Le Idee

L’Utopia del Simec

L'Utopia del Simec

Se un minatore trova una pepita d’oro non si indebita con la miniera! Questa era la metafora con la quale il prof. Giacinto Auriti cercava di spiegare ai “comuni mortali” il significato del Simbolo Econometrico di Valore Indotto (SIMEC)

Nel 1391 a Napoleone Orsini venne concesso, da Re Ladislao di Durazzo, il permesso di battere moneta. Il conio dei bolognini, piccole monete d'argento con l'effige di San Leone papa e, sul rovescio, la sigla Guar circondata dalla scritta Ladislaus, rappresenta il riconoscimento dello spazio politico che gli Orsini riescono a ritagliarsi in particolare sul territorio di Guardiagrele. Trascorrono 609 anni e qualcuno ci riprova solo che questa volta il permesso di battere moneta non viene concesso dall’alto ma scaturisce dalla “volontà” del popolo in ossequio alla teoria sul valore indotto.

Siamo nell’estate del 2000 e la famosa teoria sul valore indotto della moneta, coniata dal prof. Giacinto Auriti, si materializza in una banconota che ha un valore di cambio (con la lira) alla pari ma ha un potere di acquisto doppio rispetto alla lira. In quel periodo nei negozi di Guardiagrele con 1000 Simec si acquistavano beni per 2000 Lire. Auriti non aveva aumentato il valore della moneta ma aveva raddoppiato il potere di acquisto dei cittadini.

Un’utopia? Certo! Ma questa storia ci riporta a tutte le grandi invenzioni, a tutto quello che appariva non convenzionale ed apparentemente inspiegabile ma soprattutto inutile. Le più grandi invenzioni della storia non sono state mai comprese ma soprattutto sono state derise da tutti coloro che non ne erano gli inventori. Ora quelle utopie sono entrate dentro il nostro quotidiano in maniera indissolubile. Auriti sarebbe stato un folle dunque esattamente come Edison che provò per ben 13 mila volte l’esperimento della prima lampadina. La sua perseveranza era giustificata dal fatto che lui, dal primo esperimento, sapeva che avrebbe funzionato. Anche Auriti sapeva che il SIMEC avrebbe funzionato!

Dietro alla vicenda del Simec si nasconde una storia di incomprensioni di teorie mai comprese e di “anelli” che hanno indebolito la filiera. La teoria del valore indotto è tanto complessa quanto banale e si basa sul valore che per convenzione (cioè per accordo tra privati) i privati stessi attribuiscono ad un titolo. Il Simec non faceva altro che misurare questo valore per poterlo rendere scambiabile. Se il simec aveva un potere di acquisto doppio rispetto alla lira era dovuto al fatto che gli operatori (chi compra e chi vende) accettavano quel tipo di valore come valore di scambio. Il volano economico si creava con la circolazione. Il commerciante che riceveva in pagamento i Simec riusava la moneta per acquistare a sua volta e così via. Famosa è diventata la metafora della dinamo!

Gli anelli deboli della catena si presentavano in due punti: al cambio iniziale ed al cambio finale. Se è valore indotto deve essere valore indotto, non può essere valore derivato. Il cambio effettuato con la lira (oppure oggi con l’euro) rinnega di per se il principio stesso di valore indotto. Se la proprietà della moneta appartiene al popolo non può essere erogata a fronte di uno scambio con moneta emessa sul debito dalla banca centrale. Così come non può essere ricambiata in uscita. Questa pratica ha reso di fatto il Simec dipendente dalla Lira ed ha di fatto annullato la teoria del valore indotto.

La problematica si complica quando chi ha ricevuto in pagamento il Simec si trova a dover acquistare presso chi non ha aderito alla convenzione e quindi necessita di moneta corrente. Questa problematica però attiene ad un fatto che esula dalla teoria del valore indotto che rimane valida e funzionante negli ambiti della sua convenzione. Dunque ipotizzando di voler ripetere l’esperimento sarebbe da ipotizzare la distribuzione del Simec attraverso il meccanismo da cui esso stesso scaturisce e cioè la “convenzione”. Si potrebbe ad esempio partire dalla retribuzione dei dipendenti la quale per la sua interezza verrebbe erogata in moneta corrente e per una parte corrispondente erogata in Simec. Nessun cambio all’origine dunque, solo la possibilità di utilizzare la moneta all’interno delle attività che, sempre per convenzione, riconoscono ad esso un valore di scambio. Nessun cambio neanche alla fine dunque ed in questo modo, la moneta nascerebbe e vivrebbe per circolare.

Meno male che il titolo parla di utopia diversamente qualcuno avrebbe potuto prendermi sul serio ma sapete, è proprio quando non ci si prende troppo sul serio che vengono fuori le vere rivoluzioni.

(di Maurizio Camiscia)

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Le origini della Rivoluzione francese secondo Jonathan Israel

 Le origini della Rivoluzione francese secondo Jonathan Israel

 

 

 

Recensione del libro:
Jonathan Israel, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre.
Einaudi, Torino 2015 (ed. orig. 2014, traduzione dall’inglese di Palma di Nunno e Marco Nanni) 

 

Jonathan Israel, raffinato ed erudito professore di storia moderna all’Università di Princeton, è lo storico più discusso del momento. Le sue ambiziose e innovative ricerche sull’Illuminismo sono da alcuni anni al centro di un intenso dibattito, che si è riacceso dopo l’uscita nel 2014 del suo ultimo volume sulle origini intellettuali della Grande Rivoluzione. Revolutionary Ideas: An Intellectual History of the French Revolution from «The Rights of Man» to Robespierre, prontamente tradotto in Italia da Einaudi con un titolo parzialmente diverso (La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, 2015), è il caso editoriale storiografico più importante degli ultimi anni.

Il libro di Israel ha fatto scalpore, come non accadeva da tempo ad un saggio di storia. Ne hanno scritto su importanti riviste, quotidiani e inseriti culturali alcuni tra i più grandi specialisti mondiali dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Il volume è stato accolto dalla critica con giudizi sferzanti, spesso al limite dell’insulto accademico, a cui l’autore ha replicato colpo su colpo, con crescente insofferenza e ostinata determinazione.

