stagnazione più inflazione), all’affermazione dell’ideologia neoliberista (liberalizzazione dei movimenti di capitale, deregolamentazione dei mercati, privatizzazioni). Il capitalismo neoliberista, in particolare, comporta un peggioramento colossale della condizione dei lavoratori (per il combinato disposto di globalizzazione e nuove tecnologie i salari sono calati in termini reali, la precarietà è divenuta un modello, il welfare si è eroso).

A diverse impostazioni analitiche, corrispondono differenti proposte di politica economica. Per Renzi si crea lavoro con la riduzione delle tasse e la semplificazione della burocrazia, rivendicando sgravi, innovazioni giuslavoriste del Jobs Act e battaglie simboliche come quella sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Propone dunque di finanziare una nuova riduzione di tasse con un aumento del disavanzo fino al 2,9 % del PIL, superando l’austerità europea, oltre alla riduzione del debito pubblico con un’operazione di valorizzazione del patrimonio pubblico (!?!) e a un piano di riqualificazione delle periferie e di alfabetizzazione digitale finanziato, soprattutto, con emissione di eurobond (fondo europeo), omettendo di ricordare, tuttavia, la primogenitura di Prodi (oltre che di Quadrio Curzio) sulla proposta.

Prodi considera necessario ridurre le disuguaglianze e, al fine di giungere ad uno sviluppo più equilibrato e sostenibile, ritiene prioritario contrastare il lavoro svalutato, sostituibile, frammentato (quando non assente) che, non più elemento di coesione e di sviluppo sociale, è divenuto veicolo di disparità e di esclusione. Dunque, per ottenere tale obiettivo, non è sufficiente ridurre la burocrazia, ma coordinare un’azione complementare di sindacati, governo e imprese.

Il sindacato dovrà recuperare non solo la sua funzione contrattuale, ma anche propositiva nella capacità di rappresentare non una mero fattore produttivo, ma cittadini che lavorano. Il governo dovrà rafforzare welfare e investimenti pubblici, attuare politiche redistributive che consentano di far ripartire l’ascensore sociale, rimodulando la tassa di successione (in sintonia con Thomas Piketty peraltro) per finanziare istruzione e formazione professionale, recuperare una politica industriale in grado di stimolare la formazione di grandi imprese capaci di affrontare la competizione internazionale. La governance delle imprese dovrà superare il primato degli azionisti per aprirsi tendenzialmente alla pari rappresentanza tra azionisti e lavoratori, per evitare la ricerca di profitti a breve scadenza e favorire percorsi di crescita più equi, volti alla maggior salvaguardia possibile di posti di lavoro.

Due impostazioni fortemente disparate. Quale delle due rappresenta l’autentico riformismo del centro-sinistra? La risposta non è difficile.

di Alessandro D’Ascanio Sindaco di Roccamorice

 

 

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Sale operatorie sicure, la qualità è nel volume degli interventi dei chirurghi

 Sale operatorie sicure, la qualità è nel volume degli interventi dei chirurghi.

L’articolo de La Stampa (in allegato ndr) sugli ospedali italiani richiede alcune precisazioni per quanto riguarda le attività delle camere operatorie. Che il volume delle prestazioni sia correlato alla qualità degli esiti è cosa nota da molto tempo. A venticinque anni fa risale la prima ricerca sul tema, pubblicata sulla rivista dell’Associazione dei Chirurghi americani (ACS) . Il tema era l’esito di interventi sull’esofago, sullo stomaco, sul fegato, sul pancreas e sul colon-retto nei 54 ospedali dello stato del Maryland. Il risultato fu che a un maggior volume di prestazioni corrispondeva una morbilità e mortalità più favorevole. Fu anche stabilito il numero minimo di prestazioni annue al disotto delle quali si entra nella fascia dei risultati di qualità non accettabile. Dato interessante fu che ottiene risultati migliori un chirurgo con poca esperienza personale che opera in un reparto ad alto volume rispetto a un chirurgo con grande esperienza che opera in un reparto a basso volume. Molti altri studi hanno confermato questi primi dati e hanno anche stabilito l’entità della curva di apprendimento, ciò è del numero di prestazioni che un chirurgo deve eseguire per raggiungere la padronanza della tecnica di un determinato tipo di intervento chirurgico. In molte nazioni, sia pure con modalità diverse è stabilito quali caratteristiche prestazionali deve avere un reparto chirurgico prima di avere l’autorizzazione ad eseguire determinate tipologie di interventi, e quanti interventi di un certo tipo sotto tutoraggio di un centro esperto deve eseguire un singolo professionista prima che gli sia consentito di operare autonomamente; aspetto questo di particolare importanza nei confronti di nuove tecniche (chirurgia mimi invasiva, ricerca del linfonodo sentinella ecc.).

