“Oddio, cosa sta succedendo!” esclamai svegliata di soprassalto, alle 3 e 36 del 24 agosto 2016. Con sgomento notai che era quasi la stessa ora del terremoto dell’Aquila dell’aprile 2009, mentre un rumore martellante e cavernoso si accompagnava allo scuotimento prolungato di tutte le cose intorno a me, finestre, mura, armadio, lampadario. Subito le radio ci informarono dell’epicentro di quel sisma, e poi incominciò la sequela delle immagini in TV, centrate su Amatrice e le frazioni dei dintorni.
Ed ecco Amatrice ad un anno da quel giorno. Entrando nel centro del borgo, girando a sinistra c’è il viale che conduceva in centro. Ad un lato la sede del parco nazionale Gran Sasso e Monti della Laga, difronte un giardino pubblico, verde, fiorito, curatissimo. È la fine di tutto, anzi è l’inizio delle rovine, a vista d’occhio una distesa di detriti, non c’è rimasto niente del vecchio abitato, ancora distinguibili, ma inclinati su un lato un paio di fabbricati bianchi suggeriscono che lì c’era vita: case, chiesa, negozi, ristoranti, gente in movimento. Diversa l’impressione che mi fece a suo tempo il centro dell’Aquila, distrutto sì, zona rossa impenetrabile, ma in piedi e riconoscibile nelle sue vie, vicoletti, piazze e piazzette. Del centro di Amatrice non c’è neppure il ricordo. Da segnalare vicino alle rovine il cartello che vieta di fare selfie, zona di rispetto.
Camminando in direzione opposta, un bel viale in salita, ai lati qualche fabbricato ancora in piedi dà l’impressione di benessere, spazi verdi, case eleganti, oggi accanto a file di casette di legno. Dopo circa un chilometro ecco la novità: il polo del cibo, che la dice lunga sulla cultura e le attività economiche del luogo. Si tratta di un gruppo di fabbricati in legno e vetro, ariosi e luminosi, dall’interno si scorge le vicine catene di monti. Ciascuno di essi è fatto di linee armoniose e slanciate verso l’alto, e tutti insieme formano una zona di svago e di incontro sorprendente, piacevolissima. Sono ristoranti, il cibo, il punto cardine dell’economia di una zona dedita principalmente all’allevamento del bestiame. Famosi tutti, questi ristoranti servono uno dei piatti più richiesti al mondo, la pasta all’amatriciana, condita da una magnifica, buonissima mistura di guanciale e pecorino, servita in bianco o al pomodoro. Il polo del cibo inaugurato il 29 luglio scorso, ha attratto subito folle di visitatori, che sciamano da un ristorante all’altro alla ricerca di un tavolo libero. Tutti i ristoranti insieme manifestano in modo visibile la forte volontà di rinascita della comunità, una fiducia fortissima nella propria cultura, una vivace voglia di vivere, di tirare avanti con la vita nonostante tutto.
Nel 2015 Amatrice entrò a far parte del club dei borghi più belli d’Italia. Distrutta nel 2016, oggi si trova fra la memoria di un passato cancellato dalla furia della natura ed un futuro appena segnato e annunciato dal polo del cibo. Passato e futuro collegati, o divisi, da un viale di circa un chilometro. La sfida da affrontare da chi porterà avanti la ricostruzione di Amatrice negli anni a venire sarà proprio quella di farne ancora uno dei borghi più belli d’Italia. Ed anche sicuro, se è possibile!
San Pietro della Ienca è una chiesina medievale appartenente alla parrocchia di Camarda, situata nella zona del Vasto, versante aquilano del Gran Sasso. Domenica 6 agosto 2017, dopo la messa celebrata dall’arcivescovo Monsignor Petrocchi, sotto un tendone si è tenuta la cerimonia della consegna del premio internazionale “La Stele della Ienca”, giunto quest’anno alla sedicesima edizione. Il premio consiste in una riproduzione in bronzo della stele dello scultore Antonio Quaranta eretta in ricordo delle visite fatte da Papa Woytila alla chiesetta di San Pietro. A ricordo di queste visite, cito l’articolo de La Repubblica, del 31 dicembre 1995, che racconta “…Karol Woytila trascorre un pomeriggio intero sul Gran Sasso tra i monti d’Abruzzo, in un eremo, accompagnato da pochi intimi e protetto da un imponente apparato di agenti…”.
La crescita di questo luogo, ove la natura della montagna rocciosa e solitaria è arricchita da profondi e condivisi valori religiosi e spirituali, è portata avanti dall’Associazione Culturale “San Pietro alla Ienca”, presieduta da Pasquale Corrieri, che con tenacia e lungimiranza si adopera per creare molteplici attività.
La consegna di questo riconoscimento iniziò nel 2001, quando fu premiato Luigi Accatoli, vaticanista del Corriere della Sera. Successivamente il premio ha riconosciuto meriti di persone singole o di gruppi impegnati sia in campo religioso che nel sociale. Sono stati premiati, fra gli altri, nel 2005 Stanislaw Dziwisz, Cardinale arcivescovo di Cracovia, la città di Assisi nel 2015, gli Alpinisti Abruzzesi nel 2003, la Protezione Civile della Regione Sardegna nel 2009, e nel 2010 il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.
Quest’anno il premio è andato alla Fondazione Falcone in ricordo dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di tutte le vittime di mafia, per la ricorrenza dei 25 anni delle stragi avvenute in Sicilia, che coinvolsero anche il personale delle scorte. I saluti della Professoressa Maria Falcone sono stati letti dalla giovane avvocatessa aquilana Eleonora Paglia. Sul prato a fianco della chiesetta è stato messo a dimora un acero, “l’Albero di Falcone”, là vicino una targa apposta su una roccia spiega le motivazioni di questo gesto, simbolo di legalità, lotta alle mafie e alla malavita, solidarietà.
Tanta gente domenica 6 agosto alla Ienca e in zona Gran Sasso. Traffico denso, file di motociclette veloci e rombanti, auto parcheggiate su ambo i lati della strada ed anche in seconda fila. Ho sentito parlare di nuove strutture di accoglienza per turisti e visitatori. Ben vengano, ma si tenga presente che è difficilissimo conservare e tutelare la natura dei luoghi insieme a nuove e invadenti colate di tonnellate di cemento. Prima usiamo bene quello che c’è già, es.: il ristorante-bar del rifugio Montecristo era chiuso, che brutta sorpresa!
La Resistenza umanitaria in Abruzzo. La traversata della Maiella, da Sulmona a Casoli, dei prigionieri alleati in fuga dal Campo 78. La testimonianza del giovane ufficiale Carlo Azeglio Ciampi.
di Goffredo Palmerini
La Resistenza umanitaria in Abruzzo, l’aiuto dato nell’autunno del 1943 dalla gente comune ai militari alleati in fuga dal Campo 78 di prigionia tedesco a Fonte d’Amore, nei pressi di Sulmona, accolti e protetti a rischio della propria vita. E poi l’accompagnamento di quei prigionieri in fuga nella dura traversata della Maiella, attraverso la montagna impervia, in un territorio ancora occupato dall’esercito tedesco, per portarli oltre la linea Gustav – che dalla foce del Garigliano si estendeva verso Cassino, la Maiella, lungo il fiume Sangro e fino a Ortona –, verso Casoli, dove le truppe alleate risalendo l’Italia si andavano attestando. Verso quei reparti militari andarono anche i soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre ‘43, che alla Repubblica di Salò scelsero la lotta al nazifascismo e la Liberazione dell’Italia dall’occupante tedesco, unendosi agli Alleati. Queste straordinarie storie sono raccontate nel volume “Terra di libertà - Storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale” (Edizioni Tracce, Pescara, 2014), a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta. Così in una frase Eric Hobsbawm ha illuminato il fenomeno: “Ho sentito tanti racconti dell’Italia, dai prigionieri di guerra… gente la cui vita era stata spesso salvata dall’aiuto del tutto disinteressato di famiglie di contadini, che non avevano nessuna particolare ragione per soccorrerli se non quella della solidarietà umana”. Un fenomeno di straordinaria importanza, ancora da conoscere compiutamente, sebbene negli ultimi vent’anni sia attraverso gli scritti dei testimoni, i prigionieri stessi in fuga, sia di studiosi e storici abruzzesi, molta luce sia stata fatta e molto interesse sia stato sollevato sulla questione. Ma sopra tutto per la meritoria opera dell’Associazione Culturale “Il Sentiero della Libertà – Freedom Trail” (www.ilsentierodellaliberta.it), mediante importanti iniziative culturali, con seminari e convegni, con il coinvolgimento delle scuole nella ricerca storica e con la replica ogni anno della “traversata”, in tre giorni, cui partecipano quasi un centinaio di giovani studenti, studiosi e volontari dell’associazione.