Israel è accusato dai suoi colleghi di aver commesso una serie di errori macroscopici, imperdonabili per uno storico del suo prestigio e della sua esperienza. Vincenzo Ferrone, insigne studioso dell’Illuminismo, ha scritto senza giri di parola che si tratta di un libro «inaccettabile» (Il Sole 24 Ore, Domenica, 7 febbraio 2016). Lynn Hunt, tra le più autorevoli esperte di storia rivoluzionaria, ha dato a Israel dell’arrogante e lo ha accusato di essere incappato innumerevoli volte nel peccato mortale dell’anacronismo (New Republic, 28 giugno 2014). Per David Bell, rinomato specialista di storia francese e collega di Israel a Princeton, il libro, a tratti perfino «noioso», è un goffo tentativo di dimostrare con enorme sfoggio di erudizione una «tesi incredibilmente semplice», oltre che sbagliata (The New York Review of Books, 9 ottobre 2014). Francesco Benigno, autore di importanti studi sulle rivoluzioni di età moderna, ha paragonato il racconto di Israel ad un «rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra» (Alias, 24 gennaio 2016). Jeremy Popkin, altro grande specialista di studi rivoluzionari, ha definito «ingannevole» il mastodontico apparato di note e rinvii alle fonti primarie allestito da Israel per sostenere la sua improbabile tesi (H-France Review, maggio 2015, n. 66).

A questo punto il lettore si starà chiedendo: cosa mai avrà fatto lo storico di Princeton per meritarsi un simile trattamento?

Israel ha dapprima dichiarato solennemente che la Rivoluzione francese ha avuto una ed una sola causa, la filosofia illuminista, e poi ha applicato agli eventi rivoluzionari la sua interpretazione stilizzata dell’Illuminismo. A suo avviso è a partire dalle principali ramificazioni dei Lumi che sarebbero derivati

non solo i diversi gruppi politici che si sono contrapposti durante l’esperienza rivoluzionaria ma anche i successi, gli insuccessi (non ultimo il Terrore) e perfino la conseguenza più remota del fallimento della Rivoluzione: non il comunismo come di solito si intende, ma addirittura il fascismo.

Il testo di Israel è una riscrittura dell’intera Rivoluzione come l’opera in positivo degli adepti dell’Illuminismo radicale (ammiratori di Diderot, D’Holbach e Helvétius) e in negativo dei loro avversari di turno, siano essi i moderati seguaci di Voltaire e Montesquieu o i discepoli populisti di Rousseau e Mably. Il racconto è ben congeniato per non lasciare dubbi al lettore. La narrazione degli eventi è sistematicamente inframmezzata da affermazioni perentorie che ricostruiscono, per l’intera durata dell’evento e al di là delle specificità dei diversi gruppi e attori politici, la sostanziale continuità di questa battaglia tra il bene e il male.

Nonostante la sicurezza con cui Israel presenta al lettore la sua storia della Rivoluzione, agli occhi degli specialisti non sono poche le affermazioni dello storico di Princeton che vacillano alla prova delle fonti.

Nell’Introduzione, ad esempio, Israel sostiene in modo categorico che la minoranza repubblicana, democratica, egualitaria, materialista, atea e femminista che ha fatto la Rivoluzione avrebbe sacrificato «tutti i precedenti e i modelli esistenti» sull’altare della filosofia, unica guida possibile per agire nel presente. In realtà, la Rivoluzione francese non è stata, come crede l’autore, l’esperienza narcisistica di un gruppo esiguo di filosofi ispirati da idee astratte. Il rapporto tra i rivoluzionari e il passato è stato molto più complesso, articolato e dubbioso. Per capirlo, è sufficiente considerare la centralità che i precedenti storici, ed in particolare la prima rivoluzione inglese, hanno avuto nei discorsi e negli scritti dei protagonisti della Rivoluzione. Si potrebbero fare altri esempi, ma forse è più interessante spostare l’attenzione dagli errori puntuali commessi da Israel a ciò che li ha resi possibili o, siamo tentati di dire, necessari.

È la volontà di riconoscere e far rivivere le speranze (realizzate e mancate) della Rivoluzione a rappresentare insieme la forza e la debolezza del libro. Merito di Israel è aver reso di nuovo attuale la Rivoluzione, raccontando con competenza, chiarezza, passione ed entusiasmo, come non capitava dai tempi delle grandi storie della Rivoluzione scritte nei secoli passati, la genesi di alcuni tra i valori e le pratiche fondamentali della nostra cultura politica. Può suonare strano, ma in un tempo come il nostro in cui il passato, compresa la Rivoluzione, viene scandagliato alla ricerca delle più svariate genealogie della violenza contemporanea, il libro di Israel risulta piuttosto inattuale. Eppure, non lo è del tutto, poiché l’autore ha diviso la Rivoluzione francese in due parti ben distinte: l’una, fondatrice della democrazia rappresentativa, impersonata da Brissot e dai suoi eredi superstiti del Terrore; l’altra, fautrice di un populismo violento, incarnata da Robespierre e dai suoi epigoni sopravvissuti al Termidoro. Di questo passo Israel si lancia in affermazioni alquanto discutibili e a volte palesemente contraddittorie. Non si capisce, ad esempio, come si possa dire che la Rivoluzione è stata l’opera di una minoranza di illuministi radicali mentre a governare la Francia rivoluzionaria c’era quasi sempre una maggioranza a loro avversa. Capita così di leggere nella pagine di Israel che la Costituzione del 1793 è tutto sommato un modello ideale e che l’abolizione della schiavitù (1794) è un vanto della Rivoluzione,

salvo poi scoprire che ad approvare questi due provvedimenti non sono stati gli uomini di Brissot ma Robespierre ed i Montagnardi. Questa annotazione non vuole certo nascondere le nefandezze perpetrate dall’Incorruttibile e dai suoi seguaci, né tantomeno mettere in dubbio il valore intellettuale dei suoi avversari, uomini come Condorcet che sostennero importanti riflessioni e provvedimenti in materia di rappresentanza politica, democrazia, eguaglianza, libertà di stampa e laicità. Non è tuttavia possibile affermare che il rivoluzionamento della società francese sia avvenuto senza il contributo di altri importanti e forse più influenti rivoluzionari.