Il nostro Ministero della Salute e le singole regioni stanno affrontando queste problematiche con molto ritardo. Ma proprio perché si arriva dopo si potrebbe fare di più. Per la valutazione degli esiti si calcola la mortalità e la morbilità a trenta giorni. Questo non dà sufficienti elementi per la valutazione della chirurgia oncologica; miglior parametro è la valutazione della sopravvivenza libera da malattia a cinque anni. Ma alcuni dati si potrebbero ottenere più velocemente. A esempio andando a valutare il numero di linfonodi asportati in una gastrectomia o in una colectomia eseguita per cancro in uno stadio non precocissimo. Questo numero che si conosce bene per ogni tipo di intervento che richiede una linfectomia, ci indica la qualità dell’operatore e anche del servizio di Anatomia Patologica di cui si serve. Un problema delicato è quello del numero di interventi eseguito annualmente da ogni singolo operatore. Stabilito quanti interventi sono necessari per completare la curva di apprendimento dovremo stabilire anche un numero minino (piuttosto elevato) di interventi eseguiti ogni anno per mantenere l’accreditamento? Su questo si è già pronunciata la provincia di Bolzano ma io ritengo che la chirurgia non è come lo sport del nuoto. Un atleta per conservare i suoi tempi migliori deve nuotare un determinato numero di vasche alla settimana, ma per un chirurgo che ha eseguito, ad esempio, un migliaio di tiroidectomie totali non è necessario continuarne ad eseguirne un gran numero ogni anno per “mantenere la mano”. Un problema molto delicato è l’accesso ai dati di morbilità e mortalità per una data prestazione dei singoli reparti e dei singoli professionisti. Un cliente (paziente) ha sul piano morale il diritto di conoscere questi dati prima di fare una scelta, ma ciò potrebbe ingenerare un pericoloso meccanismo che io stesso ho verificato esistere nello stato di New York dove in un certo periodo era possibile comprare nelle edicole dei giornali i dati di mortalità dei singoli cardiochirurghi. Questo ha comportato che molti di loro rifiutavano di operare i casi a maggior rischio per non peggiorare la propria casistica personale. A questa situazione ci sono però due soluzioni; o severe misure di accreditamento dei reparti e dei singoli professionisti mantenendo riservati i dati sensibili, o introdurre coefficienti di correzione della mortalità in modo da non penalizzare chi affronta i casi più difficili.

 

Achille Lucio Gaspari MD, FACS past Governor

In allegato:

Protesi e tumori, in una sala operatoria su tre si rischia la vita per inesperienza dei medici. da https://www.lastampa.it/2017/12/19/italia/cronache/in-una-sala-operatoria-su-tre-si-rischia-la-vita-per-inesperienza-dei-medici-eVjuprTprRAGjCbQemtfgI/pagina.html

 

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Alla ricerca del sempre nel mai

Alla ricerca del sempre nel mai.



Non avremmo saputo apprezzare meglio “ L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, libro scelto dal Gruppo lettura della Biblioteca di San Valentino in Abruzzo Citeriore, in un’altra stagione se non in autunno, la stagione dei raccolti, delle foglie rosse, arancioni e gialle che coprono la terra, dei pomeriggi ancora leggermente tiepidi, la stagione del buonsenso, della cura e delle riflessioni. Proveremo probabilmente a rileggerlo durante le piogge estive quando per inerzia o malinconia si scrivono diari clandestini, quando si perde di vista il futuro e si riempie il presente sospeso e un po’ bugiardo di vita con pensieri distratti. Ritroveremo in quei momenti, i bei messaggi stesi in tutto il libro con ironia e leggerezza fra i rimandi alla letteratura, alla filosofia, all’arte e al cinema e stroncheremo le attese di accidia. il romanzo è davvero intelligente, profondo ed intimo come un sogno di provincia, senza caos né clamori ma capace di stupirti come quando ascolti il lato 2 di un 45 giri e ti sembra più piacevole della canzone destinata al lancio radiofonico. Non è un caso che proprio grazie al passaparola dei lettori, “L’eleganza del riccio”si sia affermato in breve tempo come best-seller internazionale, tradotto in ben 31 lingue e insignito di numerosi premi. Nel 2009 dal libro è stato tratto il film dal titolo “Il riccio”, per la regia di Mona Achache.