Molta ricerca storica in questi anni, dunque, molte le testimonianze raccolte, compresa la straordinaria testimonianza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, quando giovane ufficiale dopo l’armistizio dell’8 settembre da Roma si rifugiò a Scanno, affrontando il 24 marzo ‘44 la traversata, raccontata in un suo diario insieme agli eventi dei mesi successivi. Per concludere questa premessa, ancora una considerazione. In quello stesso autunno del ’43, mentre la Resistenza umanitaria si consolidava, a Casoli nel dicembre nasceva la Brigata Patrioti della Maiella, per iniziativa e sotto il comando di Ettore Troilo, l’unico reparto partigiano inquadrato nelle file dell’esercito alleato. La Brigata avrebbe combattuto eroicamente, risalendo l’Italia liberando le Marche, l’Emilia-Romagna - entrando a Bologna tra i liberatori – e il Veneto. L’unico reparto partigiano decorato con Medaglia d’oro al Valor militare. Il vero orgoglio dell’Abruzzo, dunque, la Brigata Maiella combattente nella lotta di Liberazione e la Resistenza umanitaria, nella riconquista della libertà dell’Italia. Tornando al fenomeno abruzzese della Resistenza umanitaria si deve qui nuovamente sottolineare il contributo reso alla conoscenza del fenomeno da Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta, che hanno curato la pubblicazione dell’importante volume “Terra di libertà - Storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”. La sintesi che segue rende conto dei fatti e degli eventi più significativi riportati nel libro, la cui lettura guidata dovrebbe essere consigliata a tutte le scuole superiori dell’Abruzzo e non solo.
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SULMONA, Novembre 1943. Le sette di sera. Ponte di via Ancinale, proseguimento di via Pola, oltre la variante. Periferia di Sulmona. Al buio, un centinaio di persone sta componendo una lunga fila. Lingue straniere e parole dialettali si rincorrono dall’uno all’altro. Davanti due o tre sulmonesi. Le guide del percorso. Gli unici che sanno quanto sarà difficile, temerario l’attraversamento della Maiella. E da lì al Sud. Maiella, montagna madre degli abruzzesi, ma ora nelle mani dei tedeschi. La carovana si incammina. Serata novembrina, in compagnia d’un clima piuttosto mite. Gli stranieri sono la maggioranza. In gran parte, prigionieri fuggiti dal campo di Fonte d’Amore, dopo la dichiarazione dell’armistizio. Sono stati accolti e ricoverati nelle famiglie di Sulmona, dove hanno trovato cibo, rifugio, simpatia. Non se l’aspettavano, sapendo che Mussolini aveva affermato “Dio stramaledica gli inglesi”, frase spesso ripetuta alla radio. Ma era falsa anche per il dittatore, perché aveva affermato di non credere in Dio. A Sulmona, erano pochi quelli che possedevano una radio. Solo qualche famiglia benestante. La gente ascoltava i discorsi di Mussolini dalla radio in piazza, a tutto volume. Gli inglesi fuggiti dal Campo 78 si erano subito ricreduti sull’adesione degli italiani al fascismo. Non solo, ma avevano capito che le parole di Mussolini erano per gli italiani parole vuote. Soprattutto ora che Mussolini è politicamente finito, caduto nelle mani di Hitler, dopo la fuga dal Gran Sasso. Aveva creduto, solo lui, al progetto delirante: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari a calci in culo. Così farò io».
Forse, anzi certamente, un politico che se n’intendeva della guerra, il primo ministro inglese, Winston Churchill, conosceva gli italiani meglio di Mussolini: «Gli italiani sanno eccellere in moltissimi campi… Eppure si sono ostinati a fare la sola cosa nella quale non sono mai riusciti molto bene, vale a dire combattere». Ed era vero, perché molti italiani si erano iscritti al partito nazionale fascista per pacifica sopravvivenza (PNF= Per Necessità Familiari), piuttosto che per adesione volontaria o per condivisione di ideali. Al Borgo Pacentrano di Sulmona, dove erano stati ospitati e dove ne rimanevano ancora tanti in attesa di fuggire attraversando la Maiella o di essere accompagnati a Roma, avevano trovato un ambiente familiare. Un borgo-famiglia, dove si passava da una casa all’altra, assistiti come parenti. Con l’organizzazione accurata della traversata si vuole ora tentare un primo esperimento di fuga, affrontando con le guide il superamento o l’accerchiamento della Maiella. Gli alleati sono ancora lontani, mentre i tedeschi stanno occupando la zona tra l’Abruzzo e il Molise. Queste, le poche informazioni. Ma, chiedendolo alla storia, Kesselring ha già rassicurato Hitler di riuscire a bloccare l’avanzata alleata. Tra l’Abruzzo, il Lazio e il Molise. La linea Gustav. Il cammino prosegue con ritmo cadenzato. L’uno dietro l’altro, in fila indiana. In alto si vedono le poche luci fievoli di Pacentro. Anche lì sono ospitati centinaia di prigionieri fuggiaschi. Aspettano l’arrivo degli alleati. Ma il ritardo aumenta il pericolo di cadere nei rastrellamenti tedeschi. Sono avvenuti anche a Sulmona, al borgo pacentrano. Giovani e anziani italiani rastrellati per essere condotti a Pescocostanzo: a scavare trincee. Anche un prigioniero del Campo 78 vi è finito e ne è miracolosamente fuggito parlando in tedesco con due austriaci. È John Furman, che lo racconterà nel suo libro autobiografico “Be not fearful, Non aver paura”.
La carovana supera il bivio per Pacentro e si dirige verso Campo di Giove, costeggiando Cansano. Comincia la salita, anche se piuttosto agevole. Solo in alcuni passaggi ci vuole fiato e volontà di proseguire. Fortunatamente il sentiero attraversa luoghi pianeggianti, adatti a riprendere forza. Dopo alcune ore dalla partenza si vedono in lontananza le luci di Campo di Giove. Le guide fermano la carovana. Se ne conoscono ormai i nomi: Alberto Pietrorazio, Domenico Silvestri, Mario Di Cesare. A loro la responsabilità morale dell’esito della traversata. Sanno che a Campo di Giove ci sono i tedeschi. Che il paese è stato evacuato su loro ordine. Che al Guado di Coccia, un mese fa, è avvenuto uno scontro armato, lasciando morto in terra il giovane tenente italiano, Ettore De Corti. Non c’è bisogno che raccomandino massima attenzione e, con l’aiuto, di alcuni ex-prigionieri interpreti, danno le informazioni e stabiliscono di attraversare il paese, costeggiandolo al largo. Sono le dieci di sera. Qualcuno ha fatto uno spuntino, camminando. Un panino. Una salsiccia. Un po’ di formaggio. Si va verso il monte Porrara. Comincia la vera salita. L’obiettivo è il Guado di Coccia. Proprio il luogo dove è avvenuta la sparatoria e la morte di De Corti. Si sale lentamente, evitando ogni rumore. I tedeschi stanno in allerta. Sanno che Campo di Giove è un paese di riferimento per italiani e alleati, perché passaggio tra il Nord e il Sud. Per questo, al Guado di Coccia, avevano trovato decine di giovani italiani in procinto di recarsi al Sud per unirsi agli alleati.
Kesselring sta preparando la grande diga di difesa per bloccare l’avanzata alleata. Il fiume Sangro sembra messo lì come linea di separazione e di confine. Si va creando la terra bruciata. La terra di nessuno. Un paesino, Pietransieri, frazione di Roccaraso, annientato. Terra e gente bruciata: centoventotto trucidati. Novembre 1943, novembre di morti, novembre da non poter mai dimenticare. La fila dei fuggiaschi giunge al Guado di Coccia e scende verso Palena. Al buio tra gli alberi che sovrastano il paese. Lontani dalle case, proiettati verso Sud. Le guide decidono di sciogliere la carovana, in piccoli gruppi, diretti verso il Molise. Nei giorni precedenti, piccoli gruppi di prigionieri in fuga dal Campo 78 sono giunti a Campobasso, incontrando gli alleati. Lo racconterà nel suo libro sull’Abruzzo, “The Way Out, Libertà sulla Maiella”, lo scrittore sudafricano Uys Krige. La traversata non è finita, ma il passaggio della Maiella è avvenuto, senza incidenti. Tutti salvi. E’ giorno ormai e le strade controllate dai tedeschi sono facilmente evitabili. Dopo la prima, vengono organizzate altre traversate. Più difficili, più rischiose nel superamento della linea Gustav. Ma, nonostante la creazione di quel muro impenetrabile e insuperabile, altri prigionieri fuggiaschi, antifascisti, giovani italiani che scelgono di stare dalla parte degli alleati, affrontano la traversata relativamente più corta, ma più controllata e più battuta: Sulmona-Casoli.
Dicembre 1943. L’altra via di fuga: Sulmona-Roma. È una ragazza-madre, una bravissima sarta, Iride Imperoli, la staffetta che accompagna in treno, da Sulmona a Roma, piccoli gruppi di ex prigionieri, ebrei e ricercati antifascisti. Nasce così il rapporto con Mons. Hugh Joseph O’Flaherty, che dal Vaticano dirige la cosiddetta Rome Organization per l’aiuto alle migliaia di ex prigionieri nascosti a Roma. Sarà definito “la primula rossa del Vaticano”, ma troverà la collaborazione di vari ex prigionieri del Campo 78 di Sulmona. Tra loro, il più importante, Sam Derry e con lui William Simpson e John Furman. Racconteranno le imprese di Roma occupata dai tedeschi nelle loro autobiografie: “The Rome Escape Line, Linea di fuga 1943-1944 Sulmona-Roma-Città del Vaticano” di Sam Derry, “A Vatican lifeline’44, La guerra in casa, la resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano” di William Simpson e “Be Not Fearful, Non aver paura” di John Furman. Tra il mese di dicembre 1943 e il gennaio 1944, Iride viene catturata a Roma, su delazione di una spia sulmonese. Alla cattura di Iride, condotta prima al carcere di via Tasso e poi a quello di Bussi e di Civitaquana, seguono le incursioni della Gestapo in vari appartamenti di Roma, dove sono rifugiati i prigionieri. A Civitaquana, in provincia di Pescara, la casa di un medico è adibita a carcere per decine di prigionieri, civili e politici antifascisti. Iride vi rimane alcuni mesi. Poi trasferita a L’Aquila e dopo la liberazione a Sulmona. A Civitaquana, con un tribunale-farsa, vengono condannati a morte quattro civili italiani. Di notte riescono fortunosamente a fuggire e mai più ricatturati. Anche Iride ha raccontato, in varie interviste, le sue avventure e disgrazie nell’aiuto ai prigionieri. Ne ha anche scritto, con l’aiuto del figlio Salvatore Colaprete, un opuscolo inedito, riportato in parte nel libro “Terra di libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”, a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta.