Quello di Israel è un ragionamento semplicistico, poiché non considera la differenza che c’è tra una cultura politica fatta di idee, scritti e discorsi e la sua applicazione e interazione con le strutture e gli eventi politici. Alla prova dei fatti, poi, accade che anche i portatori dell’ideologia illuminista radicale assumano decisioni politiche apertamente contrarie agli ideali proclamati o, peggio ancora, nefaste proprio perché derivate dall’applicazione ostinata di tali ideali. Solo per fare due esempi, possiamo ricordare che la propaganda bellicista di Brissot è all’origine di quella che è stata recentemente ribattezzata «the first total war» e che l’alfiere principale di questo conflitto, Napoleone Bonaparte, ha messo fine al sogno rivoluzionario proprio grazie all’appoggio di quelli che Israel considera gli ultimi tedofori dell’Illuminismo radicale.

Leggendo il libro di Israel si ha l’impressione che il passato assomigli troppo al futuro e al punto di vista ideologico dello scrittore. Si annulla così quel salutare effetto di straniamento che ogni buon libro di storia dovrebbe provocare nel lettore. Se fino a qualche tempo fa gli storici erano accusati di scrivere libri incomprensibili e inutili, oggi esempi come quello di Israel mostrano che è in atto un salutare cambio di rotta. Non sono pochi, infatti, i saggi di storia che ormai si leggono piacevolmente, quasi come un romanzo. Viene da chiedersi, però, se il prezzo da pagare per ottenere questo risultato non sia a volte troppo oneroso. Se semplifica troppo il suo ragionamento, lo studioso finisce per perdere autorevolezza e può perfino capitare al lettore, anche a quello più avvertito, la strana esperienza di rivivere la piacevole sensazione della scoperta non tra le pagine di un libro accademico come quello scritto dallo storico di Princeton, ma leggendo un romanzo storico sulla Rivoluzione di enorme successo come quello firmato dalla scrittrice inglese Hilary Mantel (A Place of Greater Safety, di recente tradotto in italiano in tre volumi da Fazi), che in alcuni passi meglio di Israel sa restituire gli uomini al loro tempo, gli umori, gli odori, la storia quotidiana di persone che pensavano, parlavano, scrivevano e agivano in un modo e in un mondo più complesso, ma non meno affascinante.

Estratto da: L'Indice dei libri del maggio 2015

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Appunti distratti

Appunti distratti
 

Dicono di Ulisse, sia stato menzognero, astuto.

Dicono sia stato Nessuno e tutti in grotte popolate da mostri e scogli di sirene, odiato e invidiato. Che abbia amato l’ignoto, solcato mari sconosciuti e stratega, abbia previsto ma non profetizzato.

Ulisse è paradigma di un’umanità che combatte i propri demoni e peregrina, cerca risposte che forse non troverà ma che continua a immaginare, tentare, ricercare la propria Itaca. Ulisse è il viaggiatore...

(…) - Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti? e se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso (...) (da “Itaka” di Costantinos Kavafis)

 

Ho visto Ulisse guardare i cieli come un alchimista e col cuore che non ha paura più di soffrire, seguire segnali e sogni nei sentieri d’Europa.

L’ho ritrovato sulle strade blu, quelle secondarie dell'America più interna e rurale, quelle di W. Least Heat-Moon, di Kerouac.

L’ho visto levare le tende e vivere il momento secondo le circostanze. L’ho visto cercare il punto in cui terra e cielo si toccano, incontrare tramonti, poeti e pazzi, riscoperto le storie d'Italia sulle note di qualche canzone.

• La strada - Modena City Ramblers • End of the road - Eddie Vedder • Walk on the wild side - Lou Reed • On the road - Canned Heat • Highway 61 - The Byrds • Who’ll stop the rain - Creedence Clearwater The Revival

Dicono di Christopher McCandless che poi chiamò se stesso Alex Supertramp, sia stato un ragazzo benestante. Dicono abbia donato i propri risparmi e abbandonato tutto per sfuggire da una società consumista nella quale non riusciva più a vivere. Che abbia viaggiato per due anni negli Stati Uniti e in Messico, per scoprire poi che la felicità è reale solo quando viene condivisa.

Non dovremmo negare che l'essere nomadi ci ha sempre riempiti di gioia. Nella nostra mente viene associato alla fuga da storia, oppressione, legge e noiose coercizioni, alla libertà assoluta, e la strada porta sempre a Ovest. (dal film “Into the wild” di Sean Penn)

Cerco Ulisse e il suo cuore da viaggiatore quando Il silenzio stride con le possibili note lunghe di un clarinetto steso al sole, quasi cinico perché non violato. Lo aspetto quando gli sussurra un suono incauto fra ferite di buchi inermi, sconfitte da acque gelide che continuano a innaffiarlo. L’importante è andare, iniziare il viaggio, attendere fra collane rosse con fiducia una nuova immagine. I suoni sono inizialmente quasi onomatopeici e i gesti disarmanti ma poi come terra che nasce dal proprio caos, maturano stelle danzanti. Il silenzio così dimentica se stesso e comincia a muoversi, vivere di nuovo e poi quando ci si è mossi, non si ha più voglia di fermarsi. Tratti di strada nuovi che hanno visto migliaia di suole e occhi solcarli, diventano anche i tuoi.

• Un’imbarcazione è più sicura quando si trova in porto; tuttavia non è per questo che le barche sono state costruite (da L’alchimista - Paolo Coelho) • C’è n’è ancora di strada (da Big sur - Jack Kerouac) • Ogni nome un uomo ed ogni uomo e' solo quello che scoprirà inseguendo le distanze dentro se (da “Rotolando verso sud” - Negrita)



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Haim Burstin – Un’antropologia della Rivoluzione francese?

 

Haim Burstin – Un’antropologia della Rivoluzione francese?

 

 

(recensione di Daniele Di Bartolomeo - Facoltà di Scienze della Comunicazione - Università degli Studi di Teramo)

 

Haim Burstin, Rivoluzionari. Antropologia della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 2016

pp. 334, 25 euro (ed. orig. Révolutionnaires. Pour une anthropologie politique de la Révolution française, Vendémiaire, Paris 2013)

Haim Burstin, professore di storia moderna all’Università di Milano-Bicocca, è uno studioso noto nel panorama della storiografia internazionale per le sue preziose e innovative ricerche sui luoghi (il faubourg Saint-Marcel) e sui protagonisti (i sanculotti) della Parigi rivoluzionaria. Ed è proprio sulle fondamenta di questi monumentali studi, iniziati negli anni Settanta sotto la guida dello storico marxista A. Soboul, che l’autore si appoggia (qualcuno potrebbe dire, si adagia) per proporre nel suo ultimo libro, Rivoluzionari. Antropologia della Rivoluzione francese (Laterza, 2016), una rilettura ambiziosa e suggestiva della Grande Rivoluzione.