E’ una storia narrata a due voci: quella di Madame Renée Michel e quella di Paloma Josse. La prima, portinaia al numero 7 di rue de Grenelle, palazzo elegante, abitato da famiglie dell’alta borghesia parigina è umile per nome, posizione e aspetto ma non nell’intelletto. Il nome del suo gatto, Lev, tradisce la passione per Tolstoj e dalla televisione in guardiola si gode in dvd film come Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, ascolta Didone ed Enea di Henry Purcell mentre riflette (e si entusiasma) su Kant o cogita (e non concorda) sulle tesi di Husserl. La seconda voce e’ Paloma Josse, figlia minore di una ricca e potente famiglia, ragazzina fin troppo intelligente che come Renè cerca di nascondere la sua natura fingendosi disinteressata poiché sa che dove l’apparenza conta più di qualsiasi altra cosa, possedere uno spiccato senso critico è una rovina. Nella vita del condominio irromperà però un nuovo personaggio: Monsieur Kakuro Ozu, un signore giapponese. Sarà in grado di cogliere l’eleganza chi “fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma dentro è semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.”? Con questo interrogativo interrompo la trama dicendovi che L’eleganza del riccio è il libro che se fossi una scrittrice, avrei voluto scrivere! E’ un libro che invita ad andare oltre le apparenze, oltre quelle timidezze che balbettano movimenti non istintivi. E’un monito a non essere ciechi ( quasi un trait- union ci lega con il precedente libro scelto “ Cecità” di Saramago”!) e a premiare l’interiorità di chi riesce a mutare semplici pezzi di carta in splendidi origami. E’ il romanzo di chi sa che nella vita c’è molta disperazione ma anche qualche istante di bellezza e cerca comunque un sempre nel mai. A me è bastato leggere i pensieri profondi scritti in appendice sui vari capitoli per farne un libro per l’anima. Ho chiesto quindi alle lettrici del nostro gruppo di inviarmi quelli più suggestivi. Annamaria: Tra quello che ci attende e ciò che abbiamo vissuto c’è un presente prezioso che scorre fra le dita; Annalisa: Quello che ci attende è sempre meglio di ciò che abbiamo vissuto; Loretta: Imparate a vivere dei vostri guai e non sarete mai privi di una buona risata. Il miglior modo di risolvere un problema è quello di cogliervi qualcosa di umoristico.

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Laura Benedetti, intelligenza lucida e acuta, brillanti abilità narrative.

 Nel romanzo Secondo Piano, Pacini Editore, 2017, la scrittrice Laura Benedetti, nata e cresciuta a L’Aquila, da anni ordinaria di Lingua e Letteratura Italiana alla Georgetown University di Washington, conferma la solida e sicura vena di narratrice, già dimostrata nel suo primo romanzo, Un paese di carta.

L’autrice costruisce una trama narrativa fatta di esperienza, immaginazione e problematiche attualissime. Rivolge uno sguardo disincantato, pieno di sottile ironia al mondo accademico americano, vede gli aspetti più meschini dell’applicazione pratica dell’idea, quasi un mito, di meritocrazia, e quelli tragici, a tratti anche comici, della scelta degli argomenti dei corsi di lingua e cultura italiana da parte dei docenti per attrarre studenti. Studenti sono spesso definiti clienti dalla dirigenza, termine quasi sorprendente per noi, ma denso di prospettive per la didattica e la valutazione del profitto.

Due gare segnano il filo del discorso, una partita di tennis fra i due protagonisti, Ralph e Fede, e gli indovinelli o giochi di parole che Marco rivolge al padre Fede. Apre la vicenda la partita di tennis, descritta a lungo con precisa competenza tecnica delle regole del gioco e delle traiettorie della pallina, metafora del rapporto dialettico fra i due protagonisti.