Fuga dal treno: Autunno-Inverno 1943-1944
Dal Campo 78, dopo l’8 settembre, i prigionieri alleati vengono incolonnati e accompagnati alla stazione di Sulmona per essere immessi nei vagoni dei treni e deportati in Germania, ai campi di lavoro. Le colonne dei prigionieri sono generalmente controllate da guardie tedesche, che non risparmiano pallottole contro coloro che cercano di allontanarsi dallo schieramento. Sui vagoni, simili a quelli diretti ad Auschwitz, i prigionieri sono addossati gli uni sugli altri, senza servizi igienici, scarse aperture per l’aria. Un ammasso di gente destinata a morire subito o all’arrivo in Germania, dopo giorni di tragitto in condizioni invivibili. Ma anche in queste condizioni, si pensa alla fuga. Ne sono testimonianze quelle di Jack Goody, Sam Derry, John Verney e altri. Verney, nel bellissimo libro “A Dinner of Herbs, Un pranzo di erbe” racconta: «La lunga fila di prigionieri, sotto la scorta delle sentinelle, si dirigeva a passo strascicato verso un treno di carri bestiame. A sera inoltrata, una fila di lampade, parzialmente oscurate per la paura dei bombardamenti, gettava ad intervalli una luce spettrale. Il mal di testa divenne così acuto che, ogni tanto, mi rannicchiavo sullo zaino. Il mio malessere era talmente evidente che un soldato tedesco si avvicinò chiedendomi se avessi bisogno di un dottore. Immaginando fresche lenzuola d’ospedale, fui tentato di dire di sì, ma Amos lo assicurò che stavo bene. […] Si udì uno sparo, all'inizio della fila. Il lento passo di marcia e il sussurrare di millecinquecento voci crearono un’atmosfera di silenzio spettrale, che durò qualche secondo. Una o due grida. E di nuovo silenzio. Poi la conversazione riprese con forzata indifferenza. "Uno jugoslavo ha cercato di fuggire. La sentinella gli ha sparato e l’ha ucciso". La notizia, mormorata lungo la fila, provocò un altro brivido.
"L'ho visto quando è successo", disse più tardi qualcuno. "Un pezzo d’uomo con i capelli neri e con una sciarpa bianca di cotone intorno al collo". Poco dopo, passammo vicino a quella figura indistinguibile. Un paio di stivali usciva da sotto un sacco. Era l’avvertimento per chi stava pensando di attuare un simile piano di fuga. […] Intorno alle 23, Amos, Mark ed io eravamo stretti su un carro bestiame insieme ad altre trenta persone. Il pavimento puzzava di pecora, o forse di capra. Fu chiusa la porta scorrevole e bloccata dall'esterno. Abituatomi all'oscurità, scorsi un barlume di cielo, attraverso l'apertura per l’aerazione sotto il tetto, dalla parte opposta. Iniziò il viaggio verso la Germania. Il treno cominciò a muoversi un po’ avanti e un po’ indietro. Mezzo addormentato mi chiesi se stavamo andando verso Roma, ma non avevo nessuna idea della distanza e del tempo. Poi ci muovemmo in avanti e caddi addormentato come un sasso. Mi risvegliai che il treno era fermo. Mal di testa sparito, come mi succede spesso. Mi sentivo bene e scoppiavo di salute. Amos mi stava scuotendo la spalla, dicendomi di dare un’occhiata. Ci mettemmo in piedi con cautela e cercammo di arrivare all'apertura per l’aerazione, passando sui corpi. Era abbastanza alto per poter dare un'occhiata fuori. Disse che eravamo vicini ad una ripida altura, che una sentinella tedesca andava avanti e indietro lungo la linea e che la notte era abbastanza scura. Il treno poteva ripartire da un momento all’altro. Non c'era tempo per raccogliere la nostra roba o le nostre provviste. Mi aiutò a sollevarmi e rimasi appeso mezzo dentro e mezzo fuori dall'apertura, cercando di sentire i passi della sentinella. Stava allontanandosi. Riuscii a scendere lungo la ferrovia e mi arrampicai sull'altura, gettandomi sul terreno coltivato a fagioli. Lo ricordo bene. Qualche istante dopo, Amos giacque affannato al mio fianco. Dopo un lunghissimo minuto il treno ripartì. Non appena si allontanò, qualcuno si gettò goffamente tra i fagioli vicino a noi. Nascondemmo facce e corpi a terra, nel timore di essere visti da qualche contadino italiano o da un soldato tedesco. Ci stavano cercando, ma non quelli che avevamo immaginato. "Eccovi", disse l'uomo, raggiungendoci. "Cristo, Mark, chi ti ha chiesto di venire?" dissi sottovoce».
John Verney e gli altri due arrivano a Introdacqua, poi alle casette di Pettorano, dove troveranno accoglienza, ospitalità e aiuto dalle famiglie Amatangelo e Crugnale. Ecco come Sam Derry (“The Rome Escape Line, Linea di fuga 1943-1944), che poi arriverà in Vaticano e sarà il più importante collaboratore di Mons. O’ Flaherty, racconta il suo salto dal treno nei pressi di Tivoli: «“E’ una follia!”, pensai, quando in un assolato mattino italiano la porta del vagone si aprì e mi lanciai dal treno in corsa che trasportava i prigionieri di guerra. Tremo ancora, quando ripenso a come rotolai e rimbalzai su una coltre di sassi, terribilmente vicino all’assordante rombo delle ruote del treno. All’improvviso rimasi senza fiato, colpito da un dolore lancinante. Toccai il suolo piegato goffamente sulle ginocchia, mi sporsi in avanti e, scivolando, mi ritrovai sdraiato a terra dopo un’eternità di secondi, pieno di graffi, braccia e gambe aperte, come una camera d’aria sgonfia. Ero lì, inerme, aspettando solo di essere colpito. Incredibilmente, inspiegabilmente, gli spari non arrivarono». Jack Goody, considerato il più grande antropologo britannico, catturato in guerra dall’Afrika Korps di Rommel, arriva al Campo 21 di Chieti e poi al Campo 78 di Sulmona. Salta dal treno che lo sta portando in Germania e si trova nei pressi di Anversa degli Abruzzi e poi, insieme al gruppetto di amici si dirige verso Casale di Cocullo, nascondendosi in una grotta, sfamati dagli abitanti (“Oltre i muri, la mia prigionia in Italia”). La sua testimonianza, al ritorno in Abruzzo: «Non ho passato molto tempo in Abruzzo, ma il tempo che vi ho passato è stato molto intenso e mi ha segnato per sempre. […] In realtà furono molto gentili, ci dettero qualcosa da mangiare e ci mostrarono una grotta dove poterci stendere e nasconderci meglio. Da lì in poi, si presero buona cura di noi».
Gennaio 1944. Alle quattro di pomeriggio del 13 gennaio, si mette in marcia un gruppo di cento uomini. La guida è uno solo, Domenico Silvestri. Il resoconto della traversata è sulle pagine del libro autobiografico di John Esmond Fox, “Spaghetti and Barbed Wire, Spaghetti e filo spinato”. Fox con altri due compagni di fuga non solo conosce Domenico, ma viene ospitato nella sua abitazione, a Cantone, una frazione tra Sulmona e Introdacqua. Poco più di tre mesi, nascosti in casa Silvestri. Fox apparteneva al IV reggimento Royal Horse Artillery, catturato in Africa dai tedeschi. Trasportato a Napoli con una nave-ospedale, rimane per qualche mese ricoverato nell'ospedale della città. Successivamente viene trasferito a Sulmona e rinchiuso nel campo di concentramento. I suoi vari tentativi di fuga falliscono miseramente. Assiste al bombardamento di Sulmona e viene a sapere dell'invasione alleata in Sicilia. Fox e altri due amici, George e Tony, fuggono sul Morrone, ma vengono poco dopo ripresi e rinchiusi di nuovo nel campo. Durante questo secondo periodo di prigionia, Fox e i suoi compagni assistono al cannoneggiamento e alla distruzione dell'Eremo del Morrone. Temendo di essere trasportati in Germania, in tre, l'autore con i compagni Barrel e Frank, riescono a fuggire. Ospitati da varie famiglie in luoghi sempre diversi, vengono infine accolti ed ospitati dalla famiglia di Domenico Silvestri. Ribattezzati con i nomi italiani di Paolo Pastore, Francesco Re e Giacomo Volpe, conoscono meglio anche i vicini di casa, amici della famiglia Silvestri: Grandina, Angela, Peppino, ecc. Nel Post-Scriptum al libro, Fox scrive: “Del gruppo di cento uomini che si erano messi in marcia, alle quattro di pomeriggio del 13 gennaio, arrivarono a Casoli alle 11 del mattino del 15 gennaio, dopo un cammino di 36 ore, 47 uomini e 22 di essi furono ricoverati in ospedale per congelamento o per spossatezza. Non sono mai stato in grado di sapere che cosa accadde agli altri”.