È davvero curiosa la sorte toccata a questo volume, la cui prima edizione francese risale al 2013. È un libro importante, a tratti anche avvincente, concordano i suoi recensori, ma, aggiungono subito dopo all’unisono, non è affatto un’antropologia della Rivoluzione francese (J.P. Jessenne, “RHMC”, gennaio-marzo 2015, n. 62; G. Berta, “L’Espresso”, 25 febbraio 2016). Tutt’al più si tratterebbe di una «fenomenologia di tipi rivoluzionari» scritta alla maniera dei sociologi, hanno chiosato due esperti della Rivoluzione come Francesco Benigno (“Alias”, 7 febbraio 2016) e Sergio Luzzatto (“IlSole24Ore-Domenica”, 27 marzo 2016). Una manchevolezza costata all’autore il rimprovero dell’indomito storico marxista Claude Mazauric: un accigliato e severo decano degli studi rivoluzionari che, tra le altre cose, accusa apertamente Burstin di aver “tradito” la vecchia causa comune (“AHRF”, luglio-settembre 2014, n. 377). Tra una recensione e l’altra, poi, emergono seri dubbi sul fatto che l’autore, in fin dei conti, sia davvero riuscito a spiegare il fenomeno della radicalizzazione rivoluzionaria e, soprattutto, il lato oscuro della Rivoluzione, l’emblema del suo fallimento: il Terrore.

Eppure, nonostante la curiosa e a tratti imbarazzante controversia accademica sul sottotitolo e il rischio di restare insoddisfatti dalle nuove risposte fornite dall’autore all’enigma della violenza e dell’inarrestabilità della Rivoluzione, quello di Burstin è un libro intelligente che merita di essere letto fino in fondo.

Il ragionamento dell’autore parte dalla constatazione che gli eventi più importanti della Rivoluzione hanno avuto come protagonisti personaggi minori, la cui esperienza e il cui contributo sono stati incredibilmente sottovaluti dalla storiografia. A Burstin non interessano le grandi figure di rivoluzionari o contro-rivoluzionari che già conosciamo e neppure coloro che incrociata la Rivoluzione se ne sono presto allontanati o l’hanno vissuta con cinico distacco, magari approfittandone. Lo storico della Bicocca è appassionato alla gente comune, a coloro che inaspettatamente diventano rivoluzionari subendo una vera e propria mutazione antropologica. È il momento magico in cui personaggi minori vivono l’ebrezza ed il tormento di essere rivoluzionari, insieme l’illusione e la possibilità concreta di cambiare sé stessi ed il mondo. È l’attimo in cui «gli individui rimangono impigliati, materialmente o ideologicamente, nell’evento, spesso portati da una sorta di corrente collettiva, senza la capacità, la previdenza o anche solo la forza di disincagliarsi e farsi da parte». La grandezza del libro di Burstin sta proprio qui, nell’essere riuscito a raccontare questa straordinaria esperienza fatta di illusioni e amarezze, atti eroici e meschinità, generosità e sopraffazione, dedizione alla causa comune ed egoismo, e non ultimo di intrighi e violenze.

 

Ma c’è anche un’altra ragione, se si può ancora più suggestiva, per appassionarsi a Rivoluzionari. Ogni pagina del libro, infatti, rinvia a qualcosa di intimo, tale da farlo apparire il frutto di una sorta di esame di coscienza che l’autore ha condotto aprendo la «scatola nera» della sua vita professionale e privata. L’impressione è che quando racconta l’esperienza sconvolgente della rivoluzione, Burstin si riferisca a qualcosa che conosce personalmente, che gli appartiene come uomo che ha vissuto intensamente il secolo scorso. Nel testo c’è, in altre parole, un’analogia con l’esperienza elettrizzante e tragica della rivoluzione nel Novecento: il più delle volte implicita, ma altre volte scoperta come quando l’autore definisce la Rivoluzione francese un «assalto al cielo» e il suo tempo come quello in cui «l’immaginazione era al potere». Ne è uscito fuori un racconto certo appassionante, ma a tratti introspettivo e verboso: una sorta di autobiografia intellettuale e personale dal sapore autoreferenziale (tanto che l’autore non sente neppure l’esigenza di aggiornare l’apparato bibliografico, fermo sostanzialmente agli anni Ottanta).

Morta la rivoluzione come evento necessario del divenire storico, restano i rivoluzionari, i suoi reduci, che ne portano addosso i segni indelebili. Tra cui, forse, si annovera anche Burstin. La rivoluzione appare così, ieri come oggi, una nave che salpa per una destinazione sconosciuta ma favolosa e naufraga altrove: un’esperienza amara di cui resta non già la soddisfazione dell’approdo ma il ricordo insieme entusiasmante e malinconico del viaggio. E forse anche la speranza che, con tutti i suoi difetti, alcuni terribili, un giorno questo viaggio possa ricominciare, che la rivoluzione possa tornare.
( da https://www.lindiceonline.com/l-indice/sommario/luglio-agosto-2016/)

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Dalle budella alle corde armoniche, gli ultimi artigiani di un mestiere celestiale

Un mestiere antichissimo, fatto di dettagli, che parte dalla materia più arcaica: le budella di agnello per poi diventare suono e musica celestiale. Che le questioni umane siano complesse, lo rivela in modo chiaro il mestiere di cordaio di corde armoniche. Una tradizione che resiste a Salle, 300 abitanti, piccolo paese alle pendici del Morrone in provincia di Pescara, dove oltre alla piccola fabbrica esiste il "Museo cella corde armoniche", unico al Mondo. Gli ultimi cordai sono loro Pietro e Beniamino Toro.

Quando inizia questa tradizione in paese?

"I documenti parlano del 1600, certo la materia prima, le budella di pecora erano ovunque, ma a Salle si stabilì la loro lavorazione per tutti gli strumenti a corda dell'epoca Barocca: liuto, viola da gamba e violino barocco, violoncello, contrabbasso, chitarra barocca. Le corde venivano spedite in vari posti d'Europa, naturalmente non si realizzavano solo a Salle ma anche a Roma, Firenze, Napoli. A Salle si sviluppò una grande professionalità".