A movimentare la situazione, la morte improvvisa, all’interno dei locali dell’università, di un professore anziano con cinquant’anni di servizio. Questo avvenimento sembra spostare la narrazione verso una indagine di polizia sulle cause della morte, in realtà l’indagine si sposta all’interno della mente e dei sentimenti del suo più stretto collaboratore, amico e discepolo. E così la storia si muove agilmente fra passato e presente e vengono fuori le nostalgie per il paese natio tipiche degli emigrati, ma anche le delusioni e le difficoltà proprie dello studioso umanista nel mondo degli scienziati e degli economisti, sempre più sperso in profonda e deprimente solitudine in un mondo troppo diverso dal suo.

Ogni giorno più difficile la lotta per l’esistenza stessa dei corsi di Lingua e Letteratura Italiana, lingua neolatina parlata in una provincia di 60 milioni di persone, non considerando l’uso dei dialetti, con una cultura fatta di medioevo e rinascimento. Oggi solo calcio (n. b. il romanzo è stato scritto prima della recente disfatta con la Svezia), vino, pizza e moda sarebbero argomenti in grado di portare un numero di clienti necessario alla sopravvivenza dei corsi e al rinnovo delle nomine di alcuni emigrati italiani sottopagati e poco considerati.

Fra i tanti e stimolanti aspetti del romanzo, mi soffermo su uno in particolare. Il romanzo è scritto in italiano, non inglese. Peccato, la narrativa di Laura Benedetti sarebbe interessante anche per i lettori americani. Mi interessa una frase in particolare: “…lui per contratto era costretto ad occuparsi di cose moderne. I concetti ce li aveva chiari ma non era abituato a illustrarli in pubblico, e in inglese”. (pag. 104).

“…E in inglese.” Riporto questa frase che sintetizza l’esperienza di bilinguismo di una persona nata, cresciuta ed istruita in Italia, che ha frequentato il liceo e l’università in Italia, e si trasferisce in età matura negli USA, dove lavora in ambiente americano, fra gente istruita. Ebbene, con quella frase l’autrice evidenzia la difficoltà di esprimere concetti complessi in una lingua non nativa, anche se praticata nella vita quotidiana. Non basta parlare la lingua in famiglia e con gli amici, la padronanza della lingua cresce e si arricchisce della cultura.

E qui emergono anche i limiti della traducibilità di questo testo creativo, intelligente, colto espresso in una lingua italiana scorrevole, piacevolissima alla lettura. Tradotto così come è un americano non capirebbe mai tutti i riferimenti letterari del testo. “Sena mi fé…” etc. La citazione dantesca è un solido riferimento culturale per un italiano colto, ma che significa per uno che non ha mai sentito parlare di Dante? Stesso discorso nel primo libro della Benedetti, dove una maestra italiana da poco emigrata negli Usa, ricordava sempre il congiuntivo, i suoi significati e la coniugazione dei verbi in italiano, colonne della sua vita di emigrata.

Concludo queste note di lettura con la citazione di due passi particolarmente significativi.

Ralph cita una frase di Dante trovata per caso su Google, la reazione di Fede la dice lunga sulla psicologia dei cervelli in fuga dall’Italia.

“Fu la citazione a far perdere le staffe a Fede. Perché va bene essere disprezzati, sottopagati, messi alla berlina, però sentire le proprie cose più care banalizzate, anzi prostituite così, lo mandò su tutte le furie…la sua romanità travolgeva la diga eretta da decenni di educazione e buone maniere anglosassoni.”

Ricordo anche un punto di vista critico sul mondo della cultura americana, stimolante perché di grande attualità anche nella nostra sponda dell’oceano:

“Rendetevi conto di che cosa sarà un mondo affidato esclusivamente ai tecnocrati, agli esperti del business…State creando un popolo di servi nel mondo della democrazia occidentale. Lo sai che cos’è la democrazia senza l’istruzione, Ralph? Un gigante cieco che si agita e tira randellate al vento. È demagogia pura, è l’anticamera del fascismo…”

Intelligenza lucida e acuta, brillanti abilità narrative. Laura Benedetti un bel talento aquilano all’estero di cui essere orgogliosi.