L'idea fondamentale, che permea ogni pagina e diventa messaggio dell'intero lavoro di Fox, è che il mondo sarebbe un paradiso se la solidarietà, l'amicizia, l'ospitalità e la comprensione, trovate e provate in quegli anni, fossero sempre presenti nel mondo: “What a miracle it would be if such camaraderie, esprit de corps, call it what you will, prevailed in everyday life. The world would then indeed be a step nearer the ultimate Utopia of our cherished dreams (Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita quotidiana. Il mondo allora davvero sarebbe un passo più vicino all'ultima Utopia dei nostri sogni più cari)". Domenico è un cacciatore che conosce molto bene le montagne della zona. In collegamento con gli altri, in particolare con i fratelli Balassone, organizza numerose traversate da Sulmona a Casoli, dove dal dicembre 1943 si trova il comando alleato. Incontra il giovane Carlo Azeglio Ciampi e Guido Calogero in casa del parroco di Bugnara, don Ciccio De Pamphilis. Secondo il racconto di Domenico, Calogero gli offre del denaro per la traversata. Ma lui risponde: “Se vi porterò oltre le linee lo farò senza compenso: non si fa mercato della vita umana”. L’ultima spedizione, nel marzo del 1944, guidata da Domenico, viene intercettata da una pattuglia tedesca e tutti i componenti arrestati. Condotto con molti altri nel carcere di Civitaquana, vi rimane per qualche mese. Mentre sta per essere deportato in Germania si dà alla fuga, come lui stesso racconta: “Eravamo nei pressi di Pedaso, quando di notte mi si presentò l’opportunità di fuggire. […] Eravamo guardati da un solo tedesco che alla sera si sbronzava regolarmente. Fu così che mentre il guardiano si immerse in un sonno di piombo per via del vino ingerito, io presi la fuga e dopo pochi giorni ero a Sulmona ormai liberata.”
24 marzo 1944. La traversata è guidata da Alberto Pietrorazio, Mario Di Cesare e Gino Ranalli. Vi partecipano Carlo Azeglio Ciampi con gli amici Oscar e Carlo Autiero, sulmonesi, insieme ad un gruppo di molte decine di persone. Ciampi si trova a Scanno, e venendo di tanto in tanto a Sulmona, presso la famiglia Cantelmi, conosce molte persone impegnate nella “resistenza umanitaria”, che organizzano le traversate. Tra queste, Roberto Cicerone. Al momento della dichiarazione dell’armistizio, Ciampi si trova a Livorno, città dove è nato il 9 dicembre 1920, in temporanea licenza dall’Albania. Da Livorno si reca a Roma in casa dello zio Enrico Alfredo Masino, funzionario del Ministero dell’Agricoltura, coniugato con Luisa Sforza, per avere notizie sulla sua destinazione. Ma, nel caos derivato dall’armistizio e dopo gli scontri a Porta San Paolo, sollecitato dalla cugina Paola Masino, scrittrice e amica della famiglia Quaglione, che abita nella stessa palazzina in viale Liegi 6, si unisce a Pasqualino Quaglione, per dirigersi alla volta di Scanno. Partono da Roma, con una tradotta che va a Pescara. Si accordano con il macchinista, in modo che il treno rallenti alla stazione di Anversa-Villalago-Scanno ed avere quindi la possibilità di scendere dal treno in corsa, senza serie conseguenze. Cosa che avviene felicemente. Ma, alla stazione di Anversa degli Abruzzi, inaspettatamente, Ciampi trova un amico di Livorno, che con la madre sta cercando di raggiungere Napoli, seguendo la linea ferroviaria Sulmona-Carpinone-Napoli. L’amico è l’ebreo Beniamino Sadun, col quale, rifugiandosi in soffitta di qualche casa amica o nei casolari di montagna, trascorre i lunghi mesi invernali del 1943-’44. A Scanno, Carlo Azeglio ritrova il suo professore di filosofia alla Normale di Pisa, Guido Calogero. Insieme, maestro e discepolo, si aiutano e collaborano alla stesura dei documenti sul liberalsocialismo.
Della traversata, Ciampi lascia un diario, scritto appena giunto a Bari. Una traversata che da Sulmona raggiunge Casoli, senza incidenti con i tedeschi, perché i marciatori cercano di evitare il paese di Palena e di scendere a Taranta Peligna, dove incontrano le avanguardie dell’Ottava Armata. «24 marzo, venerdì.Il tempo è bello: quindi si dovrebbe finalmente partire. All’una, mentre finiamo di mangiare, (ero ospite da due giorni in casa Cantelmi) delle formazioni aeree inglesi bombardano Sulmona; subito dopo usciamo: hanno mirato alla Stazione ed al ponte sulla strada di Popoli, senza colpirlo; fortunatamente nessuna vittima. Venuto a sapere che la nostra partenza è anticipata, affretto gli ultimi preparativi ed alle 16,30 raggiungo le casette. Alle 17,15 cominciamo a muoverci: 21 prigionieri e civili pochi dapprima, ma subito un’altra quindicina si aggiunge per i campi. […] Arriviamo ormai a notte sotto a Pacentro e là ci riuniamo con l’altro gruppo, condotto da Mario e Gino. Verso le venti cominciamo la marcia in silenzio e in fila indiana; durante una breve sosta mi sento chiamare e riconosco Carlo ed Oscar Autiero, che hanno deciso di partire proprio poche ore prima. La marcia prosegue assai bene: cielo sereno, poco freddo; saremmo una sessantina, di cui venticinque prigionieri; fisicamente mi sento a posto. Verso gli ottocento metri comincia la neve; poco dopo Alberto ci invita ad essere particolarmente silenziosi perché siamo vicini a Campo di Giove… Continuando la salita diventa sempre più aspra, la neve è buona; regge assai bene e si sprofonda poco: però qualcuno comincia a scoppiare, cerco di aiutare, insieme ad un altro, un prigioniero che non ce la fa più. Avvertiamo Alberto, ma questo dice che non può rallentare la marcia inquantoché si deve giungere al Guado di Coccia prima dell’alba, pena la sicurezza della spedizione: così quello deve essere abbandonato… Alle quattro, ormai del 25 marzo, siamo sul Guado, purtroppo il tempo è improvvisamente mutato, il cielo è nuvoloso e si alza un forte vento: ci fermiamo un buon quarto d’ora per attendere i più lenti; mangio un po’ di zucchero e biscotti con neve. Proseguiamo, ma poco dopo siamo costretti a fermarci, è cominciata una vera e propria tormenta e le guide non osano andare avanti così al buio: attendiamo per più di mezz’ora l’alba sotto un vento gelido e con nevischio, battendo i piedi per non farli congelare; io li sento zuppi: nella salita ho perso il basco e lo sostituisco con una maglia che mi fa da passamontagna…
Al primo vallone Alberto comincia inspiegabilmente a scendere: dopo un po’ si ferma imbarazzato; lo raggiungo con Carlo Autiero: ha perso completamente la bussola e io con una vera bussola alla mano gli mostro che seguitando a scendere andiamo senz’altro a finire in mano ai tedeschi. Dobbiamo quindi risalire e dirigerci verso oriente: ora è Mario che ci guida. La tormenta diventa sempre più forte ed ormai non ci abbandonerà fino a destinazione. Oscar Autiero comincia a dire che non ce la fa più: sono le sette circa. La sua crisi si accentua: il fratello ed io siamo costretti a tirarlo a turno, mentre ci distacchiamo dal gruppo. Sono preoccupato che il distacco non si accentui troppo, perché la traccia che il gruppo lascia, poco marcata per il fondo gelato, può venire presto ricoperta dalla neve che fiocca. Fortunatamente il gruppo fa dei numerosi alt: molti sono infatti quelli che non ce la fanno più ed alcuni di essi debbono rimanere abbandonati: poveretti! Rimanere nella neve in quelle condizioni vuol dire la vita! Ad un tratto Oscar si butta a terra dicendo di non farcela più, che si sente rompere il cuore e conclude: “Lasciatemi, andate pure avanti, io ho tanto sonno, dormo un po’ e poi vi raggiungo!”. Ha la faccia paonazza. Io e Carlo ci guardiamo scoraggiati, lo riprendiamo ad alta voce, lo scuotiamo: io gli verso dello zucchero in bocca e gli faccio mangiare un po’ di marmellata. Riusciamo a farlo alzare e continuiamo a trascinarlo fermandoci si può dire ogni cento metri e dicendogli che ormai si tratta solo di mezz’ora. Così fin oltre le dieci, storditi ed accecati dal vento e dalla neve, riunendoci ogni tanto al gruppo e poi nuovamente perdendo contatto. Fortunatamente pian piano Oscar supera la crisi, lui dice in virtù dello zucchero e della marmellata e cammina quasi senza aiuto.