Lei Beniamino, con suo fratello Pietro portate avanti l'ultima azienda di Salle?

"Siamo figli di cordai, a Salle per fare un paragone con il recente passato negli anni 60-70 erano più di cento i cordai in attività, sei-sette fabbriche, mio padre aveva un laboratorio con 8 dipendenti. Poi alcuni si sono spostati altrove, in Abruzzo a Sulmona, ma anche Napoli, Roma, e molti ancora all'estero, tra i personaggi più famosi c'è la D'Addario string in America azienda conosciutissima con mille e 100 dipendenti".

A Salle c'è il museo. Cosa rappresenta per voi?

"È un motivo di grande orgoglio, perché è racchiuso l'universo di questa tradizione che nel mondo è unica. Le posso dire che molti musicisti vengono in paese per visitare il museo,  verificare come costruiamo le corde. Oggi c'è un ritorno alle sonorità originali, si suonano strumenti d'epoca o costruiti con le antiche specifiche e quindi le corde armoniche sono irrinunciabili. I mercati, i negozi e le istituzioni musicali sono ancora molto vive in particolare nel Nord Europa. C'è spazio e mercato, ma non ci facciamo illusioni perché il lavoro è davvero difficile, serve esperienza finissima, abbiamo l'aiuto di nuove macchine ma il lato artigianale è determinate"

Qualche aneddoto singolare da raccontarci?

"Me ne vengono in mente due. Il primo legato al lavoro, molti cordai di Salle andavano negli anni 30 del secolo scorso, a lavorare a Napoli e ci andavano con le biciclette. Un viaggio difficile, lungo salite infinite e discese ripide, su vie senza asfalto. Eppure partivano e arrivavano, compreso nostro padre. Altro aneddoto, è legato ai musicisti, ognuno ha una sua sensibilità, ma una volta una strumentista animalista mi disse: se dovete uccidere un agnellino per me, allora rinuncio alle corde. La rassicurammo, noi non uccidiamo gli animali, ma almeno quando acquistiamo le budella le lavoriamo con sacrificio e anche amore, e poi sugli strumenti questa nostra passione crea un suono e una magia".

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Generazione Millennials

 

Generazione Millennials

“La cosa più importante è lasciare un’impronta forte, dare un impatto deciso, essere appunto protagonisti dal primo momento, essere da subito sulla vetta senza preoccuparsi del percorso per raggiungerla”.

In questo modo, lo scrittore e motivatore americano, Simon Sinek, descrive i ragazzi nati sotto il segno del progresso, i quali si caratterizzano per la voglia di distinguersi e per un forte individualismo, manifestando la volontà di esprimersi e la necessità di essere accettati.

Nell’agosto 1993, la rivista pubblicitaria americana “Ad Age” descriveva la vita dei teenagers americani definendoli come la “Generazione Y” ovvero i nati tra gli anni ottanta e duemila opposti alla più conosciuta Generazione X, successiva alla Seconda Guerra Mondiale.

Questi due gruppi sono spesso identificati come target distinti, bersagliati dalla pubblicità e oggetto di studio di numerose agenzie di marketing; ciò che li distingue è il modo in crescono, si informano e comunicano.

Ci sono quattro elementi attraverso i quali i millennials vengono raccontati: il rapporto con i genitori, la tecnologia, l’impazienza e l’ambiente.

L'infanzia della “Generazione Y” è stata segnata da un approccio educativo tecnologico e neo-liberale, derivato dalle profonde trasformazioni degli anni sessanta e giudicato più volte fallimentare: i genitori hanno insegnato loro che si può avere tutto solo perché lo si desidera, hanno detto ai loro figli che sono speciali, hanno permesso loro di frequentare le scuole e le università migliori.

I millennials sono cresciuti convinti di avere una missione, di poter avere e poter fare di più.

Tuttavia, una volta entrati nella vita reale, questi non ricevono più gratifiche, iniziano a lavorare e si rendono conto che ciò che vogliono non è poi così facile da raggiungere: sembra che ogni azione non sia mai abbastanza, non si sentono pienamente soddisfatti.

In questo modo, la generazione che vuole di più cresce, inconsapevolmente, con un livello di autostima significativamente basso rispetto alla media e sensibile al mondo dei social networks: dimensioni virtuali fatte di filtri che possono modificare la realtà, dove la vita di qualcuno può sembrare sensazionale anche se in verità risulta essere l’esatto opposto.

Ciò che alcuni ragazzi di questa generazione manifestano sembra essere a tutti gli effetti una dipendenza, la quale porta i soggetti interessati a controllare i propri profili social più volte al giorno, a costruirsi un profilo virtuale, ad assegnarsi un valore in base ai “followers” ovvero coloro che seguono la vita del soggetto interessato online e che esercitano un forte peso su di esso, sgretolando il confine tra ciò che è reale e ciò che è virtuale.

La scienza dimostra che le persone che utilizzano i social network più volte al giorno sono più soggette alla depressione di persone che non fanno uso di portali web. Inoltre, molti non riescono a stringere relazioni profonde, ammettono di avere rapporti superficiali, utili solo al divertimento. Questo accade perché le abilità funzionali alla creazione di una relazione profonda vengono sostituite dai mezzi di comunicazione, dai “devices” che costruiscono un muro con la realtà.

Il risultato è una generazione con bassa autostima e incapace di affrontare le situazioni di difficoltà. È qui che entra in gioco l’impazienza in un mondo di gratificazioni istantanee: comprare qualcosa, ascoltare musica, guardare un film, conoscere qualcuno, sono azioni che posso essere svolte rapidamente online. Non occorre per forza uscire e relazionarsi: tutto è in rete, non c’è nessun meccanismo comunicativo da comprendere, nessun errore da fare e dal quale imparare.

Sembra che i millennials siano il frutto di una società che si nutre del progresso e che sembra non potersi fermare. Sembra che non abbiano mai conosciuto l’attesa e la pazienza, che non gli sia stato detto che le cose più importanti richiedono tempo.

Ma è davvero così? È reale l’immagine di una generazione che cresce senza lavoro, senza relazioni profonde, senza una società che li comprenda pienamente?