 

 

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I costi della sanità, interviene il Prof. Achille Lucio Gaspari

I costi della sanità, interviene il Prof. Achille Lucio Gaspari

"Ho letto con grande interesse l’articolo sui costi della sanità pubblicato da Il Giornale il 12 novembre. Ci sono molte affermazioni interessanti ma non del tutto approfondite. E’ noto che i costi della sanità aumentano oltre che per l’invecchiamento della popolazione anche per altri due fattori che l’articolo non cita: la medicina è sempre più tecnologica e la tecnologia aumenta i costi. La cultura della salute (o pseudo cultura se pensiamo ad internet), aumenta la domanda e quindi anche la spesa. Che non ci siano stati tagli al finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale non è una affermazione esatta; durante i governi Monti e Letta si è verificata una riduzione del finanziamento in termini assoluti. La inefficienza e gli sprechi esistono, sono a macchia di leopardo con maggior concentrazione nelle regioni del sud come può evincersi ad esempio con il livelli di spesa farmaceutica. I deficit di alcune regioni italiane sono stati causati solo in parte da inefficienza. Per quanto riguarda la spesa ospedaliera, la remunerazione secondo il sistema DRG ha le sue responsabilità perché le tariffe non sono state aggiornate e non tengono conto degli aumenti che si sono verificati (apparecchiature, farmaci, ma anche spese per elettricità, riscaldamento, alimentazione ecc.) Sarebbe infatti utile studiare un superamento del sistema DRG che coniughi efficienza ed efficacia perché se spendere troppo è anti economico, spendere troppo poco può essere penalizzante per l’efficacia delle cure. Molte regioni erano in profondo rosso e attualmente hanno migliorato sensibilmente i loro deficit o sono addirittura passate in attivo. Questi risultati sono stati ottenuti con l’eliminazione degli sprechi e con la razionalizzazione delle spese. In vari casi però i tagli lineari hanno penalizzato le strutture più efficienti. Vediamo ad esempio come si è comportata la regione Lazio con il numero di Unità Operative Complesse, che un tempo erano denominate primariati, definizione che useremo per semplicità. La regione ha stabilito (non so con quale criterio) che esisteva un eccesso di primariati e bisognava eliminarne il 30% E questo criterio (taglio del 30%) è stato adottato per il Policlinico Umberto I° dove esistevano 35 primariati di chirurgia generale, un record mondiale! e al Policlinico di Tor Vergata che per essere un ospedale aperto nel 2003 aveva carenza di primariati, cosa che si è aggravata con questa applicazione lineare.  L’articolo del Giornale si occupa della spesa sanitaria in Italia, ma ritengo più interessante confrontare questa spesa con quella della media dei paesi europei (EU 14) nella sua evoluzione dal 2005 al 2015. Si può vedere (grafico 1) che il divario è andato progressivamente crescendo attestandosi ad un valore inferiore del 30%. Uno degli argomenti che hanno spinto i cittadini britannici a votare per la Brexit è stato l’insufficiente finanziamento del Sistema sanitario Pubblico Britannico e che con l’uscita dall’Europa (ma non è vero) si sarebbero recuperate risorse aggiuntive. La Gran Bretagna ha un sistema sanitario pubblico simile al nostro, e simile è anche la numerosità della popolazione. Nel 2016 il nostro SSN è stato finanziato con 116 miliardi di euro. Sapete nello stesso anno quale è stato il finanziamento del PHS ritenuto insufficiente dai cittadini britannici? 150 milioni di euro, il 30% circa più del nostro finanziamento al SSN. Andiamo infine a guardare la spesa sanitaria pro capite in Italia (grafico 2). In valori nominali la spesa è cresciuta negli ultimi 10 anni, ma si è invece ridotta in termini reali, e questo è quello che ha importanza. Come concludere? Il nostro sistema sanitario è buono ma anche molto migliorabile. La spesa globale dovrà crescere rispettando efficienza ed efficacia; la spesa privata non può essere eliminata, anzi è prevedibile che debba crescere solo però per quei soggetti che se lo possono permettere. E’ necessaria pertanto una nuova riforma che cambi radicalmente le cose e non si occupi soltanto di prevenzione e cura ma anche di tutto quel complesso modo imprenditoriale e produttivo che è in stretta relazione con il sistema sanitario".

Prof. Achille Lucio Gaspari MD, Phd, FACS

 

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Caos & Luce. Cosa direbbe se fosse ancora vivo Jose Saramago…

Caos & Luce. Cosa direbbe se fosse ancora vivo Jose Saramago...