Al quinto vallone iniziamo la discesa: le guide stesse non sanno neppure loro dove precisamente si vada a finire! Io dalla direzione tenuta e dalla strada fatta penso che al peggio dovremmo essere nel vallone di Taranta e quindi uscire nella terra di nessuno. Arrivati quasi a valle, attraverso una neve che in parte fresca e in parte non gelata regge poco, la tormenta cessa e vediamo sotto noi un paesetto quasi completamente distrutto. A vederci siamo assai mal ridotti: i piedi li sento gelati, specialmente il destro, dato che si è scucito il tallone della scarpa; le mani pure, perché i guanti di lana bagnati dalla neve sono diventati rigidi, ugualmente buona parte della maglia che ho in testa: alle sopracciglia ed ai capelli sulla fronte si è attaccata la neve che poi si è ghiacciata: non posso toglierla, altrimenti strapperei tutto. Che il paese sia Taranta viene riconosciuto solo mentre lo raggiungiamo: non si vede anima viva. Ci fermiamo alcuni minuti sulla strada rotabile, poi entriamo nel paese e ci viene incontro tra la nostra gioia un tenente indiano. Ce l’abbiamo fatta.»
Domenica 16 Luglio 2017 a Salle (Pe) torna la manifestazione dei Palmentieri
La manifestazione folkloristica dei Palmenteri è un'antica tradizione per la quale tutta la popolazione, con offerte e doni, concorra e partecipi alle spese per i festeggiamenti in onore del Beato Roberto, Protettore di Salle e discepolo di Celestino V. La domenica prima del 18 luglio, nelle prime ore del pomeriggio, il Comitato Festa inizia il giro del paese preceduto da un gruppo di suonatori di tamburo e di acciarino (un triangolo metallico) che dà il segnale ai sallesi di uscire dalle loro case con i propri "Palmenteri", cioè con i doni ornati di fronde e fiori, e di unirsi al corteo dietro le ragazze del paese che sfilano vestite con i tradizionali costumi abruzzesi. Finito il giro dell'intero paese, la lunga processione giunge nella piazza centrale.
Qui i doni, dolci, pane casereccio, pizze, formaggi, porchette, vini, ma anche polli e conigli, vengono messi in mostra su un enorme stand in piazza e vengono venduti al miglior offerente. Tutto il ricavato della vendita contribuisce a coprire le spese per i festeggiamenti in onore del Beato Roberto.
Da circa 4 anni questa tradizione viene ricordata nel mese di agosto, con una giornata organizzata nel centro storico di Pescasseroli. Quest'anno, a cura dell'Associazione Culturale Commercianti del Centro Storico, i CECI DELLA SPOSA saranno organizzati il 12 agosto. La giornata prevede una dimostrazione in loco del particolare metodo di cottura dei ceci in compagnia delle "ceciare" e dei loro canti, una sfilata di antichi abiti da sposa indossati dalle giovani del luogo e naturalmente la disponibilità del legume, già insaporito e pronto per essere degustato.
I Ceci della Sposa sono un'antica tradizione di Pescasseroli. Sembra che questa tradizione sia stata importata dalla Puglia grazie alla transumanza. Già gli antichi Greci conoscevano le proprietà di questo legume: grandi razioni di ceci venivano somministrate ai cavalli prima delle battaglie perché davano loro molta energia e resistenza fisica alla fatica. Agli stalloni invece venivano somministrati sia per aumentare la loro vigoria sia perché si credeva che incidesse sulla qualità dello sperma in termini quantitativi e qualitativi. In alcuni scritti di Plinio il Vecchio, si legge che anche nell'antica Roma, i ceci venivano somministrati ai gladiatori prima delle gare nel Colosseo e ai guerrieri prima delle battaglie per aumentarne vigore, resistenza e ardore.
Oggi a Pescasseroli, in occasione di un matrimonio, si preparano, secondo una particolare tecnica, circa 60 kg di ceci (30 kg per la sposa e 30 kg per lo sposo) come augurio di fertilità alla coppia. Anticamente tutto il lavoro di preparazione era di competenza delle sole donne della famiglie, mentre agli uomini spettava l'organizzazione tecnica: gas, fornelli, panche, tavoli, pentole, ecc... La preparazione dei ceci ha inizio circa due mesi prima della data del matrimonio, quando gli sposi si recano alla cava di Opi per raccogliere la "sabbia", ovvero una rena bianca ivi reperibile. Questa rena viene raccolta con picconi e rastrelli, setacciata e ripulita dalle impurità. Viene poi tenuta in un luogo asciutto e chiuso per farla asciugare.
Quando la sabbia è pronta ha inizio la vera preparazione: in mattinata, in particolari pentoloni di rame, detti "cuttrell", si mette dell'acqua a bollire con del rosmarino, del succo di limone, del succo di arancia e un po' alloro. Quando il loro profumo si sprigiona nell'aria si spegne il fuoco e si lascia raffreddare il tutto. La sera vi si mettono in ammollo i ceci. Durante questa operazioni si recita 3 volte il CREDO cattolico. Su questa usanza abbiamo poche notizie: alcuni dicono sia un modo per scandire il tempo necessario al mescolamento dei ceci con l'acqua, altri dicono sia un semplice modo per raccomandare gli sposi a Dio. La mattina seguente, verso le 6, i ceci vengono tolti dall'acqua e messi a scolare all'ombra, coperti da pezzi di stoffa per evitare di farli seccare all'aria. Una volta scolati si può finalmente procedere alla vera e propria cottura: le "cutrell" vengono messe sui fornelli e il loro fondo viene riempito con la giusta quantità di sabbia. Viene acceso il fuoco e quando la sabbia inizia a colorarsi, si aggiungono ad essa le bucce d'arancia, le foglie d'alloro e un po' di ceci e si inizia a girare lentamente. Quando i ceci sono cotti iniziano a scoppiettare e tutto il contenuto della pentola viene rovesciato su un setaccio per eliminare la sabbia. I ceci così raccolti vengono disposti su una spianatoia, dove un gruppo di donne (in genere le partecipanti più anziane) tra canti e chiacchiere, elimina i ceci che si sono spezzati o bruciati durante la cottura e fornisce indicazioni sulle modalità di cottura: "abbassate il fuoco, state bruciando tutto", "alzate la fiamma, i ceci sono tutti molli", "girate piano, sono tutti rotti"... Terminata questa fase si prepara un telo di nylon e vi si adagia sopra un lenzuolo, sul quale vengono riversati tutti i ceci. Vengono qui imbevuti con un misto di liquori aromatici (rum, cointreau, maraschino, anice,...) e aromatizzati con vanillina, stecche di cannella spezzettata e semi di anice. Solo a questo punto intervengono gli sposi: tra le grida dei presenti "EVVIVA GLI SPOSI" e il canto: "tanti auguri a voi, tanti auguri a voi, tanti auguri agli sposi, tanti auguri a voi" spetta a loro il compito di gettare sui ceci confetti classici e confetti cannellini, come augurio di fertilità e ricchezza.
Le donne poi prendono il lenzuolo e iniziano a tirarlo prima da una parte e poi dall'altra per fare in modo che i liquori e gli aromi si mescolino bene sui ceci. Si continua per il tempo necessario a cantare "Gondolì Gondolà" di Sergio Bruni. Poi si chiude il lenzuolo e si lasciano riposare i ceci per circa 24 ore. A questo punto ormai è sera e tutti i partecipanti, stanchi e pieni di polvere, sono invitati dalla famiglia degli sposi a rimanere per cena, dove carne alla brace, risate e buon vino ripagano tutti del lavoro svolto. Trascorse le 24 ore, i ceci vengono messi in federe dei cuscini e trasferiti in un locale con le giuste condizione di umidità: non troppo asciutto per evitare che i legumi si secchino e non troppo umido per evitare la formazione della muffa. Ogni 2-3 giorni i ceci vengono smossi nelle federe e aggiustati con l'aggiunta di aromi per raggiungere il giusto sapore. Quando i confetti si sono sciolti e rimane solo la mandorla nuda è giunto il momento di dividere i confetti in sacchetti di plastica, nei quali verranno aggiunti confetti e cioccolatini. Questi sacchetti verranno poi regalati prima e dopo il matrimonio alle persone che andranno a far visita a casa degli sposi e delle loro famiglie. In passato invece venivano offerti alla fine del pranzo nuziale insieme ai taralli, perché contribuivano a far bere vino e così a mantenere allegra la compagnia e lo spirito della festa.
E' quindi una festa familiare, dove per tradizione partecipano i familiare degli sposi, i vicini di casa, gli amici più stretti e il gruppo delle anziane esperte nella preparazione, dette "ceciare".
Avete mai notato quanto sono lunghi i titoli di coda di un film? Non solo attori, attrici, regista, aiuto regista, produttori, sceneggiatori, scenografi e musicisti, ma anche fotografi, cameramen, elettricisti, tecnici del suono, parrucchieri, autisti, truccatori. E forse ho dimenticato tanti altri lavoratori della grande industria dei sogni, il cinema.
Nella nostra città ricche informazioni sui molteplici aspetti del lavoro nel cinema si possono trovare al secondo piano dell’attuale sede di Bazzano della Biblioteca Provinciale “Salvatore Tommasi”, dove è ospitato l’Istituto Cinematografico “La Lanterna Magica”.
