Nei prossimi cinque anni, l’introduzione di una riforma che abbassi l’età pensionabile a 64 anni per tutti comporterebbe un impatto economico rilevante e immediato per la finanza pubblica. L’incremento del numero di nuovi pensionati, stimabile tra 120.000 e 160.000 unità aggiuntive all’anno, determinerebbe un aumento della spesa pensionistica pari a circa 0,3 punti percentuali di pil già nel primo anno di applicazione, con una tendenza progressiva che porterebbe l’incidenza sul pil dal 15,3% previsto per il 2025 al 16,2% entro il 2030, rispetto al 15,7% a normativa vigente. In valori assoluti, ciò si tradurrebbe in una maggiore spesa cumulata di circa 40 miliardi di euro nel quinquennio 2025–2029, ai prezzi costanti.
È quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo cui la differenza si manterrebbe stabile intorno a 0,5 punti percentuali di pil anche nel lungo periodo, con una spesa al 2070 pari al 14,5% del pil nel nuovo scenario, rispetto al 14% a legislazione invariata. L’effetto cumulato di questo scostamento tra il 2025 e il 2045 ammonterebbe, in termini nominali ai prezzi 2020, a circa 160-180 miliardi di euro di maggiore esborso complessivo. L’aggravio inciderebbe strutturalmente sull’indebitamento netto, mettendo sotto pressione il bilancio dello Stato proprio in una fase in cui si prevede una riduzione graduale del deficit e un rientro sotto la soglia del 3% nel medio periodo. Contestualmente, il minor gettito contributivo legato all’uscita anticipata di una quota consistente di lavoratori ridurrebbe la capacità del sistema previdenziale di autofinanziarsi, ampliando ulteriormente il fabbisogno da coprire con risorse generali. Nel primo quinquennio di applicazione, la riforma genererebbe uno squilibrio immediato e crescente, rendendo necessarie misure correttive o compensative per evitarne l’insostenibilità.
Secondo il Centro studi di Unimpresa, che ha elaborato dati della Ragioneria generale dello Stato, L’introduzione di una riforma previdenziale che abbassi l’età pensionabile a 64 anni per tutti i lavoratori, senza requisiti aggiuntivi né penalizzazioni attuariali, comporterebbe un impatto economico strutturale rilevante per la finanza pubblica italiana, soprattutto nel medio periodo. L’attuale assetto normativo stabilisce un’età pensionabile di 67 anni, con forme di flessibilità limitate e mirate, accompagnate da requisiti contributivi elevati. Le previsioni ufficiali a legislazione vigente stimano che la spesa pensionistica, espressa in percentuale del pil, si attesterà intorno al 15,3% nel 2025, con una graduale crescita fino al 17,1% nel 2040, per poi decrescere lentamente al 14% nel 2070, sulla base dell’effetto combinato tra invecchiamento della popolazione, maturazione del metodo contributivo e innalzamento dei requisiti anagrafici legati alla speranza di vita.
Nel caso di adozione della riforma ipotizzata, si determinerebbe un incremento immediato del numero di nuovi pensionati, stimabile tra 120.000 e 160.000 unità aggiuntive ogni anno nei primi cinque esercizi di applicazione, con un conseguente aumento della spesa pensionistica che già nel 2025 passerebbe dal 15,3% al 15,6% del pil, generando uno scostamento di 0,3 punti percentuali. Tale divario si allargherebbe progressivamente negli anni successivi, raggiungendo il 16,2% nel 2030 rispetto al 15,7% dello scenario base, per poi salire al 17,7% nel 2040, contro un livello atteso di 17,1% senza interventi. La differenza si manterrebbe stabile intorno a 0,5 punti percentuali di pil anche nel lungo periodo, con una spesa al 2070 pari al 14,5% del pil nel nuovo scenario, rispetto al 14% a legislazione invariata. L’effetto cumulato di questo scostamento tra il 2025 e il 2045 ammonterebbe, in termini nominali ai prezzi 2020, a circa 160-180 miliardi di euro di maggiore esborso complessivo. Si dovrebbe invece sostenere una maggiore spesa cumulata di circa 40 miliardi di euro nel quinquennio 2025–2029, ai prezzi costanti.