Cosa direbbe se fosse ancora vivo Jose Saramago, scrittore portoghese, classe 1922, giornalista, drammaturgo, poeta, critico letterario etc. etc., se oggi accendesse la tv, se leggesse le notizie quotidiane? Quali parole userebbe per commentare la crisi dei migranti, la disoccupazione forte e non transitoria? Che significato darebbe alla parola democrazia? Cosa direbbe ai signori dei disastri che sfruttano crisi ed emergenze per farne squallidi profitti? Cosa scriverebbe su cosa rimane dopo incendi assassini a far morire le nostre terre sacre, in estati torride come da tempo non se ne vedevano? Cosa direbbe di fronte alla minaccia di sistemi d’arma robotici capaci anche di agire automaticamente? Cosa pronuncerebbe di fronte all’escalation della tensione fra leader che sembrano alieni d’umanità? Cosa direbbe a chi dice di voler mettere in contatto le persone ma in realtà ci sorveglia come una sorta di grande fratello contemporaneo, vendendo i nostri dati al miglior offerente? Non rimarrebbe neutrale, criticherebbe in modo aspro, polemico, provocatorio … ne sono certa!

Probabilmente direbbe ancora che l’uomo più saggio che abbia mai conosciuto non era in grado né di leggere né di scrivere, riferendosi a suo nonno. Josè Saramago vedrebbe ancora la nostra terra come Terra del peccato e proporrebbe ancora ai lettori Il suo Cecità.
È questo il libro che abbiamo scelto da leggere e commentare nel gruppo lettura nella biblioteca di San Valentino nel mese di settembre, insieme ad un altro breve straordinario racconto “ Il Paese dei ciechi” di Wells. Questa volta non ne voglio raccontare le trame. Dirò solo che Cecità è un romanzo di critica sociale e fantascienza apocalittica che inizia in modo surreale e termina in modo altrettanto strano. Concedetemi un po’ di licenze arbitrarie e personali ma se dovessi abbinarlo ad un quadro ne proporrei uno di Dechirichiana memoria o un Redon Odilon, metafisici, simbolici e un po’ terrificanti, ascoltando magari le note di Fear of the dark degli Iron Maiden. Lo so, ho abusato di troppe connessioni. Cecità è un testo di sostanza, eterno. Sarà questo il motivo per cui anche i suoi personaggi non hanno nome o la città non è mai nominata? I suoi protagonisti sono validi per ogni tempo e spazio.Lo stile di scrittura è un fiume in piena, ti getta parole in faccia e ti costringe a vedere le brutture del mondo, le porta all’eccesso e ti fa male, ti porta a vivere angoscia e ansia.

Saramago non offre nessun appiglio attraverso la punteggiatura, ne fa un uso anticonvenzionale assoluto, non segnando le domande con punti interrogativi e realizzando periodi lunghi pagine intere. Il libro scelto questo mese va assorbito, digerito. Io devo ammetterlo l’ho letto in modo veloce, forse troppo! L’ho letto come quando si ristudia un libro per la terza volta, un po’ saltando le parole, come una lettura in metropolitana cercando di non perdere la discesa stabilita, come se dovessi scoperchiare urgentemente una sorta di incoerente e audace vaso di Pandora, fitta di suggerimenti filosofici, mitologici … Hobbes, Locke, il mito della caverna di Platone, altri romanzi distopici persino Lost …L’ho sfogliato come quando vedo immagini di campi di concentramento, piazze insanguinate, bambini inermi su spiagge senza felicità … so che dovrei guardare ma ne ho paura … angoscia … a volte distolgo lo sguardo; L’ho scorto come se fosse impellente per me il bisogno di trovare riferimenti stabili e consolatori. Il libro merita “cortesia di lentezza”, non perché José Saramago abbia vinto il Premio Nobel nel 1998, ma perché attraverso l’uso dell’ironia, per me chiave straordinaria di interpretazione del reale, non risparmia ai suoi personaggi critiche ai loro comportamenti, li descrive dettagliatamente nei loro pregi, nei loro difetti. Di fronte ad un‘ umanità cosi corrotta ma anche cosi fragile, cosi profondamente umana, di fronte ad una società cieca, forse gli unici ganci responsabili sono la pietà, la compassione e la solidarietà. Sono queste parole non a caso femminili come la protagonista che porta luce nel caos-buio del romanzo, capaci di accogliere come terra che beve pioggia e far germogliare semi di speranza.

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Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!

Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!