“La Lanterna Magica” è un ente morale fondato nel 1981 per lo studio, ricerca, tutela, conservazione e restauro di macchine, pellicole, video, libri e giornali riguardanti l’industria del cinema. Uno degli sforzi maggiori dell’Istituto Cinematografico, dopo anni di studio e ricerca, è stato nel 1995la fondazione dell’Accademia dell’Immagine, Scuola di Alta Formazione nel settore del cinema e della comunicazione audiovisiva. Nel corso del tempo è diventata un punto di riferimento importante per operatori, studiosi e appassionati del mondo del cinema e dell’audiovisivo, e ha creato importanti rapporti con esponenti della cultura e dello spettacolo e con la stampa nazionale ed estera.
Nella sede de “La Lanterna Magica”, si possono vedere gli oggetti concreti dell’industria del cinema, pellicole e dischetti di film vecchi e nuovi, provenienti da tutto il mondo, libri, giornali, manifesti e foto autografate di miti del cinema. Ed anche, alcune macchine da proiezione, grosse, ingombranti, che tanto tempo fa facevano girare i rotoli delle pellicole. Insomma, si vedono gli oggetti che hanno creato e creano tuttora i nostri amici di fantasia, i personaggi, gli attori e le attrici indimenticabili con le loro storie d’amore, i dialoghi memorabili e i luoghi esotici che ci hanno accompagnato nel corso del tempo nelle sale cinematografiche, dove si entrava e si entra tuttora per trovare una poltrona al buio, una magia per rilassarsi e dimenticare il presente lasciandosi coinvolgere dalle storie che scorrono sullo schermo.
Per sapere qualche cosa di più sull’attività attuale e futura di questo istituto incontro Manuela D’Innocenzo. Informata, disponibile e sorridente, lavora presso l’istituto da vent’anni, e apprendo da lei tante notizie sulla vita dell’Istituto, un fitto intreccio di conoscenze tecnologiche, cicli di proiezioni, incontri culturali, di cui riporto in sintesi alcuni esempi.
Nel 2010, dopo il sisma, il Coordinamento Scientifico-Culturale, formato da Manuela D’Innocenzo, Pierluigi Rossi e Giovanni Chilante, ridefinì lo scopo dell’Ente costituendo ilCentro Archivio Cinematografico e ilMuseo delle Arti e dei Mestieri del Cinema.
Dal 2010 esiste anche la cineteca Maria Pia Casilio, una raccolta di 1000 film, biblioteca, emeroteca e audiovisivi, che oggi ha il vincolo della sovrintendenza archivistica. Mi pare opportuno ricordare Maria Pia Casilio, un volto fra i più significativi della commedia all’italiana, nata a Paganica nel 1935. La figlia Francesca Rinaldi ha donato all’Istituto Cinematografico nel 2014 preziosi oggetti personali appartenuti all’attrice, pezzi unici e introvabili come il bracciale portato per la prima di Umberto D. La cineteca è anche un laboratorio, le vecchie pellicole sono materiali catalogati e vengono restaurate a mano, ove possibile. C’è anche una macchina che consente di intervenire direttamente sulle pellicole per riparare eventuali danni ed anche il “tavolo passafilm”, dotato di uno stroboscopio, strumento che trascrive il film in digitale, per cui la vecchia pellicola non viene più usata e usurata, usando per la proiezione il DVD. La più famosa delle vecchie pellicole digitalizzate è “Ridolini e la collana della suocera”.
Tra le attività ricordo anche le rassegne cinematografiche all’aperto, in collaborazione con enti pubblici e privati. Per le proiezioni all’aperto cito in modo particolare Marco Reato, uno dei primi proiezionisti a portare il cinema all’aperto. Per questo si costruì una specie di cinema ambulante, una struttura che portava il cinema là dove la sala cinematografica non esisteva. Ha proiettato persino a Parigi, sotto la Torre Eiffel. Ha anche comprato foto autografe di personaggi del cinema e le ha donate al museo, facendole diventare un bene pubblico.
Tra i tanti riconoscimenti dello Stato e degli enti locali, ricordo che il Decreto del Ministeroper i Beni e le Attività Culturali del maggio 2006riconosceil fondo di pellicole cinematografiche come bene di interesse culturale particolarmente rilevante apponendo il vincolodi tutela. Consente anche ai tecnici specializzati presso l’Ente di operare il restauro manuale delle opere vincolate.Inoltre il Decreto del Presidentedel Consiglio dei Ministri del novembre 2009 attribuisce a “La Lanterna Magica” un contributo sulla quota dell’otto per mille dell’IRPEF, che ha consentito l’acquisizione di particolari attrezzature necessarie all’attività della Cineteca.
Questo è un bel capitolo della cultura aquilana, un patrimonio che va custodito e valorizzato, amplia gli orizzonti mentali e culturali, arricchisce la città di idee e linguaggi della comunicazione visiva. Da ricordare che è stato costruito con passione e lavoro, in parte volontario, e mette a disposizione dei ricercatori e appassionati del cinema tutte le informazioni sull’arte più bella e popolare del XX secolo.
Alle ultime battute la campagna elettorale ad ALANNO. Sono tre i candidati in corsa alla carica di sindaco.
Notizie d'Abruzzo ha raccolto una breve intervista ai candidati per le prossime elezioni del 11 giugno 2017.
Candidato Sindaco con la lista n.1 "Alanno in movimento" è Fabia FATTORE
I candidati della lista
Fabia FATTORE, candidato sindaco
BATTISTELLI Antonio
DI MICHELE Ladislao
DIODATO Francesca
DI PAOLO Giordano
GOBEO Monia
LEGNINI Donatello
LOMBARDI Luciano
ODOARDI Fiorenza
PECCHIA Mara Olga
SALTAFOSSI Antonino detto “Nino”
TOPPI Walter
TRULLI Rosario
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Candidato Sindaco con la lista n.2 "Continuità e rinnovamento" è Oscar PEZZI
I candidati della lista
Oscar PEZZI, candidato sindaco
ARETUSI Ilenia BREDA Angelica
BUFFONE Sandro
CHIACCHIA Sabrina
CUZZI Gaetano
DELL’ORSO Federica
DI DOMIZIO Fabio
DI PERSIO Lorenzo
GABRIELI Edoardo Walter
MONACO Matteo
PELUSI Raimondo
TOCCO Enisio
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Candidato Sindaco con la lista n.3 "Alanno viva" è Roberto SALERNI
I candidati della lista
Roberto SALERNI, candidato sindaco
COLANGELO Camillo ASSETTA Tonio ASSETTA Simone
BONGRAZIO Giorgia
BUCCELLA Lorenzo
BUCCELLA Maria Teresa
D’ALO’ Giuseppe detto “Ludovico”
DI MICHELE Andrea Giovanni
DI MICHELE Massimo GOBEO Sara
MASCIOLI Massimiliano
SPERANZA Agostino
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A SCAFA sono due gli sfidanti per la carica di sindaco nelle prossime elezioni amministrative dell'11 giugno 2017.
Notizie d'Abruzzo ha raccolto una breve intervista dei due candidati.
Con la lista n.1 "INSIEME PER CAMBIARE" il candidato sindaco è GIANNI CHIACCHIA
I candidati della lista
Gianni Chiacchia, candidato sindaco
Marco Donatelli
Dino Marangoni
Saverio Firmani
Simone Monaco
Gianni Iezzi
Domenico Conte
Angelo D’Attilio
Cristina Magnalardo
Ylenia Dell’Orso
Paolo Mastrodicasa
Gianpiero D’Ercole
Nadia Marcantonio
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Con la lista n.2 "PER IL BENE DI SCAFA" il candidato sindaco è MAURIZIO GIANCOLA
I candidati della lista
Maurizio Giancola, candidato Sindaco
Maurizio Lucio D'Alfonso
Emanuele Di Fabio
Daniele D'Astolfo
Cristiano Di Luca
Antonio Buccella
Emanuela Di Fiore
Fabio Di Venanzio
Valter De Luca
Daniela Di Paolo
Valentino Gigante
Giorgia Fabbro
Giordano Di Fiore
(NOTA: a tutti i candidati sono state sottoposte le medesime domande per 4 minuti di tempo, il posiziomento dei video su questa pagina è stato effettuato in base al numero della lista).
Ricordate Andy Warhol (1928-1987)? Pittore, scultore, regista è il rappresentante più tipico della pop art americana. Sono negli occhi di tutti i suoi ritratti in serie di Marilyn, o il barattolo della zuppa Campbell. A quarant’anni dalla sua morte ecco la mostra personale WARHOL/ism, this is not by me, dell’artista aquilano, Vincenzo Bonanni.
Quando ho letto la email di V. Bonanni, con la notizia di una sua mostra personale, ho cercato subito di capire dove questa avrebbe avuto luogo, curiosa di vedere l’evoluzione artistica di questo giovane aquilano. Dopo un po' di ricerca, ho capito che il luogo della mostra sarebbe stato lo schermo del mio computer. All’inizio di questo evento virtuale, però, l’autore chiarisce che esso precede l’uscita del libro monografico e della mostra personale. Di questa sì, vorrei sapere il dove. Quindi non c’è sostituzione dei mezzi espressivi tradizionali con il virtuale, ma semplicemente il virtuale precede e si aggiunge ad essi.
Dato il titolo della mostra vado a cercare Andy Warhol su Google e vedo un migliaio di immagini, fra cui noto una serie di autoritratti che seguono i cambiamenti del suo viso nel trascorrere del tempo e degli umori, multicolori ritratti di Marilyn e Liz Taylor, e gli immancabili barattoli di zuppa Campbell. Chiude la serie Warhol su Google una foto di Trump con il suo pagliaio biondo/rosso particolarmente scomposto. Cito una delle frasi celebri di Warhol, veramente attuale, se penso alle esibizioni recenti della first lady Trump, “Comprare è molto più americano di pensare, ed io sono molto americano.”