Il problema non sembra essere internet, la tecnologia o il progresso ma il mancato equilibrio: in alcuni di loro, questi elementi hanno portato alla distruzione di relazioni, allo spreco di tempo e di denaro, rendendo la vita peggiore; in altri gli stessi fattori hanno permesso di aumentare capacità e conoscenze. Ciò avviene poiché il progresso è in grado di livellare la società ma anche di generare diversità.

Di conseguenza, la creazione di un macro gruppo per poter descrivere una generazione sembra non essere sufficiente poiché rischia di sminuire e non comprendere a fondo ogni sua parte.

(di Giorgia Sulli)

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L’otto Marzo è ogni giorno

    L'otto Marzo è ogni giorno 

Ci siamo, è di nuovo l'otto marzo e come ogni anno siamo qui a ragionare di diritti negati alle donne.
Una data simbolo, un giorno universalmente riconosciuto quale momento di riflessione sul livello di civiltà raggiunto da società che ritengono, spesso, di autodefinirsi "evolute.
Discriminare persone in ragione del genere d'appartenenza non può certamente definirsi elemento di civiltà; nasce anche da questa considerazione la necessità forte di coinvolgere gli uomini in una battaglia di civiltà.
Fenomeni allarmanti e gravi quali le violenze di genere e il femminicidio non possono più essere considerate " questioni meramente femminili " ed è essenziale la presa di coscienza: siamo di fronte ad una deriva culturale che investe la società tutta.
Importanti segnali sono giunti da associazioni e cittadini: uomini che, quotidianamente, affiancano le donne per combattere la barbarie: un passo in avanti enorme, una consapevolezza che rappresenta però solo il primo passo di un percorso di civiltà da seguire insieme.

I dati, dal 2014 al 2016, resi pubblici dalla Polizia di Stato

I femminicidi in ambito familiare
sono stati 117 nel 2014, 111 nel 2015, 108 nel 2016.
Le violenze sessuali - oltre il 90% in danno delle donne - sono state 4.257 nel 2014, 4.000 nel 2015, 3.759 nel 2016.
Gli atti persecutori - circa il 76% in danno delle donne - sono stati 12.446 nel 2014, 11.758 nel 2015, 11.400 nel 2016.
I maltrattamenti in famiglia (circa l’81% in danno delle donne) sono stati 13.261 nel 2014, 12.890 nel 2015, 12.829 nel 2016.
Le percosse (circa il 46% in danno delle donne) 15.285 nel 2014, 15.249 nel 2015, 13.146 nel 2016.

Questo lo scenario in Italia, i dati fanno rabbrividire.

Nel mondo

Per quel che concerne una visione globale del fenomeno, impressionanti i dati dell’OMS:
nel mondo,
la prima causa di uccisione delle donne tra i 16 e i 44 anni è il femminicidio.

Problema culturale

Da questi elementi si comprende la vastità e la complessità di una condizione feroce che spesso identifica le donne quali vittime di società misogine ed è quindi ancor più importante l'impegno degli uomini nella lotta per la civiltà; una battaglia che deve vedere ogni cittadina/o e le Istituzioni uniti per sconfiggere, infine, l'orrore del femminicidio - estrema conseguenza di un problema culturale che si esprime attraversotutte le forme di discriminazione e violenza di genere hanno l'obiettivo di annullare la donna nella sua identità e libertà - .

L'importanza delle parole e la cultura del rispetto

Ancora oggi, alcuni titoli di stampa mostrano poca attenzione all'uso di parole adeguate: " dramma della gelosia ", " uomini che amano troppo ", " omicidio passionale " in luogo di " femminicidio ": parole espressione di una cultura maschilista che fatica ad accettare il principio elementare secondo il quale, la violenza, la morte, nulla hanno a che fare con l'amore.
Altri polemizzano sulla necessità d'utilizzo del termine " femminicidio ", ritenendo inutile sottolineare il genere d'appartenenza delle vittime; a coloro sfugge un punto essenziale: l'elemento essenziale della definizione è dettato dalle motivazioni - indissolubilmente correlate al genere d'appartenenza della vittima - che spingono al delitto; è qui la fondamentale differenza che intercorre tra omicidio e femminicidio.

Esaustiva la definizione di Marcela Lagarde, accademica, antropologa e politica messicana.

Femminicidio è " La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia ".

(Di Gilda Panella)

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Art en plein air: il Campo dei Melograni

 

Art en plein air: il Campo dei Melograni

 

In una valle pianeggiante situata ai piedi del Morrone, con uno sguardo verso la Majella, nasce il Campo dei Melograni, una realtà che già al suo primo apparire sta affascinando il panorama dell’arte contemporanea italiano e internazionale. Arte e Natura sono un connubio indispensabile per “Edit”, acronimo e nome d’arte della poliedrica artista ed architetto pescarese Ergilia Di Teodoro. Ideatrice del progetto, che grazie alla preziosa collaborazione dello scultore toccolano Arcangelo Carbone sta concretizzando un percorso che potremmo chiamare di “Land Art” davvero suggestivo e unico nel suo genere.

Il Campo dei Melograni si estende per oltre 6000 mq con una texture regolare di alberi da frutto il cui cuore ha come protagonista il melograno.

"Come guscio antico,

superbo frutto

in Te racchiudi

gocce di sangue

che profumano di vita”

Questi i versi con i quali l’illustre poeta torinese Innocente Foglio ha voluto celebrare tale progetto, versi incisi da Arcangelo Carbone su di una scultura in radice di ulivo e pietra della Majella eretta l’8 gennaio 2017 giorno della solenne cerimonia inaugurale svoltasi alla presenza delle competenti autorità locali all’ingresso del campo.

Questa realtà museale a cielo aperto, work in progress permanente, art en plein air, futuri Land scape, performance art dove gli stessi artisti ideatori pongono in essere la loro straordinaria creatività, costituisce un’interazione arte-natura esaltando quel concetto di Madre natura su cui recentemente Papa Francesco è intervenuto con la mirabile Enciclica “Laudato si’”. Potremmo definire questa iniziativa la realizzazione della filosofia del Poverello d’Assisi espressa mirabilmente nel “Cantico delle creature” che sappiamo essere stato il manifesto ante litteram dell’Umanesimo. Ed allora qui è possibile godere del concerto che la natura sa offrire ai suoi figli attraverso il fruscio delle foglie, il cinguettio di uccelli, il canto delle cicale e così via.