Note di lettura: Uccidere il Presidente

di Emanuela Medoro

To Kill the President, è un thriller di Sam Bourne, pubblicato da Harper and Collins in Inghilterra, ma non negli Stati Uniti, copyright 2017, distribuito in Italia, finora in inglese, da Mondadori. Sam Bourne, pseudonimo del giornalista inglese Jonathan Freedland corrispondente del Guardian da Washington, è uno stimato e ben noto commentatore di affari americani oltre che autore di romanzi. La copertina di questo libro, illustrata con una pistola colorata come la bandiera a stelle e strisce, annuncia il più esplosivo thriller dell’anno.

La storia inizia con un episodio assai inquietante. Il Presidente mette le mani al collo, tentando di strangolarlo, al generale dell’esercito che gli nega i codici di accesso per l’uso del nucleare; si giunge poi a dieci secondi dal lancio dell’atomica, che non avviene solo perché due dei suoi collaboratori riescono a fermarlo con un banale inganno.

Segue una serie di morti improvvise e violente, la prima, quella del medico personale del Presidente costretto a suicidarsi nella sua macchina con un colpo di pistola in bocca. Sparsi qua e là nel mezzo della narrazione che si svolge a Washington e negli USA, ci sono episodi di morti premature, accadute in giro per il mondo, di poco antecedenti gli avvenimenti di Washington. In Islanda muore un giovanissimo americano genio dell’informatica, fondatore di una start up dal valore ignoto anche per lui, che non sa bene se la sua ditta vale decine o centinaia di milioni. Un altro muore a Delhi, in India, per un incidente stradale dopo un lungo inseguimento da parte di ignoti. Un altro incidente in Namibia dove un riccone del Texas si era recato a caccia. Per caso si salva, ma nella sparatoria rimane ucciso un militare americano.

La narrazione di queste morti s’ intreccia a ciò che accade a Washington. Fra i protagonisti anche una donna, Maggie Costello, di origine irlandese, singolare presenza femminile ancora al suo posto dalla precedente amministrazione, in un periodo di trionfo e rivincita del maschio bianco. Incaricata di indagare sulla morte del medico, scopre una trama segreta per uccidere il presidente, trama che le suscita una domanda, e se dopo il crimine scoppia una guerra civile? Agisce secondo coscienza e si scontra con i protagonisti maschili della vicenda, tutti bianchi: il vice presidente, il ministro della difesa e il capo del personale della Casa Bianca.

E così, attraverso dialoghi memorabili, il lettore scopre la smisurata dimensione della insaziabile fame di danaro e potere dell’inquilino della Casa Bianca, incapace di distinguere il pubblico dal privato, anzi capacissimo di usare il pubblico per scopi privati. Cito solo alcune delle tante frasi che lo descrivono, lasciando da parte lo svolgimento della trama e il finale sorprendente, per non rovinare il gusto della lettura.

Un solo scandalo può distruggere un buon presidente, ma migliaia di scandali danno l’immunità a un cattivo presidente, peggio si comportava, più poteva agire con impunità (pag.312).

(Il vice presidente) Si toccò la testa ad un lato, “Lui non capisce niente qua… capisce qua, con la pancia…fa miliardi, non paga le tasse, non paga i conti, tradisce le mogli e insulta tutti quelli che si mettono sulla sua strada… È la nostra identità nazionale, sciolta, senza guinzaglio, è il bambino che è in ciascuno di noi, che corre libero…Ottiene tutto ciò che vuole, magnifico…Ecco perché lo hanno votato. È una fantasia. Un sogno divenuto realtà, è l’America degli inizi, quando l’uomo bianco andava a cavallo, sparando agli indiani, stuprando le loro donne, prendendo tutto quello che gli piaceva, trascinando un po' di negri per fare il lavoro sporco…etc. (pag. 321 e seg.)”. 

Ignoro in che misura si mescolino in questa narrazione la realtà di oggi e l’immaginazione creativa dell’autore, inglese, bravissimo nel costruire una storia di grandissima attualità. Il suo thriller è un attento esame delle dimensioni psicologiche e sociali della fame di danaro e soprattutto dell’avidità del grande potere economico e politico, quello che può decidere della vita e della morte delle persone. Obbligatorio, trattandosi del lavoro di un inglese, il richiamo al Riccardo III di William Shakespeare, dove una serie di crimini nefandi per la conquista del trono si conclude con una frase memorabile, pronunciata dal re durante la battaglia di Bosworth: “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!” Ci sarà un cavallo anche per il Presidente descritto da Sam Bourne?

 

 

 

 

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