Apro il sito di V. Bonanni, e, sebbene quasi analfabeta informatica, prendo contatto con la mostra online. Introduce la mostra una canzone di David Bowie “Space Oddity”. Seguo le indicazioni della freccetta gialla, con essa apro e faccio scorrere i quattro capitoli in cui è suddivisa la mostra, ingrandisco e rimpicciolisco le immagini. Che significa dunque “Warholism, this is not by me”? Secondo me, il titolo ci dice che V. Bonanni trova la radice del suo lavoro nell’opera di Andy Warhol e, trasferendo nel mondo di oggi i modi espressivi di lui, crea quattro serie di immagini, che ripetute con variazioni di forma e colore, diventano memorabili icone del mondo di oggi. Le serie sono: Selfies/Autoritratti, Fires’s land/la Terra dei fuochi, Icons/Icone, Bruises and Blood/Ferite e Sangue, per un totale di ben 135 immagini, riunite in una sorta di scaletta da salire e scendere da destra verso sinistra o viceversa. Ogni capitolo è preceduto da una puntuale introduzione dell’autore.
All’inizio c’è la sequenza di Autoritratti che variano per età e stati d’animo, rappresentati con variazioni di colore, fra cui ricordo benissimo le sfumature di giallo.
Per La Terra deifuochi mi ha colpito la puntuale elencazione della composizione della “zuppa” tutta italiana e camorrista di quelle zone. La zuppa, contenuta in barattoli da aprire con la linguetta a strappo, è composta da un venefico mix di trenta elementi, in italiano ed in inglese. Questo elenco di veleni dà una sorta di vertigine depressa, pensando alla odierna situazione malata di alcuni paesi, Acerra, Nola e Marigliano, situati in quella che fu la Campania felix, di classica memoria.
Nel capitolo Icone compaiono ritratti di personaggi di oggi, collegati a quelli rappresentati da Andy Warhol: Alda Merini/Liz Taylor, Gino Strada/Mao, Roberto Saviano/Lenin sono citati come testimoni dell’Italia positiva e generosa di oggi.
Infine per Ferite eSangue, che trae origine dalla serie Death and Disaster, ricordo in modo particolare la rielaborazione di una immagine delle rovine della Piazza Duomo de L’Aquila causate dal sisma del 2009, prodotta subito dopo l’evento e parte della mostra Kyrie Eleison.
Già conosciamo la pittura di Vincenzo Bonanni per le sue mostre iniziate nel 2008. Grandi quadri/collage fatti di giornali, carte, e materie non sempre ben identificabili sparsi su tele, immagini unificate da sfumature di colori, usati sapientemente sulle superfici in modo più o meno denso, con pennellate veloci, sottili, ampie, leggere, pesanti. A tutto questo si aggiunge adesso un’altra abilità, quella di trasferire il tutto nel mondo virtuale. Mondo che ci priva del contatto reale con la materia della sua pittura, ma ci dà il modo di osservarla a casa nostra. Aspetto con ansia il cartaceo e la mostra reale.
La diffusione del culto del Volto Santo nelle Filippine e tra i cattolici di altri paesi asiatici nella testimonianza del cardinale Luis Antonio Tagle
di Antonio Bini
Soltanto pochi anni fa la secolare festa di maggio del Volto Santo a Manoppello vedeva l’esclusiva partecipazione di devoti del paese e di quelli provenienti da alcune località della regione, che fino agli anni sessanta raggiungevano a piedi il santuario, organizzati in compagnie, con in testa un crocifero o l’insegna del Volto Santo, che nei restanti giorni dell’anno custodito nelle rispettive chiese.
Quest’anno la festa ha visto la straordinaria partecipazione del cardinale di Manila, Luis Antonio Tagle, che ha presieduto la celebrazione della messa e ha poi partecipato alla processione che conduce la sacra immagine dal Santuario verso la chiesa parrocchiale di San Nicola, nel centro storico di Manoppello, ossia nel luogo dove un misterioso pellegrino la portò nel Cinquecento.
In continuità con la devozione popolare del passato, quest’anno sono arrivate le Compagnie di Vacri e di Contrada Santa Giusta di Lanciano, mentre sono stati in tanti i pellegrini che hanno raggiunto il santuario da ogni parte d’Italia e dall’estero. Tra quest’ultimi anche un gruppo di ortodossi russi. Tutti insieme, accomunati dal desiderio di partecipare ad un rituale che presenta aspetti molto suggestivi e assolutamente unici. Un segno di quanto quel mondo che per secoli aveva nascosto il Volto Santo si sia aperto al mondo.
Nella sua introduzione alla messa, il rettore del Santuario ha ringraziato il cardinale per aver voluto aderire all’invito, nonostante i suoi numerosi impegni internazionali, essendo anche responsabile della Caritas Internazionale. P. Carmine Cucinelli ha voluto ricordare come nell’agosto 2015, nell’imminenza della seconda missione internazionale del Volto Santo nelle Filippine, Canada e Usa, il cardinale di Manila aveva voluto rivolgere un sentito saluto a vescovi, religiosi e devoti delle Filippine e allo stesso p. Carmine, per la sua presenza in occasione dell’ anniversario dell’intronizzazione del Volto Santo a Nampicuan, nella chiesa ora divenuta il primo Santuario del Volto Santo in Asia. Il porporato, accolto da uno spontaneo e prolungato applauso, ha voluto farsi personale interprete e testimone del crescente culto del Volto Santo nelle Filippine e, di conseguenza, anche tra i cattolici di altri paesi asiatici, portando “i suoi saluti e auguri di pace dalle Filippine, dove la devozione al Santo Volto è viva, vibrante e largamente diffusa”.
Iniziando la sua omelia, ha affermato che “con gioia partecipava alla festa del Volto Santo”. Nello sviluppare riflessioni teologiche sul volto umano di Cristo, Tagle – innanzi alla sacra immagine - ha affermato che la stessa rappresenta “ una grande benedizione concessa a tutti noiLa processione si è poi sviluppata mantenendo il rituale tradizionale di sempre. Al termine della messa, ha raggiunto il Santuario il Santo Patrono di Manoppello, san Pancrazio, venuto “a prendere” il Volto Santo, fermandosi in attesa sul sagrato. Un esempio seguito in passato anche da diversi paesi vicini, con intere comunità in processione al Volto Santo insieme ai loro santi patroni, a testimonianza dell’importanza che la devozione popolare attribuiva all’immagine di Cristo, prima ancora che studi e ricerche negli ultimi anni ne rivelassero l’unicità e l’autenticità, riconoscendola infine nella leggendaria Veronica (vera-ikon), per anni avvolta e forse protetta dall’oblio.
Poi il coro della basilica, diretta dal maestro Nicola Costantini, la banda, una doppia fila di bambini vestiti da angioletti e quindi il cardinale, insieme a p. Carmine Cucinelli, p. Paolo Palombarini, e altri religiosi tra cui don Bonifacio (Ted) Lopez, sacerdote filippino della Diocesi di Roma, che precedono il Volto Santo, con a seguire il sindaco di Manoppello insieme ad altri sindaci dei comuni limitrofi, che indossano la fascia tricolore e quindi da lunga folla di partecipanti. Durante il percorso sono visibili i manifesti di saluto e benvenuto che il Comune ha fatto affiggere sui muri della cittadina.
Al termine della discesa i portatori del Volto Santo si fermano, facendo ruotare il trono sul quale è fissato l’ostensorio per la benedizione, un tempo diretta alle popolazioni e ai territori circostanti. Ma oggi il cardinale Tagle impartisce la sua benedizione sul mondo.
La processione poi riprende lentamente il suo percorso, tra canti, preghiere, pause di meditazione e suoni di banda. Avvicinandosi al paese iniziano vibranti e prolungati spari, il cosi detto “Saluto al Volto Santo”. La processione raggiunge il centro storico tra ali di folla, mentre dai balconi, sui quali sono esposte coperte lavorate a mano, piovono petali di fiori al passaggio del Volto Santo. All’inizio del corso principale, la processione si ferma all’inizio di corso Santarelli, per consentire il rientro della statua di San Pancrazio nell’omonima chiesa, salutato dall’applauso dei presenti.
Il Volto Santo riprende il cammino, raggiungendo la chiesa di San Nicola, dove sarà vegliato tutta la notte, per poi far rientro al santuario nella mattina successiva.
Incontro tante persone, tra cui lo scrittore Paul Badde, le studiose tedesche s. Blandina PaschalisScloemer e sr. Petra-Maria Stainer. Mi fermo a salutare sr. Laura. Quando l’anziana suora mi vede si commuove, inizia a piangere. Era ed è legatissima al Volto Santo. E’ tornata a Manoppello per la festa, dopo che il suo convento della Alcantarine, adiacente alla chiesa di S. Nicola, è stato chiuso dal dicembre, scorso dopo oltre un secolo di vita.
Il sindaco, Giorgio De Luca, invita il cardinale nella sede del Comune, a poca distanza, per un saluto ufficiale alla presenza di altri amministratori. Lo seguono molte persone.