In Contrada Ceppete si snoda una stradina rurale che funge da raccordo tra la Tiburtina e i paesi dell’entroterra pescarese quali Tocco da Casauria, Musellaro, Salle; un tempo questa piccola arteria era scarsamente frequentata se non dagli agricoltori dei terreni circostanti o da qualche innamorato della natura amante di passeggiate all’aria aperta.

Al contrario oggi grazie proprio all’interesse che si è creato intorno al Campo dei Melograni ricco di sorprendenti colori, la strada del Ceppete è diventata molto più frequentata con visitatori provenienti da ogni dove grandemente entusiasti di questa iniziativa. Nell’intenzione di Edit e del suo collaboratore Arcangelo Carbone quest’oasi naturalistica ove l’arte esalta la natura e viceversa la natura funge da palcoscenico alle opere che negli anni andranno ad arricchire il perimetro, dovrà costituire un richiamo turistico straordinario per la terra d’Abruzzo recentemente martoriata da eventi catastrofici che hanno commosso l’opinione pubblica internazionale.

 

Ci piace immaginare che in tal modo Edit abbia idealmente inteso rendere omaggio alle vittime di quella tragedia, offrendo ai sempre più numerosi visitatori previsti, soprattutto scolaresche, anche ulteriori iniziative di godimento spirituale e culturale come incontri, tavole rotonde, conferenze, presentazioni di libri, mostre di pittura, declamazioni poetiche. Tocco da Casauria da oggi sarà nota al mondo non solo per aver dato i natali al grande pittore Michetti, ma anche perché sul suo territorio, in contrada Ceppete, sorge il Campo dei melograni, il frutto che “dà bei vermigli fior”.

(Di Edit, con la collaborazione di Leo Strozzieri)

 

 

 

 

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Bande musicali: basta declino, pensiamo al futuro

 Bande musicali: basta declino, pensiamo al futuro

Le bande musicali sono una parte importante della storia culturale della regione Abruzzo, basti pensare che su 305 comuni abruzzesi, ben 103 fra comuni e frazioni hanno avuto una o più bande musicali. Il primo documento che ci parla di banda, risalente alla fine del XVIII secolo, è stato ritrovato presso il comune di Introdacqua (AQ), ed è un atto di matrimonio in cui si attesta che il lavoro dello sposo era quello del bandista. Probabilmente però questo giovane sposo doveva essere un musicista delle così dette “paranzelle”. Queste non erano delle vere e proprie bande musicali ma più che altro dei gruppi dall'organico variegato di cui facevano parte: strumenti a pizzico, percussioni, flauti di canne e chi più ne ha più ne metta.

Le prime bande vere e proprie di cui si ha notizia sulla data della formazione sono quelle di Pescina (che continua a svolgere ancora oggi le proprie attività bandistiche) e Città Sant'Angelo (che invece non esiste più). Negli anni a seguire sono nate molte altre bande: Spoltore (1808, non più in attività), Alanno(1809, non più in attività) e tante altre ancora. Le bande abruzzesi in quel tempo erano annoverate fra le migliori del mondo.
Le prime a portare lustro all'Abruzzo furono quella di Lanciano diretta dal M°Augusto Centofanti (capostipite di una famiglia importantissima per la storia della banda abruzzese e italiana) e quella dei “Diavoli Rossi” di Pianella, seguite poi da quelle di Chieti, Teramo, Introdacqua, Pescara e Pescina.Con il fascismo la qualità delle bande dei centri più importanti aumentò e con essa anche il numero degli elementi arrivando addirittura ad 80/90 musicanti. Le migliori bande di quel periodo furono indubbiamente quella di Pescara diretta dal Maestro Giustino Scassa, ma sopratutto quella di Chieti diretta dal Maestro Domenico Valenti che conquistò la fama di “più grande banda del mondo” in Italia e ancor di più all'estero, ma questo che fu l'apice del fenomeno banda in Abruzzo, divenne anche l'inizio del declino.

I grandi personaggi delle bande abruzzesi.

Premettendo che sicuramente mi scorderò di qualcuno assolutamente quando si parla di banda e di Abruzzo, non si può non parlare della grande famiglia lancianese dei Centofanti. L'ultimo grande personaggio di questa famiglia che ha fatto la storia della banda in Abruzzo è in Italia, fu il M° Nicola Centofanti. Un altro lancianese che scrisse importanti composizioni per banda fu Pietro Marincola.
Eccezionali artisti e compositori celebri non solo nell'ambito bandistico furono l'orsognese Camillo De Nardiis, le cui esebizioni per banda sono eseguite in tutto il mondo ancora oggi, e l'atessano Antonio Di Iorio che fra tutti questi è l'unico ad essere ricordato ed onorato dalla propria città di origine con un concorso musicale per bande musicali. Oltre a grandi compositori, l'Abruzzo ha dato i natali anche a grandi direttori per banda come Paris Terra, Giustino Scassa ed ha accolto fra le sue braccia maestri come Michele Lufrano e Domenico Valenti e Giovanni Orsomando.

Tutti questi direttori fanno parte di un glorioso passato. Tutt'oggi però l'Abruzzo ha dato i natali o ospita grandi maestri banda come i maestri Fiorangelo Orsini (attualmente direttore della banda di Rutigliano), Michele Marvulli (attualmente senza banda, ultima banda diretta Pescara alcune stagioni fa), Donato Di Martile (direttore della banda musicale del corpo nazionale dei vigili del fuoco) e il maestro Danilo Di Silvestro (direttore della fanfara della legione allievi carabinieri di
Roma)