Nel corso di una intervista alla domanda su quali fossero state le sue prime impressioni provate nell’incontrare per la prima volta il Volto Santo, il cardinale Tagle ha confessato di possedere una riproduzione dell’immagine ricevuta in dono da parte dall’Ambasciatrice delle Filippine presso la Santa Sede, Mecedes A. Tuason. Ha poi aggiunto che entrando in chiesa e fermandomi in preghiera al primo banco vicino all’altare, si era sono “sentito accolto, raggiunto da uno sguardo di tenerezza da parte di quel Volto che parla, che vive e che non incute timore. Un volto di verità”.
Tornando alla conoscenza e al culto del Volto Santo, il cardinale non ha dimenticato di ricordare il ruolo rivestito da Daisy Neves, devota americana di origini filippine, che da alcuni è impegnata con straordinaria generosità e instancabile dedizione nella divulgazione della sacra immagine, con numerose iniziative, in vari paesi, tra cui Filippine, Canada, Usa, Italia, Libano. Scorrendo le pagine del volumetto “The Holy Face, from Manoppello to the world”, da me pubblicato lo scorso anno – Tagle ha voluto ringraziare dal Santuario del Volto Santo la signora Neves e la crescente rete di amici e religiosi, diffusa in vari paesi del mondo, insieme a quanti sono impegnati nel divulgare la conoscenza del Volto Santo. ”. Il cardinale è tornato ad approfondire alcuni aspetti specifici della teologia del Volto Santo nel corso di una intervista rilasciata a Vittoria Biancardi di TV2000.
Prima di lasciare Manoppello, il porporato ha ringraziato i cappuccini per la fraterna e calorosa accoglienza, affermando che per lui è stata una grazia celebrare la festa del Volto Santo alla presenza di tanti pellegrini, invitando infine a pregare – da Manoppello - per la pace in Siria e Venezuela e per le popolazioni che soffrono la fame in Africa.
Infine una piccola curiosità. In questi ultimi anni sono stati tanti i cardinali a visitare il Volto Santo, prima e dopo l’arrivo di Benedetto XVI, eppure Luis Antonio Tagle è il primo cardinale a presenziare la festa del Volto Santo, guidando e partecipando per intero all’intero percorso della processione, che misura oltre due chilometri. Per registrare la presenza di un cardinale alla festa del Volto Santo bisogna andare indietro nel tempo, al 18 maggio 1947, quando a Manoppello giunse a Manoppello il cardinale Benedetto Aloisi Masella, per benedire il nuovo prezioso reliquario che la popolazione e gli emigranti vollero realizzare in ringraziamento al Volto Santo per essere stati risparmiati dalle distruzioni della guerra. In quell’occasione, il cardinale prese parte alla processione, limitatamente alla parte finale, percorrendo soltanto un centinaio di metri.
La scomparsa dell’importante manufatto non è dovuta al terremoto del 1703 e neppure al recente disastroso sisma del 2009, che ha letteralmente decapitata la chiesa, per la quale, purtroppo, dopo otto anni, ancora non si nota un benché mi-nimo cenno di ricostruzione. Esiste un testimone oculare d’eccezione che, intorno agli anni Sessanta del sec. XVIII, attesta la presenza dell’artistico monumento nella collegiata di Santa Maria Paganica. Si tratta dell’illustre cittadino aquilano Antonio Ludovico Anti-nori (1704-1778), benemerito storico di cose abruzzesi, nonché fedele servitore della Chiesa, per essere stato dal 1745 al 1757 arcivescovo di Lanciano e successivamente di Matera ed Acerenza.
Già collaboratore del Muratori nel 1731 per la realizzazione dei Rerum Italicorum Scripto-res, con il suo ritorno all’Aquila dal 1757 al 1778 ebbe modo di dedicarsi con maggior im-pegno agli studi storici, la maggior parte dei quali, conservati nella Biblioteca Salvatore Tommasi, ci sono arrivati 51 manoscritti, e sono: Annali degli Abruzzi (volumi 1-24), Co-rografia storica degli Abruzzi (volumi 25-42), Raccolta delle iscrizioni (volumi 43-47), Mo-numenti, uomini illustri e cose varie. Annali di Aquila (volumi 48-51).
Ma veniamo all’interessante oggetto della sua testimonianza, che trascriviamo da un suo manoscritto dell’Archivio di S. Maria Paganica, Corografia 48/2. S. Maria di Paganica, pp. 6-7 e p. 9, una copia di quello presente nella Biblioteca Salvatore Tommasi:
«Resta un sepolcro ben elevato in questa Chiesa dalla parte laterale della nave trasversa. Sembra opera del XV secolo, e forse è di Maria Cantelma, che vedova di Giordano Orsini Conte di Manoppel-lo sen venne a L’Aquila, e forse vi morì. La congettura nasce dal trovarsi nell’Archivio di questa Chiesa un real Diploma a lui spedito nel 1438; onde pare che benemerito di questa Chiesa vi eleg-gesse sepoltura, e legasse qualche cosa, di cui poteva disporre, onde restassero le scritture ancora di quella. Il Sepolcro è magnifico, e rilevato affisso in muro nella piegatura della nave riguardante verso l’altar maggiore. Era prima di essere affisso, quel muro dipinto a varie sacre immagini. Intor-no alla cassa di pietra sono scolpite le effigie del Salvatore, e dei SS. Pietro, Giovanni Battista, e Cate-rina martire. Resta essa cassa vuota; e non vi fu messo il Cadavere; o n’è stato poi tolto via. Su la cassa giace la statua di Donna con manto, e quanti ornati; varij libri sparsi; s’innalzano quindi due colonne le quali sostengono padiglione aperto di qua e di là da puttini alati. Niuna iscrizione e arma gentilizia».
L’Antinori, a p.9 dello stesso manoscritto, ha dei dubbi circa l’attribuzione del monumento e avanza un’altra ipotesi: «Il sepolcro esistente in S. Maria di Paganica sembra di Rita di Acquaviva, che nel 1448 rinunziò il Badessato di S. Maria a Graiano» presso Fontecchio. Nella puntuale descrizione del “magnifico sepolcro” confessiamo di aver pensato all’analogo monumento a Maria Pereyra Camponeschi in S. Bernardino, eseguito dallo scultore Silvestro dell’Aquila nel 1496.
Oltre al monumento, composto da varie sculture, è interessante anche la notizia circa il «muro dipinto a varie immagini». In una copia cartacea coeva di testamento del 20 dicem-bre 1454 dell’Archivio della Chiesa, si menziona un certo Iacobus Mactutii che lascia dispo-sizione per la costruzione, presso l’altare maggiore, di una cappella patronale dell’Annunciazione, nella quale si dovranno eseguire delle pitture di santi, secondo le mo-dalità scelte dagli esecutori testamentari. Altre notizie di affreschi, oggi scomparsi, perché distrutti o in parte ricoperti nel corso dei restauri fine Settecento - inizio Ottocento, si menzionano in un contratto del 31 maggio 1493, in cui il pittore Sebastiano di Cola da Cosentino s’impegna a terminare l’opera pittorica per la Cappella di Jacopo di Notar Nanni. Lacerti di questi affreschi (Fig.3), insieme a frammenti scultorei (Fig.4) e architet-
tonici sono riemersi con il crollo delle pareti nel sisma del 2009 e sono stati presentati a L’Aquila, nel luglio del 2010, in una mostra al Palazzo della Regione, una rassegna docu-mentata da un’ottima guida illustrata, Le macerie rivelano, di AAVV, a cura di Vincenzo Torrieri, della Sovrintendenza Archeologica.
La Guida, a pag. 91 riporta la foto di un frammento scultoreo di cm 31,7x 12,8 x 13, 4 spes-sore max (Fig. 4), rinvenuto nel crollo del muro presso il braccio destro del transetto, con la seguente descrizione:
«porzione di bassorilievo su lastra caratterizzato da un drappeggio verticale che avviluppa una cornice con motivo corrente di foglie d’acanto. La tipologia e le caratteristiche icono-grafiche del manufatto scultoreo sembrano ricondurre ad un monumento funerario (…) collocabile in ambiti culturali XV- XVI sec.».
Il luogo preciso del rinvenimento e la tipologia sembrano rimandare alla notizia del “sepol-cro ben rilevato” dell’Antinori. Se così è, che fine hanno fatto l’impalcatura architettonica del monumento e le statue della distesa “donna con manto”, delle statue “del Salvatore e dei SS. Pietro, Giovanni Battista e Caterina martire”, nonché dei “puttini alati”? C’è speranza di un rinvenimento più esauriente, previa indagine termografica, frugando nelle intercape-dini del muro? Lo speriamo, anche se siamo ben consapevoli che nelle ristrutturazione dei monumenti nei secoli passati non si aveva, come si tenta di avere oggi, una sufficiente co-scienza culturale per preservare in essi i segni importanti del loro vissuto.
Nel 1848, Angelo Leosini, nel lamentare la perdita in S. Maria Paganica della tomba di Sal-vatore Massonio e del rilievo del conte Gagliardo di Riparola (oggi rinvenuto in fram-menti, cfr. Fig. 5), esprime con grande amarezza un giudizio che non possiamo non condi-videre:
«Coll’andare de’ tempi e col restaurare i vecchi edifici si sono lasciate perire tante memorie che illustravano la nostra città; ed io per primo griderei la croce contro i nostri concittadini che sì poca cura hanno de’ monumenti antichi quasi che fossero di nessun pregio». (A. LEOSINI, Monumenti storici artistici della città di Aquila e con-torni, L’Aquila, 1848, p. 95).
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