Le bande musicali in Abruzzo oggi

La banda in Abruzzo oggi è in crisi. Il numero di persone che decide di intraprendere lo studio di uno strumento a fiato è sempre in calo; inoltre non sempre chi suona uno strumento a fiato decide di suonare in banda a causa delle numerose difficoltà di questo lavoro. In questo momento si può asserire senza alcune possibilità di essere smentiti, che le bande abruzzesi vivono un forte periodo di transizione e sono schiacciate fra la riforma del repertorio e dell'organico
che è in corso in Europa e nel nord Italia già da molto tempo e la tradizione ancora viva nel sud Italia. Il problema maggiore non è nemmeno questa crisi di identità ma sopratutto una crisi economica e di professionalità che attanaglia il mondo bandistico. Al momento è difficile che le bande in Abruzzo ricevano fondi da enti o addirittura dai comuni che rappresentano, e gli unici introiti che le bande musicali hanno per continuare ad esistere sono quelli guadagnati con le prestazioni musicali. Ma se un tempo la banda era il fiore all'occhiello di chi organizzava la festa in onore del patrono del proprio paese, oggi, a causa della crisi economica e sopratutto culturale che ci attanaglia, si tende a risparmiare, perchè c'è chi pensa che la banda serva solo a fare rumore. Fortunatamente però non sono tutti così, ed esistono organizzatori di feste che amano l'incarico e che apprezzano la banda e la buona musica. “Dulcis in fundo”, all'ignoranza di chi organizza una festa spesso senza cognizione di causa, si aggiunge l'ignoranza di chi è il responsabile artistico della banda o di un'associazione culturale.
Come si può pretendere che la banda torni ad essere un prodotto artistico rispettato se spesso e
volentieri sassofonisti si improvvisano insegnanti di tromba e altri strumenti ad ottoni o viceversa trombettisti si improvvisano insegnati di clarinetto e sax?
Come si può pretendere di venire considerati artisticamente se molti “capobanda” o in genere organizzatori di banda non hanno neppure il diploma di conservatorio o almeno la licenza di solfeggio? La banda è sempre stata aperta ad artigiani o dopo lavoristi, ma questi certo non si mettevano al timone di questa. Il bollettino medico sulla salute delle bande in Abruzzo oggi è molto grave; basti pensare che ad oggi dei grandi complessi bandistici storici, sono attivi solo tre: Pescara, Lanciano e Chieti. Le prime due formazioni seppure con presidenti abruzzesi che investono tempo, energie e denaro per far continuare la storia di questi grandi complessi, sono formate quasi interamente (se non interamente) da musicisti non abruzzesi. Mentre Chieti ,nella recente formazione, è l'unica ad essere formata interamente da elementi abruzzesi.


Quale sarà il futuro della banda in Abruzzo?

Sicuramente la banda sopravviverà sempre dove c'è passione ma sopratutto dove c'è formazione. Dunque in primis i maestri, capobanda, organizzatori ecc dovranno cercare di migliorare loro stessi. Al momento purtroppo nella nostra regione, nonostante la storica e gloriosa tradizione bandistica,
non esistono nei conservatori corsi di “strumentazione per banda” o “direzione per banda” e altri corsi dedicati a questo mondo. Quindi i primi a dover aiutare questo mondo ad uscire dalla crisi devono essere i conservatori con la nascita di questi corsi accademici. Inoltre sarà indispensabile tentare con tutte le forze di far innamorare i bambini degli strumenti usati in banda. Inoltre questi strumenti dovranno essere insegnati da docenti validi in quel determinato
strumento. Un plauso in questo senso si deve fare sopratutto ad associazione culturali della Marsica
e della provincia di Chieti. Da musicista nato in banda e da attuale maestro di banda spero mi auguro con tutto il cuore che questo mondo possa non finire mai e che si liberi da tutte le zavorre che al momento lo stanno spingendo verso il fondo di un baratro senza fine.

Da ascoltare:

CAMILLO DE NARDIS- IL GIUDIZIO UNIVERSALE
https://www.youtube.com/watch?v=_B97hZP_O7A   
CAMILLO DE NARDIS- SCENE ABRUZZESI
https://www.youtube.com/watch?v=EFkNaUkBiwY  
NICOLA CENTOFANTI- ARMONIE D'ABRUZZO
https://www.youtube.com/watch?v=R6SH0W5qEw4  
NICOLA CENTOFANTI- MATTINATA PRIMAVERILE
https://www.youtube.com/watch?v=B5nYAinKw1Y  
PIETRO MARINCOLA- A PIACERE
https://www.youtube.com/watch?v=99n4hSIE21A 
PIETRO MARINCOLA- NON VI PREOCCUPATE
https://www.youtube.com/watch?v=TpzIfGxdv_M 
GIOVANNI ORSOMANDO- CUORE ABRUZZESE
https://www.youtube.com/watch?v=KdQHNp51LAg 
MICHELE LUFRANO- REGIONE ABRUZZO
https://www.youtube.com/watch?v=45Yqy7X0tMA  
FIORANGELO ORSINI- CARATTERISTICA
https://www.youtube.com/watch?v=3AWi-0AdhRw 

 

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Se gli orti urbani arrivano in città

Un luogo simbolico: alle porte dell’ex discarica di Fosso Grande, a valle di un grande insediamento edilizio che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta ha portato alla costruzione di 800 appartamenti in cooperativa. Pescara avrà i suoi primi orti urbani promossi dal Comune nel cuore di cemento del quartiere Colli, fra via Santina Campana e via Remo Ronchitelli. Ci sarà spazio per 16 orti urbani, dove altrettante famiglie – selezionate attraverso un regolamento in fase di redazione – potranno coltivare un piccolo appezzamento e condividere un luogo di socialità. La sfida è impegnativa, anche perché non più di quattro anni fa i residenti avevano chiesto una presenza più massiccia di forze dell’ordine perché gli spacciatori del quartiere avevano scelto quel luogo come ritrovo. La battaglia per ridare vita sociale ad un rione – quello delle cooperative – troppo grande anche per Pescara Colli era nata in realtà con l’idea di un parco pubblico. Era il 1994 e il parco aveva giù un nome: Giardino dei popoli, in omaggio agli abitanti del quartiere che in più di una occasione avevano dimostrato spirito di accoglienza e grande apertura mentale, nonostante fosse stato pensato senza negozi, senza spazi pubblici, senza scuole. Il parco non si è mai fatto, al suo posto sono arrivati gli spacciatori, le erbacce e il degrado. Ora la città si riprenderà i suoi spazi, dandoli in gestione alla cittadinanza attiva del quartiere, mescolando ecologia e senso di appartenenza, in una nuova sfida che se coglierà il suo obiettivo, potrà essere esportata anche in altri luoghi dove gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quelli delle città da bere, hanno lasciato in eredità solo cemento e zero spazi di socialità. Una sfida appena iniziata.

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